“Uscì la primavera dall’oscura notte d’aprile e rivedemmo il giorno “

30 Aprile 2020
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Rita Sanna

“Uscì la primavera dall’oscura notte d’aprile e rivedemmo il giorno “
Ci sono tanti modi per parlare del 25 aprile, per parlare di Resistenza, di lotta per la Liberazione, di speranza per il futuro.
Anche adesso ne abbiamo bisogno.
Io scelgo una poesia, “La ballata del 25 aprile”, di Alfonso Gatto.
Proveniente dai nostri archivi delle meraviglie, in questo caso il Centro manoscritti dell’università di Pavia, fondo Manoscritti di autori novecenteschi, il testo è uscito sulla stampa proprio in questi giorni per una fortunata combinazione. Ma lo studio, l’attenzione, l’intuizione dell’importanza di una scoperta non sono mai casuali. Grazie al curatore Massimo Castoldi .
Alfonso Gatto, poeta giornalista attore, fu arrestato per antifascismo nel 1936. Attento a quella che chiamava letteratura militante, nel 1938 si occupò della rivista Campo di Marte, scrisse poi per Rinascita e per L’unità, fu comunista dissidente. La sua idea di Resistenza e di liberazione sta dentro i versi della Ballata.

La ballata del 25 aprile di Alfonso Gatto (1909 – 1976)
Dicevo in ogni giorno, in ogni mese:/ «Verrà verrà l’aprile, quel cortese/ d’aprile, le campagne del maggese/ dal duro della zolla avranno i fiori»./ Io credevo a quel cielo, a quei colori/ della speranza, ed era un metter fuori/ le parole taciute in tutti i cuori/, un respirare l’aria con gli odori/ della terra, vedere gli occhi — i chiari/ occhi dei vivi — accendersi nel nome/ delle cose chiamate a dirle vere:/ la sedia, il pane, l’acqua, il vino, come/ nel primo giorno, nelle prime sere.
E per la libertà chiedevo ai mari/ la parola del vento che precorre/ le sue distanze, il brivido che corre/ sull’acqua, l’orizzonte della torre/ che oltre il vedere sembra di vedere/ bianca nel bianco delle sue scogliere.
E dell’amore dentro me scaldavo/ la tenerezza come un figlio, il fiato/ dell’umana temperie. «Tornerà/ — dicevo — tornerà da questo scavo/ di silenzi e di gelo il soleggiato/ cammino della terra, la parola/ dell’uomo solo non sarà più sola».
Credevo – con il corpo – come il seme/ sotto la neve nel germoglio preme/ la lieve scorza e sente tutta insieme/ la terra che s’appiglia al filo d’erba./ L’Italia vecchia s’era fatta acerba.
La libertà per giungere all’aperto/ delle sue piazze, nel clamore incerto/ che udivo come in sogno alzare Roma,/ era — a sognarla — da lontano come/ lo stupore di vivere a chi vede/ la prima volta muovere il suo piede./ Quando sarebbe giunta a noi? Milano/ era in un lungo inverno dal lontano/ settembre: dall’estate di Loreto/ di giorno in giorno chiusa nel divieto/ delle sue strade in mezzo alla pianura.
Uscì la primavera dall’oscura/ notte d’aprile e rivedemmo il giorno./ In Piazza Tricolore, tutti intorno/ alla vecchia bandiera, i patrioti /— popolani ragazzi visi ignoti —/ uscivano dai libri delle scuole, dalle Cinque Giornate incontro al sole/ della mattina, incontro agli operai.
Era la libertà che non fu mai/ così vera, decisa. Dal suo lutto/ che in ogni casa ricordava il vuoto/ dei morti, degli assenti nell’ignoto/ viaggio verso i lager, con tutto/ il suo pianto segreto, il duro strazio/ di non sapere, confermava l’uomo/ umano nel suo vivere lo spazio,/ della misura che l’accoglie: voce/ di sé per tutti in ogni voce, duomo,/ casa, fabbrica, scuola, amore,/ foce del grande fiume verso la sorgente.
Era la libertà che non ha niente/ e dà nome alle cose, tocca i vivi,/ li scuote a dirli vivi più dei vivi./ Ci toccavamo increduli, era vera/ la terra, vero il cielo, e nella sera/ da braccia a braccia passavamo stretti/ nel ballo dietro i canti e gli organetti.
E per la libertà voglio che il mare/ non abbia fine e che l’aprile sia/ per tutti quella grande primavera/ che noi vedemmo uscendo sulla via/ con la falcata sempre più leggera,/ correndo senza peso alla parola/ dell’uomo solo che non è più sola:/ Italia, patria senza monumento,/ vita che vive, spazio, luce, vento.

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