Carbonia. ‘Una landa quasi completamente deserta, non un uomo, non una casa, non un sentiero, non una goccia d’acqua: solitudine e malaria’. Dal discorso di Mussolini a Carbonia (2)

5 Aprile 2020
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Gianna Lai

Proseguiamo con la narrazione domeniocale della storia di Carbonia, iniziata il 1° settembre.


Una precisa descrizione, infine, quella di Maurice Le Lannou, il celebre studioso del territorio sardo, per comprendere meglio l’originalità degli insediamenti sulcitani, attraverso il  suo ‘Pastori e contadini di Sardegna’, edito nel 1941, a tre anni dalla nascita di Carbonia, quando sono ancora ben vivi i segnali di un passato recente . Se è ‘nella seconda metà del XVIII secolo che vi si stabilirono i coloni, estendendo rapidamente i campi coltivati, le origini di questa colonizzazione sono molto più antiche. ….Sappiamo che fin dal XVI secolo, almeno nelle epoche di relativa tranquillità, dei pastori del centro della Sardegna conducevano le loro greggi, durante l’inverno, sulle tepide colline del Sulcis. Il Sulcis era allora un feudo del vescovo di Iglesias…..che accordava a questi pastori transumanti delle concessioni temporanee di pascolo, negli spazi deserti tra Iglesias e il mare. Al centro dei terreni in concessione, i pastori costruivano capanne d’argilla e di frasche, sempre riunite a gruppi di cinque o sei, nelle valli defilate rispetto alla costa, per paura dei pirati barbareschi. Nelle immediate vicinanze delle capanne innalzavano un muro a secco circolare, al riparo del quale, venuta la sera, riunivano insieme le greggi di tutti. Questo insieme, formato da qualche povera capanna e da un chiuso per il bestiame si chiamò furriadroxiu…..Quando l’insediamento così costituito era un pò più grosso e possedeva due o tre chiusi invece di uno solo, si chiamava boddeu….un piccolo sistema di habitat   raggruppato, che aveva  per scopo di facilitare la sorveglianza notturna del bestiame…Questo habitat temporaneo non cominciò a fissarsi che dopo il 1750…..Una volta garantita la tranquillità dei luoghi, i pastori cominciarono infatti, poco a poco, a decidere di stabilirvisi, di coltivare un orto e qualche fazzoletto di terra a cereali, di farsi raggiungere dalle loro famiglie, di rimpiazzare le capanne con case in muratura e, infine, di allargare i loro appezzamenti coltivati, a danno dei pascoli. Così dei pastori nomadi diventarono agricoltori solidamente ancorati alla terra,…… i loro furriadroxius si moltiplicarono a partire nel primo terzo del XIX secolo’. E si ingrandirono ‘fino a diventare delle fattorie a fianco alle case dei piccolissimi proprietari o di braccianti agrari, che non possedevano nulla’. E le case ’si moltiplicarono sopratutto quando si fissarono su questa terra moltissimi operai della regione mineraria del Sulcis e del vicino Iglesiente. Le crisi che colpivano spesso l’industria estrattiva di queste zone, lasciavano disoccupati molti minatori, che trovavano un rimedio nel lavoro agricolo. Prima operai stagionali, poi giornalieri, essi salirono spesso, acquistando qualche pezzetto di terra, al rango di piccoli proprietari e costruirono le loro case nelle immediate vicinanze dei furriadroxius, che  fornivano loro un indispensabile completamento  di lavoro. Così si costruì questo originale tipo di habitat, …..curiosa giustapposizione di piccoli nuclei densi e di casali isolati, disseminati senza ordine nelle loro vicinanze. Alcune di queste frazioni divennero così importanti da costituire la base di una cristallizzazione sociale’, che non si ritrova in altre zone della Sardegna, aggiunge ancora Le Lannou; quindi ‘il Sulcis, che un tempo dipendeva interamente da Iglesias, fu diviso, dalla legge del 1853, in cinque circoscrizioni comunali i cui capoluoghi, rinvigoriti dalla nuova funzione amministrativa, somigliano ora ai villaggi centrali dei comuni brettoni’. Serbariu, Palma Suergiu, Santadi, Narcao e, sei anni dopo, Giba.  Riprendendo  ancora il discorso sull’habitat, per svilupparne i caratteri, ‘il Sulcis è una zona di dispersione tutta relativa, dove la frazione da cinque a venti-trenta case è l’unità caratteristica del popolamento’ . A servire da esempio, un caso particolare, le forme degli insediamenti nel territorio di Serbariu: ‘Ecco per esempio il comune di Serbariu, il cui territorio occupa la parte centrale del Sulcis. Il capoluogo è il piccolo villaggio di Serbariu Centro, l’importanza relativa di questa concentrazione deriva dalle funzioni sociali conferite a questa antica frazione di Iglesias, dalla sua erezione in comune nel 1853′: ci sono il municipio, la caserma dei carabinieri, la chiesa, la scuola, il dispensario antimalarico e una dozzina tra negozi  e locande. Vi è poi un secondo nucleo, a sei chilometri dal centro principale, ‘il cui volume deriva dal fatto di trovarsi sulla grande strada da Iglesias a Sant’Antioco’. E poi ‘23 frazioncine sparse, la più lontana a 15 chilometri, la più vicina a un chilometro; infine, tra le frazioni, un centinaio di case disperse completa questo paesaggio umano, che non ha nulla di simile in Sardegna’.
Per concludere, sottolineandone ancora i tratti significativi, che lo rendono unico nell’isola, ‘il furriadroxius lascia alla coltivazione una parte molto più considerevole di quella dello stazzo’, proprio delle altre regioni della Sardegna, poiché ‘il Sulcis marittimo, dal rilievo dolcemente ondulato, non manca di terreni fertili’281. E infatti il Sulcis arriva ‘a produrre grano sufficiente per il suo consumo  e spesso per la vendita all’esterno’. E infine sull’allevamento, ‘I bovini, in tutto 14.200, sono animali da lavoro. Le capre in numero di31.000…..Il patrimonio ovino del Sulcis conta più di 70.000 capi’, la cui produzione di latte, ‘ viene trasformata nella stessa fattoria in formaggi, che vengono venduti ai commercianti di Cagliari’.
‘Non un uomo, non una casa’, aveva detto Mussolini. Proprio una ‘landa quasi completamente deserta’, no, questo Sulcis, con i suoi uomini che coltivavano la terra e allevavano animali in case costruite da loro stessi, ripopolando il territorio e sottraendolo, per quanto potevano, alla malaria, attraverso le pratiche agricole.   Ma a partire, direttamente, dallo spazio su cui la città stessa verrà costruita, sui medaus e i furriadroxius che vanno da Cannas a Serbariu, precisamente ‘23 frazioncine sparse’, come ci dice il geografo francese, solo nel territorio del Comune appena soppresso, Serbariu appunto, per far largo alla Carbonia dell’ACaI.    Alla luce, in particolare, degli scritti di Maurice Le Lannou, ‘frutto di una lunghissima  frequentazione della Sardegna, lungo quasi tutti gli anni Trenta’, come dice il prof. Manlio Brigaglia nella Nota alla quarta edizione.
Tutta puntellata la città di Carbonia, dentro e nei suoi confini, da produzioni agricole, fin dove inizia la macchia destinata alle greggi di capre: Cannas e l’Orto di Guerra e le zone ancora oggi verdi di Serbariu, Medadeddu, Barbusi, Caput Aquas, il cui sbarramento alimentava nei primi anni la città stessa, e Medaus e’ su Rei, fino Is Gannaus, Sirai e Flumentepido. Tutto  puntellato di acque il territorio del Sulcis, che scendono dai monti  ricchi di foreste, abitate da cervi e mufloni: oltre al Cixerri che ne determina i confini, Rio Cannas e Riu San Milanu, in città, Riu M. S’Orcu poco dietro, verso Perdaxius e Funtanona, Villarios, la Sorgente di Nuxis, Le sorgenti di Zinnigas, e Acquas callentis,  Aquacadda, Is Arrius, queste tre ultime denominazioni di territori, più e più volte presenti a margine dei vari paesi o furriadroxius: tutte acque oggi convogliate, non a caso, in dighe e invasi, il Cixerri, Bau Pressiu, Lago Medau Zirimilis, diga di Monte Pranu, a Tratalias, spesso con relativa canalizzazione adatta alle  culture. E, non a caso, sempre ai margini della città,  nascevano, già negli anni del discorso di Mussolini,  l’Azienda agraria di Cortoghiana, l’Azienda agraria di Bacu Abis, quella di San Giovanni Suergi, l’Azienda agraria dell’ACaI. ‘Non una goccia d’acqua’, aveva detto Mussolini nel suo discorso: tutt’altro che una landa quasi deserta invece, a quanto pare, questo Sulcis, che si apre intorno a Carbonia! Ben nota la qualità della sua terra, quella del cosidetto Basso Sulcis in particolare,  e delle sue produzioni agricole. E poi, anche qui, le sue importanti foreste, di lecci e di querce, che ospitavano un tempo cervi e mufloni, da Domus de Maria a Santadi fino a Siliqua e  Capoterra, oggi Parco naturale regionale  di Gutturu Mannu. E poi la pescosità dei suoi mari e delle sue lagune, da Teulada a Sant’Antioco a Carloforte, fino a oltre Portoscuso. Ancora oggi testimonianza di un passato da valorizzare, se appena una minima parte dell’enorme quantità di danaro piovuta incondizionatamente  su Carbonia, al tempo dell’ACaI fascista, gli fosse stato destinato, tra i finanziamenti destinati alle miniere. Se solo si fossero garantite le bonifiche e la lotta alla malaria, come in altre parti d’Italia è successo, e adeguati i mezzi e le coltivazioni alle esigenze di una più moderna azienda, che superasse l’arretratezza endemica sarda e caratteristica dell’intero Meridione.
Attività agricole e pastorali ancora resistenti al tempo, quelle dei medaus  e dei furriadroxius, ma rese più povere dal mancato intervento politico, al punto da   rendere appettibili, per i contadini, gli ugualmente miseri salari di miniera, e tollerabili i livelli di sfruttamento, tra i più crudeli della storia anche in questi tempi moderni. E’ probabilmente l’ACai a  trasformare in una landa desolata un paesaggio rurale secolare, fondato su forme di produzioni agricole spontaneamente affiancate all’allevamento, autosufficiente per il territorio e capace di costruire vera  aggregazione sociale. Sostituendosi ad esse per decreto regio, che tutto comprende. Il reclutamento dei minatori nel territorio, con relativo immediato abbandono delle campagne, al punto da dover approvvigionare interamente di generi di prime necessità, una zona  prima pressocché autosufficiente, con le navi aziendali che arrivano dal Continente e che si bloccano durante la guerra, esponendo le popolazioni alla fame e alla sofferenza, ancora così presente nei ricordi dei più vecchi tra gli abitanti. L’ACai che tutto comprende, persino le bonifiche, peraltro già definite su tutta l’Italia da  progetti e finanziamenti dei precedenti governi liberali. Senza, in Sardegna, garantirne esito alcuno, come succede invece altrove, anzi impoverendo il territorio, come amaramente denuncia il promemoria, già citato, del prefetto di Cagliari  al ministro dell’interno, luglio 1941, sulla situazione economica della provincia.   Che  segnala il fallimento del regime, ‘la produzione provinciale non basta a questa provincia, tranne che per il bestiame, il formaggio e il vino; per il resto è necessaria l’integrazione del continente. Se si fa eccezione per l’oasi Mussolinia, l’economia agricola dell’intera provincia è tutt’altro che fiorente. Non han dato utili risultati i sistemi seguiti per la bonifica terreni e la trasformazione agraria, nessuna bonifica è stata ultimata, in gran parte perduti i lavori eseguiti e le somme spese, mentre in tutta la provincia infierisce la malaria. Pochissime le sue terre trasformate a cultura razionale’.
‘Una landa quasi completamente deserta, sì, solitudine e malaria, sì, ma probabilmente  a causa dell’ACaI e del fascismo e della guerra fascista stessa.   La presenza di culture centenarie e vitalità diverse, del tutto ignorate dall’Azienda, padrona dell’ampio territorio cittadino, ormai sottratto agli antichi abitanti. Come dice Giulio Angioni, nello scritto per i cinquant’anni dalla fondazione, ‘qui, cinquant’anni fa, un cantiere smisurato in pochi mesi cancellava il villaggio di Serbariu, inghiottiva alcuni ovili, i medaus e diventava Carbonia, la città del carbone autarchico’, che ‘non nasceva nel vuoto totale: gli studiosi  dell’insediamento umano la chiamano antropizzazione a bassa densità, … a significare la scarsità della popolazione, caratteristica secolare del Sulcis’. Distolti dall’agricoltura e dalla pastorizia, per trasferirsi nelle gallerie della miniera, man man che il livello di vita nelle campagne si faceva sempre più misero: come ai vecchi bei tempi della Prima Rivoluzione industriale, lo spostamento in massa dalla campagna verso le imprese nascenti della città.  Senza tuttavia grandi prospettive per l’occupazione di massa e per il riscatto di quel territorio, ora e per sempre irreversibilmente segnato dal venir meno di una struttura agro pastorale, che avrebbe dovuto essere invece, essa stessa, attraversata dalla modernizzazione, piuttosto che  cancellata in suo nome.  Senza la garanzia, in ogni caso, di un sicuro processo di riaggregazione sociale nei luoghi di lavoro, foriero sempre, il suo venir meno, di continua emigrazione verso Francia, Belgio e Germania,  che solo la solidarietà creata dai movimenti popolari, durante il dopoguerra, è riuscita per qualche tempo a rinsaldare. A chiarirlo in termini oggettivi è, durante il fascismo, la scarsa fiducia degli operai stessi nel futuro della miniera, che vanno e vengono dalla città nuova ai luoghi di origine,  in modo disordinato e incontrollabile, fin dalla nascita di Carbonia e poi durante tutto lo svolgersi del conflitto. Dovendo infine, nel dopoguerra, certo con ben altra consapevolezza acquisita durante le lotte contro i licenziamenti, ancora fare i conti col massiccio turnover caratteristico delle zone minerarie, per le alterne vicende cui esse devono sempre sottostare. Ancor più in tempo di pace, quando si definiscono di nuovo, in un contesto mondiale più ampio, livelli produttivi, mercati e concentrazione industriale.

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