Palabanda e la tecnica repressiva dei Savoia: feroce e tendenzialmente preventiva

22 Agosto 2019
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Andrea Pubusa

 

La spietata repressione nei confronti di Salvatore Cadeddu e dei componenti del club di Palabanda per una rivolta mai iniziata si comprende meglio alla luce dell’ossessione dei Savoia per i giacobini e per i democratici in genere e della loro reazione feroce ad ogni idea o moto che metta in discussione la loro autorità assoluta. L’esame dei diversi episodi di giustizia sommaria mette in luce una precisa tecnica repressiva dei Savoia, che va dalla esecuzione feroce, esemplare e intimidatoria, successiva alle azioni di ribellione, all’azione preventiva, diretta a colpire prima, a scongiurare i moti popolari, i movimenti democratici.

Palabanda s’inquadra in questa seconda modalità di repressione, quella preventiva, prima che il fatto si sia svolto, il progetto sia stato messo in esecuzione, prima persino del tentativo insurrezionale. Anche in questa modalità la repressione è spietata.

Ecco il quadro delle condanne per Palabanda:

 

Condannati a morte e impiccati

 

1. Avv. Salvatore Cadeddu, segretario dell’Università di Cagliari e ”contadore” della Municipalità di Cagliari, condannato alla pena capitale per impiccagione.

Catturato a S. Giovanni Suergiu, dove si era rifugiato, fu condotto a Cagliari ed impiccato nella piazza dove sorge oggi il Mercato di S. Benedetto. Dal corpo venne staccata la testa e portata come trofeo per le vie della città; il corpo bruciato e le ceneri sparse lungo la strada.

2. Giovanni Putzolu, di professione sarto, era un capopopolo oncaricato di guidareo i rivoltosi dalla Piazza del Carmine fin dentro le mura del Castello. Condannato
alla pena capitale , fu impiccato.

3. Raimondo Sorgia, conciatore, aveva partecipato ai moti del 28 aprile 1794, era un capopopolo. Fu condannato alla pena capitale per impiccagione.

 

Condannati all’ergastolo

 

4. Avv. Giovanni Cadeddu, fratello di Salvatore e tesoriere dell’Università

5. Avv. Antonio Massa Muroni.

6. Avv. Giuseppe Ortu. E’ stato il nonno materno dell’on.Cocco Ortu, deputato liberale.

 

Condannati al remo a vita

 

7. Giacomo Floris, di professione fornaciaio; avrebbe dovuto guidare l’assalto al palazzo con i popolani ed artisti. Morì in galera.

8. Pasquale Fanni, di professione orafo, capopopolo avrebbe dovuto invadere il Castello partendo dalla Marina, condannato morì in carcere.

Condannati a morte in contumacia

 

9. Gaetano Cadeddu, figlio di Salvatore, ministro della Baronia di Quarto. Riesce a fuggire in Corsica, fu al seguito di Napoleone Bonaparte all‘Elba e a Waterloo.

10. Ignazio Floris, pescatore, capopopolo avrebbe dovuto invadere il Castello con i popolani della Marina.

11. Avv. Prof. Giuseppe Zedda, docente di Giurisprudenza nell’Università di Cagliari.

12. Avv. Francesco Garau, avvocato del foro di Cagliari.

Condannati al confino

13. Don Gavino Muroni di Bonorva, fratello di don Francesco Muroni parroco di Semestene, condannato al confino a Carloforte.

 

La repressione preventiva, del resto, ha avuto in Sardegna un altro caso celebre. Vincenzo Sulis, comandante dei miliziani, aveva salvato il Regno dall’attacco francese nel 1793, insistette per l’arrivo dei Savoia a Cagliari, “l’unico lembo di terra che potesse offrir loro securo asilo e difesa” (Baccaredda), organizzò l’accoglienza il giorno dello sbarco, il 3 marzo 1799, curò perfino l’arredo del Palazzo viceregio per rendere confortevole il soggiorno della Corte, frequentò quasi quotidianamente il duca d’Aosta, entrando in confidenza con lui. Quando si sparsero le voci di un suo possibile arresto il duca in persona lo rassicurò sull’inconsistenza di quei rumors. “Me ne assicurò – scrive il Sulis nella sua autobiografia, dall’ergastolo di La Maddalena – il mio Carissimo Principe dicendomi che non si era dato né si darebbe un tal ordine ma che seguitassi a fare i miei affari tranquillamente senza tema nissuna di venire arrestato. Non passò quasi tempo che Egli medesimo diede l’ordine di arrestarmi…”. Erano passati sei mesi dal loro arrivo a Cagliari e i Savoia, nel modo più subdolo e feroce, mandarono in carcere, senza processo e senza colpa, l’uomo verso il quale erano più debitori in quel travagliato periodo. E a ordire la tela fu l’anima nera della repressione i quegli anni, il marchese di Villamarina, che ai danni di Sulis montò la falsa accusa di alto tradimento, con una tecnica che replicò nel 1812 contro Salvatore Cadeddu e gli altri patrioti che si riunivano nel suo orto a Palabanda. Dice Baccaredda su Villamarina: “Fabbricando di suo una calunnia, e propagandola coi suoi cagnotti”, “questo grande uomo di stato da una parte architettò un’accusa di fellonia” […] e dall’altra creò un tribunale statario al cui presidente mormorò all’orecchio: Voglio una sentenza capitale!”. Sulis non fu impiccato, ma rinchiuso nella torre di Alghero per venti lunghi anni e poi mandato dal suo amico duca d’Aosta, diventato Vittorio Emanuele I, all’ergastolo a La Maddalena.

Ma ancor più feroce è l’altra modalità di repressione, quella successiva. In questo senso è emblematica la morte di Francesco Cilocco, una delle più truci esecuzioni che la storia moderna ricordi. Siamo nel 1802 e la Grande Rivoluzione ha gia’ “addolcito” la pena di morte con la invenzione “umanitaria” del dr. Josefph-Ignace Guillotin. I Savoia e i baroni sassaresi invece a Cilocco riservano i tomenti più atroci. Vera barbarie. Gli ultimi giorni del giacobino cagliaritano, dopo l’arresto avvenuto il 25 luglio 1802, furono dei più terribili che si possano immaginare. Messo, sanguinante e pesto, sul dorso di un asino, fece il suo ingresso in Sassari, a torso nudo, fustigato senza sosta dal boia tra il dileggio dei popolani, istigati dal baronaggio sassarese, che nella sua cattura vedeva la fine di un proprio incubo sociale. Dopo il processo, solo un passo formale verso l’esecuzione, che si voleva esemplare, il 12 agosto venne emessa la sentenza. Il 30 agosto 1802, all’età di trentatré anni, pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, “con animo forte” (Martini), Cilocco saliva sulla forca. Il suo corpo rimasto esposto per diversi giorni, fu poi bruciato e le ceneri sparse al vento.

La crudeltà di queste pene mostra la ben nota indole reazionaria e sanguinaria dei Savoia, di cui Carlo Felice, prima viceré e poi Re di Sardegna, fu l’anima nera. Su di lui, non a caso soprannominato “il Feroce”, vale la pena soffermare l’attenzione per l’influenza esercitata sulla storia dell’Isola e del regno.

Come osserva Giuseppe Locorotondo (voce Carlo Felice di Savoia, re di Sardegna - Treccani.it - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977), “della complessa crisi sarda Carlo Felice mostrò subito di aver colto chiaramente l’aspetto esteriore e formale dell’attentato all’autorità assoluta rappresentato dagli attacchi ai valori e alla ideologia dominante, e dalla minaccia alla stabilità dell’ordine sociale. Il suo impegno massimo e prioritario fu subito volto a riannodare fermamente nelle sue mani (come farà dopo il ‘21) tutte le fila del potere, e a perseguire con implacabile determinazione ogni tentativo di ribellione all’autorità, alle leggi, all’ordine costituito. Instaurando un vero e proprio regime militare, creò una magistratura speciale, la Vice-Regia Delegazione per l’istruttoria dei processi politici, ed il primo ad essere celebrato fu quello a carico del “capopolo” V. Sulis, colpevole di nient’altro (altre accuse non risultarono provate) che di essersi sostituito all’inetto viceré nel domare la rivolta, mortificando però, così, l’autorità costituita, un reato mai abbastanza punito per Carlo Felice, che giudicò “mite” la condanna a vent’anni di carcere. Nel perseguire i “rei di stato” legittimò l’adozione di procedure militari ed ogni arbitrio di polizia, dallo spionaggio alla censura epistolare e alle taglie sugli indiziati (lettere del 16 e 20 ag. 1800, 23 ott. 1802)“.

Questa “tecnica” fu poi applicata nei confronti del club di Palabanda con una repressione preventiva, con condanne sostanzialmente senza prove e senza vero processo, Non a caso, poi il fascicolo del processo a Cadeddu è stato secretato e fatto scomparire. I protagonisti erano sempre gli stessi ed identiche erano le modalità. Il processo fu affidato a Giuseppe Valentino. Scrive Baccaredda: “… il viceré Carlo Felice creava una specie d’alta Corte di giustizia, composta da cinque magistrati, che fedeli e concordi rispondessero al sanguinario Villamarina”. “Chi volesse avere un’idea, così a occhio e croce, del famoso tribunale di Sant’Uffizio che giudicò Sulis [e Salvatore Cadeddu e gli altri - n.d.r.], non ha che recarsi in memoria le così dette economiche che si facevano a Cagliari… Per chi poi non se ne rammentasse o nol sapesse, dirò queste due parole: Erano le economiche certi giudizi improvvisi, statari, inappellabili, nei quali si faceva economia di tutto – di tempo, di giustizia e d’umanità, tranne che di corda”.

Carlo Felice era così ossessionato dal pericolo dei giacobini che giunse a far processare e condannare anche un morto! Un frate, Gerolamo Podda, aveva fatto della sua cella la sede di una specie di club giacobino, morto in carcere prima della sentenza, fu processato con una procedura che ancora nel 1807 il Maistre definiva “monstrueuse”.
Dopo l’abdicazione (6 apr. 1814) di Napoleone, Vittorio Emanuele I tornò in Piemonte il 20 maggio. La regina Maria Teresa assumeva la reggenza della Sardegna e quando il 6 ag. 1815 anche la regina lasciò la Sardegna, Carlo Felice riprese la carica di viceré.

Lasciò la Sardegna a causa della peste scoppiata nella primavera del 1816. Fece ritorno a Torino nel 1817, dopo diciannove anni dalla sua partenza. E ancor prima di ascendere formalmente al trono affrontò con durezza i moti del 1821, esiliando a Firenze Carlo Alberto, che aveva addirittura concesso una Costituzione,, e rifiutando ogni mediazione con gli insorti l’8 aprile arrivò allo scontro (Novara-Borgo Vercelli) con le truppe del La Tour e poi con quelle del gen. F. A. Bubna, che occuparono Vercelli e Alessandria (11 aprile), mentre il La Tour occupava Torino il 10 aprile “au nom du Roi”.

Il 19 aprile, Vittorio Emanuele I ratificò la rinuncia al trono. Così Carlo Felice, il 25 aprile, assunse anche la dignità ed il titolo di re. E subito diede avvio alla repressione. “In Piemonte – come scrive Locorotondo - cominciarono a funzionare tre differenti giurisdizioni: un tribunale misto di militari e civili con il nome di Regia Delegazione e con attribuzioni penali, una Commissione militare per indagare sulla condotta degli ufficiali e dei sottufficiali, e una Commissione di scrutinio per indagare sulla condotta di tutti gli impiegati del Regno”.

La Regia Delegazione emise, dal 7 maggio al 1º ottobre, 71 condanne a morte (di cui soltanto tre eseguite), 5 condanne alla galera perpetua, 20 a pene tra i 5 e i 20 anni. Dopo il suo scioglimento, i Senati pronunciarono altre 24 condanne a morte, altre 5 alla galeria perpetua, e 12 a detenzioni da 15 a 20 anni. La Commissione militare alla fine di ottobre aveva destituito 627 ufficiali e doveva indagare ancora su 300. La Commissione di scrutinio, articolata in una commissione superiore e in sette giunte divisionali di scrutinio, operò numerose destituzioni e sospensioni di impiegati civili e di professori di ogni ordine di scuola. L’attività della giunta divisionale di Torino (che è stata studiata dal Milano su documenti conservati nella Biblioteca civica di Cuneo e dal Corbelli su documenti conservati nell’Arch. di Stato di Torino), più che crudeltà, dimostrò grettezza. Fu severa soprattutto (e le istruzioni del ministro degli Interni, G. G. Roget de Cholex, del 13 agosto furono esplicite) nei confronti delle “persone applicate all’insegnamento pubblico”, trattate con tanto maggiore severità quanto maggiore era la loro notorietà. Fu questo il caso di alcuni professori dell’Università di Torino che, come il Collegio delle provincie, venne chiusa. Per Carlo Felice “tout ce qui a étudié à l’Université est entièrement corrompu”; “les professeurs sont abominables” e non rimpiazzabili perché “les mauvais sont tous lettrés et les bons sont ignorants” (lett. 9 maggio 1822). Benché le autorità regie (particolarmente il governatore di Genova Des Geneys) cercassero di favorire o di non ostacolare la fuga dei compromessi, e le stesse Commissioni giudicassero con qualche barlume di indulgenza, al clima di terrore istaurato “in alto non meno che nel basso” si accompagnarono l’abitudine alla delazione, la diversità di idee politiche pretesto a vendette private, le lacerazioni sociali e familiari.

Dopo la prima ondata repressiva, in autunno, più volte sollecitato da Vienna e da Pietroburgo, Carlo Felice decise di rientrare nei suoi Stati. Da Piacenza, il 30 settembre, pubblicò due editti. Con uno vietava adunanze e associazioni segrete, e con l’altro concedeva una amnistia, la quale - presentata come “pieno” indulto e condono per gli eccessi avvenuti - in realtà prevedeva tali restrizioni ed eccezioni da giustificare i sarcasmi e le ingiurie dei fogli liberali francesi e spagnoli, che ospitavano scritti di fuorusciti sardi. Il 10 ottobre era a Govone, ed entrava in Torino il 17, colmo di “répugnance extrème” verso la città teatro di uno “scandale orrible”.

Epurati l’esercito e la burocrazia (tra gli altri giubilò, o trasferì a cariche di puro prestigio, il conte Lodi, P. Balbo, A. Saluzzo e A. Asinari di San Marzano), pretese il giuramento di fedeltà dal clero, dai “deputati” delle città e dei comuni, dai militari e dai nobili.

L’esercito (costretto a giurare di difendere “la real persona… anche contro i suoi propri sudditi”, e a “non appartenere ad alcuna setta o società proscritta”), sottoposto ad una severissima disciplina e allo spionaggio dei sentimenti e delle opinioni, cessò di rappresentare un richiamo per i giovani di più sveglio ingegno. “Anzi, almeno fino alla rivoluzione di luglio, vide esaltare a suo danno il ruolo della marina affidata all’ammiraglio Des Geneys (specie dopo l’impresa di Tripoli del settembre 1825), e vide svilire il proprio a strumento di polizia e di tutela dell’ordine. Ma anche per questo compito Carlo Felice si servì soprattutto dei carabinieri che, in generale, negli ultimi torbidi avevano dato prova di fedeltà. Soppresso il ministero di Polizia che aveva dato cattiva prova nelle ultime vicende, Carlo Felice riaffidò ad essi le funzioni di alta polizia politica, e concesse loro vari privilegi come il rango del grado immediatamente superiore“.

Lo scontro con Carlo Alberto si chiuse dopo che il principe ereditario diede prova di pentimento per la sua cedevolezza verso i liberali nel ‘21. A riabilitare il principe ereditario fu la richiesta di Carlo Alberto di partecipare alla spedizione del duca d’Angoulême contro i costituzionali spagnoli. Il Carignano riscattò nell’episodio del Trocadero la colpa del cedimento costituzionale. Poté così ottenere il perdono e, il 7 febbraio, rientrare a Torino.

Carlo Alberto, divenuto re, mostrò di aver appreso la lezione, come prova la ferocia verso Efisio Tola. Il 10 giugno 1833 Tola venne condannato alla “pena della morte ignominiosa, semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini”, e la condanna venne eseguita il giorno successivo. La motivazione della sentenza fu così esposta sulla “Gazzetta Piemontese“, il giornale ufficiale del Regno di Sardegna, del 13 giugno 1833:

per avere, fin dal 5 di aprile, avuto fra le mani libri sediziosi, avere avuto notizie, e non averle rivelate ai superiori o ad altre autorità, di alcune trame sediziose intese a sovvertire il governo di S. M. ed a sostituirvi un regime demagogico che comprendesse tutta l’Italia; per aver comunicato i detti scritti ad altri militari ed aver cercato di procurar partigiani alle dette trame”. (Atto Vannucci et al., “I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, memorie raccolte da Atto Vannucci“. Milano, L. Bortolotti e C., 1877-1880, p. 426)

Ricordava Montanelli:

La requisitoria più severa si appuntò sul tenente sardo Efisio Tola che negl’interrogatori respinse qualsiasi addebito, si rifiutò di fare qualsiasi rivelazione e, di fronte al plotone di esecuzione, si denudò sereno da solo il petto dicendo: “voi versate un sangue innocente, ma io vi insegnerò come si debba e come si sappia morire. La crudeltà sotto nome di giustizia mi vuol morto e morrò: non sono né reo né ho complici: e se pure ne avessi né il nome sardo né il mio farei prezzo di tanta infamia e tanta viltà.”. (Indro Montanelli, Risorgimento. Milano, Rizzoli, 1973, p. 70).

Ma - si dirà - tempi lontani. Poi è venuto il Risorgimento e l’Unità d’Italia. E l’eccidio di Sanluri? Su trumbullu de Seddori è del 1881. Bava Beccaris in antemprima, in salsa seddorese! Repressione violenta: sei morti fra… i morti di fame in rivolta per il pane.

Ottocento, si dirà. Umberto I l’ha pagata cara. Col nuovo secolo, nuovo re, Vittorio Emanuele III, nuova musica. No, no, stessa musica, lo strumento è sempre lo stesso, la fucileria! I caduti di Buggerru sono ancora nei nostri cuori e nella storia del Movimento Operaio non solo sardo. E i morti della sommossa di Cagliari del 1906? A chi se non a loro, il manovale sedicenne Giovanni Casula, colpito alla spalla, ed al fruttivendolo diciannovenne Rodolfo Cardia, raggiunto da una fucililata al cranio, va intitolata l’attuale via Crispi? Nessuno lo ricorda, ma lì, dietro al Comune, all’imbocco con piazza del Carmine, hanno perso la loro giovane vita per aver cercato, con la lotta, migliori condizioni di vita.

Da Cagliari il movimento di massa si estese al bacino minerario del Sulcis-iglesiente-guspinese A Gonnesa due dimostranti uccisi e diciassette feriti. A Nebida altri due dimostranti uccisi e 15 feriti.

La protesta dilagò ben presto in tutta l’isola con scontri e altri morti. L’esercito unitario è stato usato per la guerra interna dichiarata dai Savoia contro le classi subalterne, contro il Meridione e le Isole! E il grande macello della Grande Guerra? E l’eccidio di Iglesias del 1921? E il fascismo, il buio della dittatura e l’immane tragedia della seconda guerra mondiale?

Francesco Casula, nel suo libro “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”, ci ricorda questa spietata sequenza, un incubo per i ceti popolari, i pastori, i contadini, il nascente movimento operaio. Ma ci narra anche delle rapine, delle svendite dei beni pregiati, della distruzione dell’ambiente con la deforestazione selvaggia. La statizzazione di beni comuni essenziali per la vita delle masse. Il prelievo delle risorse sulla pelle dei minatori, trattati come bestie. L’attacco rozzo e totale alla cultura dei sardi, considerati razza inferiore.

 

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