La scissione di Renzi apre una fase di ristrutturazione del sistema politico italiano

17 Settembre 2019
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Tonino Dessì

 

Con l’uscita definitiva di Matteo Renzi e dei suoi seguaci finisce sostanzialmente anche la parabola del PD.
Ci sarebbe molto da dire su come si va consumando questa vicenda.
Sul piano interno è una scissione di vertice e di rappresentanza istituzionale che non avviene attraverso e come sbocco di un confronto con la base militante e con gli elettori. Insomma, se Rousseau piange, non so bene chi rida, fra i teorici della democrazia partecipata.
Sul piano politico-istituzionale non è una gran prova di trasparenza e di coerenza aver concorso a trasmettere al Capo dello Stato la certezza che la compagine disposta a costituire la nuova maggioranza di governo aveva sufficienti caratteri di omogeneità programmatica e di stabilità di partiti e gruppi di riferimento, per ordire subitaneamente una scomposizione della stessa maggioranza.
Si ha un bel dire, come dichiara Renzi nell’intervista di oggi su La Repubblica, che la stabilità del Governo non è in discussione nè corre pericoli.
La maggioranza in realtà è cambiata.
Che il Governo non corra pericoli non è affatto certo, ma sostenere che ne esca rafforzato è affermare cosa non vera.
L’opposizione avrà da giocare ulteriormente sulla contestazione che si tratta di un accrocchio di potere esclusivamente difensivo dai rischi dell’esito di elezioni anticipate.
Tutto quello che il volenteroso Conte potrà spendere nella narrazione di un ciclo nuovo e virtuoso è fin d’ora destinato a non essere credibile di fronte all’opinione pubblica italiana e agli interlocutori esterni.
C’è solo da sperare che questo Governo sopravviva, per un residuo senso di responsabilità delle componenti della sua maggioranza, consapevole che la sua funzione è ormai quella di accompagnare la fase di scomposizione-ricomposizione del sistema politico, anche mediante alcune riforme (in primis quella elettorale) che garantiscano uno sbocco democratico e non avventurista alla scadenza della legislatura.
Una scadenza che comunque non consegnerà all’elettorato quel bipolarismo tanto velleitariamente agognato e artificiosamente perseguito negli ultimi decenni dalle principali forze politiche.
L’altra speranza è che Governo e maggioranza sopravvivano col consapevole obiettivo di normalizzare i fondamentali economico-sociali in chiave espansiva dell’economia, di miglioramento delle condizioni di reddito e fiscali dei ceti più bassi, di sostegno a una ripresa dell’occupazione.
Rigore finanziario si, ma non lacrime e sangue, anzi segnali di miglioramento delle condizioni di vita generali.
E, aggiungerei, un impegno comunicativo, di metodo, di costume, di sostanza, per contrastare e abbattere il clima di odio artificiosamente introdotto nella vita civile italiana dalle forme del conflitto politico alimentate dall’estrema destra salviniana.
Non dico che questo assicurerebbe un successo elettorale a una coalizione di Governo che comunque non pare destinata a presentarsi come coalizione di soggetti politici nelle prossime consultazioni.
Dico piuttosto che nessuna delle formazioni politiche della maggioranza di governo scamperebbe a una catastrofica sconfitta elettorale in caso di bilancio diverso e negativo dell’esperienza di governo in corso.
Personalmente non scommetterei gran che sul futuro del nuovo soggetto politico renziano. Anche a leggere l’intervista su La Repubblica, basi ideali e programmatiche capaci di suscitare entusiasmo non ne vedo. Nè i richiami al Jobs Act e alla proposta bocciata di revisione costituzionale mi paiono particolarmente destinati alla popolarità.
Resta al fondo piuttosto un sedimento politico-ideologico-culturale declinato in negativo. In fondo anche questa nuova formazione si radica in quell’orizzonte di liquidazione del retaggio e della stessa attualità potenziale della cultura politica della sinistra italiana che d’altra parte, se la provenienza democristiana giustifica in Renzi, è ben vero che si è innestato nella sinistra stessa, prima con Craxi, che immolò il PSI su quell’altare, poi col gruppo dirigente che liquidò l’ultimo PCI (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, col beneplacito dei “riformisti”, Napolitano e Macaluso in testa).
Credo che la consumazione di questa scissione non debba essere vissuta con l’anatema attribuito a Franceschini, il quale rievoca la frantumazione dei partiti democratici nei primi anni ‘20 del secolo scorso di fronte al fascismo.
Riempire le cronache politiche di una nuova guerra fratricida “a sinistra” (sempre che possa essere usato nel caso questo termine) non servirebbe ad altro che a nascondere l’ineluttabilità di un fallimento originario e a dare ulteriori argomenti alla destra.
Semmai resterebbe da capire come dal naufragio di un natante vulnerato e fallato come il PD qualcuno possa innescare un’operazione innovativa nel campo democratico più generale.
Se tutto si riducesse, come ironizza Renzi, al rientro di D’Alema e di Bersani, beh, meglio lasciar perdere da subito.
Percentuali non dico alla LEU, ma poco più, in vista, anche per il relitto ereditato da Zingaretti.
No, serve altro che il richiamo a un ovile diruto da troppo tempo.
Infine, la ristrutturazione del sistema politico investe direttamente il M5S.
La scissione renziana (dopo l’impallinamento, sempre renziano, della velleità salviniana di andare a elezioni anticipate), mette il M5S (e Conte: unitamente, ma distintamente) al centro dell’attuale situazione politica.
Persa l’occasione post-referendaria di porsi come punto di riferimento democratico-radicale del diffuso “partito della Costituzione”, giocato malissimo, dopo il successo elettorale del 2018, il primo tempo della corrente legislatura, fino a correre il rischio di essere fagocitato dallo spregiudicato ed esuberante partner di estrema destra, il M5S sarà capace di fare il salto di maturità necessario per impedire di essere travolto dalle insidie dei nuovi partner, inquieti e instabili e di ristrutturarsi anch’esso in chiave non contingente, ma tale da affermare una propria durevole, legittima centralità politica, programmatica, di immagine, non neo-moderata, ma riformista e popolare?
Anche qui, i precedenti consigliano prudenza.
Però se io fossi in loro, mi giocherei una partita ambiziosa con prospettive decisamente gratificanti.

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