Libertà e metodo scientifico ai tempi della pandemia

7 Gennaio 2021
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Antonello Murgia

(pubblicato in contemporanea anche su Aladinpensiero e Il Manifestosardo)

L’altro giorno il mio amico Alessandro Negrini mi ha chiesto cosa ne pensavo di un recente esperimento le cui conclusioni sono state che i risultati dei tamponi normalmente utilizzati per rilevare la positività al Covid-19 sono del tutto inattendibili e sovrastimati e che pertanto sono ingiustificati e illegittimi tutti i provvedimenti assunti per contenere la diffusione della pandemia. Anzi, questi si configurerebbero come una preoccupante limitazione della libertà dei cittadini che avrebbe spesso scopi differenti da quelli dichiarati. E così ne abbiamo discusso un po’. Alessandro intuiva la scarsa attendibilità dell’esperimento, ma non aveva sufficienti conoscenze per giudicare; e mi ha stimolato a mettere nero su bianco una riflessione per i non addetti ai lavori. Il problema nasce, a mio avviso, da un approccio spesso scorretto alla scienza; rimando a chi ha già dato una risposta sul caso specifico e mi soffermerò invece sul metodo che, in generale, dovrebbe guidare l’uso della ricerca in favore della collettività.
Col passare del tempo aumenta la documentazione scientifica su contagiosità e letalità del Covid-19 e su come prevenire e curare la SARS-CoV-2, ma certo abbiamo bisogno di chiarire ancora tante, troppe cose: l’importante è capire con quale metodo e con quali priorità senza esercitare limitazioni ingiustificate della libertà. Dico questo da un lato perché quello della libertà, diritto fondamentale garantito dalla Costituzione, è un tema sollevato da molti e dall’altro perché la società in cui viviamo ha regole che impongono delle limitazioni inevitabili. L’obbligo o meno della vaccinazione, ad esempio, è un tema che tocca da vicino il concetto di libertà. Personalmente sono contrario all’obbligo, penso che un intervento che riesca a convincere le persone dia risultati più corretti e più giusti perché derivanti da una maggiore responsabilità e perché più condivisi. Però penso anche che questo concetto andrebbe discusso approfonditamente: la dimensione molto individualista che non raramente vedo attribuirgli nelle nostre società occidentali, la sento in contrasto con la Costituzione e con un rapporto collettività/individuo nel quale sia chiaro che la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro e che l’interesse collettivo è preminente su quello del singolo. A parte ciò, in questi mesi ho visto ripetutamente un’opposizione alle misure di contenimento del contagio non giustificata dalle acquisizioni scientifiche che andavano accumulandosi. Il tutto con una veemenza che mi piacerebbe venisse manifestata sui temi più generali della salute: mi riferisco a quel modello di sanità ultraliberista che stiamo applicando da 20 anni e che ci sta facendo scivolare in basso nella graduatoria dei Servizi Sanitari Nazionali. E’ un modello nel quale il cittadino - come altra volta ho detto - è stato trasformato in consumatore al quale le imprese del settore offrono i loro prodotti in una logica tutta mercantile. E mi piacerebbe che ci si interrogasse di più e si interpellasse la scienza sul perché in Italia siamo al 3° posto al mondo sia come diffusione del Coronavirus, che come sua letalità. Come cittadini dovremmo avere padronanza delle politiche sanitarie generali (cittadino che esige diritti invece che consumatore, medicina partecipata invece che calata dall’alto, sanità territoriale più che ospedaliera, budget di salute invece che gestore di salute, etc.) e invece mi sembra che ci impegniamo molto su questioni per le quali dovremmo affidarci di più agli specialisti e trascuriamo aspetti che dovrebbero essere di nostra stretta competenza. Chiarisco subito che ritengo la collettività l’unico titolare dei diritti fondamentali e il tecnico, l’uomo di scienza, soltanto il suo collaboratore e che quest’ultimo non può sostituirsi ad essa in virtù delle proprie conoscenze: la tecnica è indispensabile per governare bene, ma la tecnocrazia è sempre stata usata per legittimare privilegi che la rappresentanza politica da sola non riusciva ad imporre. Ma sono convinto che sarebbe sbagliato anche il contrario, cioè che la collettività o la sua rappresentanza assumessero decisioni politiche sulla base di acquisizioni che si pretendono scientifiche, ma che non hanno superato il vaglio della scienza.
E’ un problema che si ripresenta in continuazione, anche perché la scienza non sempre riesce a dare risposte soddisfacenti ed in tempi rapidi. Ma in questo caso cosa facciamo? Interpelliamo il mondo scientifico oppure chiediamo lumi al nostro vicino di casa che è una persona per bene ed anche disponibile? Sulla base di cosa facciamo le dovute scelte politiche? Sulla base di valutazioni cui la comunità degli specialisti riconosce i crismi della scientificità o sulla base di esperimenti fatti nel lavello di cucina col “Piccolo chimico” ricevuto a Natale? E’ vero, la fretta fa i gattini ciechi, ma qual è la risposta da dare ad un’indagine affrettata, che non ha una significatività sufficientemente alta? Si accetta, per l’urgenza di intervenire, il risultato pur non attendibilissimo e si chiede al mondo scientifico di continuare la ricerca e di raggiungere maggiori certezze, oppure si interpella il compagno delle medie che era il primo della classe e per giunta ha un fratello medico? Mi scuso per le estremizzazioni che ho usato (qualcuna neppure lontana dalla realtà), ma sono convinto che la soluzione consista nell’adozione di un metodo che ha mostrato nel tempo la sua efficacia, pur non assoluta, e che potrà essere messo in discussione, ma non deve essere usato per proporne allegramente uno peggiore. Qualcuno dirà: ma sono gli stessi scienziati a non essere d’accordo fra di loro, io ho pubblicato solo le dichiarazioni del prof. Tizio e del dr. Caio. Ho ben presente che in questa urgenza pandemica anche riviste prestigiose come Nature sono state criticate per aver accettato la pubblicazione di lavori sulla pandemia per i quali in periodi normali avrebbero chiesto supplementi d’indagine o che avrebbero addirittura respinto. Ma è comprensibile che in fase d’emergenza i filtri e le procedure siano meno accurati: il medico che praticò la tracheotomia d’urgenza al proprio figlio con un trinciapolli, o quello che lo fece con una penna Bic, non pensavano di adottare il c.d. “gold standard”, la procedura migliore, ma solo ciò di cui in quel momento disponevano avendo solo qualche minuto per decidere. Va bene, dirà qualcun altro, ma quando i dati che poggiano su solide basi scientifiche sono molto pochi, un’idea vale un’altra. Non è così: esiste una precisa scala di attendibilità dei dati alla quale si deve fare riferimento se si vuole evitare il caos. E’ tutto scritto nero su bianco e lo si può trovare anche su siti e riviste non specialistici: dagli studi randomizzati, controllati e in doppio cieco, a quelli di coorte, a quelli descrittivi, fino al parere degli esperti, possibilmente emanati in “consensus conferences”, in incontri dai quali esce un documento condiviso cui chi opera nel campo possa fare riferimento, se non si dispone di meglio. Ma senza la pretesa che il parere di un gruppo di esperti valga quanto metaanalisi di studi randomizzati e controllati.
Un altro documento che circola in questi giorni è un’intervista a Stefano Montanari, farmacista e ricercatore in campo biomedico. Non è la prima volta che lo vedo usare argomenti veri e condivisibili come quello dell’interesse privato che può inquinare e spesso inquina l’esigibilità di un diritto fondamentale come quello alla salute, poi giustificare affermazioni del tutto prive di fondamento scientifico. Come ad esempio: “Il vaccino anti covid è una truffa colossale… questo è un virus che non è vaccinabile perché non da immunità, esattamente come il raffreddore”. Che potesse non essere “vaccinabile” era una paura giustificata dal suo essere RNA e analogo al virus del raffreddore, ma la cosa è stata poi smentita dalla ricerca scientifica. Questa può, anzi deve, essere criticata, ma la critica va fatta sulle riviste scientifiche: il confronto su un argomento come questo va fatto con chi fa la ricerca e nei luoghi che alla ricerca sono deputati e cioè quelle riviste scientifiche che hanno mostrato nel tempo sufficiente attendibilità ed indipendenza per garantire l’affidabilità di quanto pubblicano. Sui canali di informazione generale e sui social potrà essere discussa la rispondenza al vero dei risultati pubblicati su Lancet o sul NEJM o su Nature, ma è un errore gravissimo opporre alle evidenze (sempre criticabili) esposte nei luoghi della ricerca, considerazioni non supportate da pubblicazioni di livello all’incirca pari. Lo dico per chi non ha mai fatto ricerca e quindi non ha modo di accorgersi di quanto le fesserie esposte da Mantovani siano strampalate: la pubblicazione nelle riviste scientifiche più autorevoli avviene dopo un percorso di verifica e controllo da parte di scienziati (il cui nome è tenuto segreto per evitare che siano influenzabili). E le conclusioni che eventualmente si intendono contestare, devono seguire analogo iter sperimentale e sottostare ad analoghi controlli da parte della comunità scientifica: requisiti che invece non vengono richiesti per pubblicare su You tube o su Facebook o sui grandi media ( o sul sito del partito politico “Movimento 3V”, come nel caso di Montanari). L’errore è sempre possibile e quando c’è fretta per la gravità del problema da risolvere, come nel caso dell’alta contagiosità e letalità del Covid-19, il margine di errore aumenta, ma la risposta a questo sta nel continuare la ricerca e nell’acquisizione di dati più significativi e non può consistere nell’adozione di un metodo meno affidabile come quello dell’impressione priva di dati sperimentali probanti da parte di chicchessia, fosse anche uno stimato ricercatore.
Una volta chiarito cosa succede a causa del Covid-19 e cosa la scienza ci propone per farvi fronte, si può anche decidere che è preferibile correre un rischio maggiore piuttosto che limitare la libertà di movimento dei cittadini o impedire ai bambini di andare a scuola e agli anziani, ai sofferenti mentali, ai giovani di avere una soddisfacente vita di relazione. E’ l’atteggiamento legittimamente adottato dal Governo svedese e, sempre per via della carenza di studi scientifici che avessero confrontato in precedenza i due modelli, quella scelta è stata utile anche a noi per valutare le strategie da adottare nella seconda ondata. Epidemiologi e virologi sono giunti quasi all’unanimità alla conclusione che il modello svedese ha dato cattivi risultati per cui, anche tralasciando valutazioni sulla disciplina dei cittadini svedesi e italiani, hanno consigliato misure più restrittive. In tutti i casi, ciò che spero d’essere riuscito a comunicare è che le valutazioni scientifiche vanno lasciate a chi fa ricerca, applicando il metodo universalmente adottato dalla comunità scientifica che, altro aspetto da sottolineare, è in larga misura indipendente dal regime politico in cui i ricercatori operano (anche perché una ricerca strumentalmente eterodiretta viene scoperta abbastanza facilmente perché viene al pettine il nodo cardine della riproducibilità). La politica, sotto il controllo dell’opinione pubblica, ha il diritto/dovere di adottare i provvedimenti di carattere sanitario, economico, di ordine pubblico, etc. che la scienza consiglia, mentre non ha quello di contrapporre scelte basate su una metodologia non riconosciuta: e se ci sono dubbi di scientificità, a Cesare quel che è di Cesare, dovrà esserne reinvestito il mondo della ricerca, non ci sono scorciatoie. Almeno fintanto che qualcuno non ci dimostrerà che c’è un metodo migliore.

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