“Per una scuola che non disperde e non dispera”

12 Dicembre 2022
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Lorella Villa, presidente CIDI Cagliari

 

 

 

Ecco la relazione di apertura dell’incontro dibattito del 7 Dicembre organizzato dal CIDI di Cagliari e dalla Scuola di cultura politica Francesco Cocco per presentare il lavoro del CPIA di Cagliari e il progetto Audiolettere per Nino realizzato dalle studentesse del secondo periodo del CPIA Karalis 1 di Sant’Elia, dal titolo “Per una scuola che non disperde e non dispera”, un gruppo di intellettuali presta la sua firma per un appello ad una scuola antipedagogica e antiburocratica1

 

Abbiamo pensato molto a come intitolare l’incontro di oggi. Poi abbiamo scelto

Per una scuola che non disperde e non dispera”, soprattutto non dispera, non si fa prendere da quel sentimento di resa, deleterio almeno quanto le critiche che alla scuola pubblica incessantemente vengono rivolte perché il nostro incontro di oggi vuole essere il tentativo di contrastare il racconto sempre più dilagante e pervasivo che si fa (dall’esterno) della scuola pubblica e in particolare di quella che i suoi detrattori definiscono “scuola progressista” o scuola democratica, tout court.

E i detrattori sono sempre più numerosi. Il fenomeno, perché di fenomeno culturale si tratta, ha avuto un’impennata a partire dalla morte dell’intellettuale italiano che forse più di chiunque altro ha contribuito all’emancipazione democratica attraverso l’educazione, alle politiche volte a istaurare in Italia un sistema educativo equo e al contempo di qualità, quindi realmente democratico. Sto parlando di Tullio De Mauro.

Ebbene, Tullio De Mauro muore il 5 Gennaio del 2017. Due settimane dopo la sua morte viene pubblicata una lettera sui mali della scuola pubblica firmata da seicento professori universitari, un gruppo informale che si riconosce nella volontà di tornare ad una scuola “del merito e della responsabilità”. A Tullio De Mauro, insieme a don Milani, al ’68 alla pedagogia degli attivisti e alla loro idea di scuola a partire da allora, sono stati attribuiti tutti i mali della scuola italiana odierna, soprattutto gli effetti devastanti sugli apprendimenti, dovuti secondo questi intellettuali, all’egualitarismo, una sorta di patologia frutto di un mix di “buonismo”, mancanza di rigore, eccessiva indulgenza nei confronti dei più “asini”, che non vengono più bocciati e quindi impediscono di far crescere i migliori (quelli che il destino ha fornito di più talenti o più spesso hanno avuto la fortuna di nascere con il cognome giusto). Fino a quando De Mauro era in vita aveva contrastato queste derive reazionarie; dopo la sua morte queste idee hanno sovrastato ogni altro dibattito sulla scuola, avvelenando i pozzi.

Tutte le pubblicazioni dei vari Galli Della Loggia, Mastrocola, Ricolfi, Cacciari, Ilvo Diamanti, da ultimo anche Crêpet, senza contare le varie fondazioni vicine a Confindustria, indicano anche una ricetta da somministrate subito alla scuola “bloccata” che produce il danno sociale che con tanta superficialità descrivono. La medicina che questa fata Turchina vuole impartire a Pinocchio è fatta di severità, rigore, disciplina e soprattutto bocciature. Basta bocciare (quindi escludere) e i mali dell’Italia si potranno risolvere. O almeno quelli della scuola.

Poiché queste spinte reazionarie sono diventate egemoniche nel discorso pubblico sulla scuola in questo Paese, impedendo di discutere dei mali veri del nostro sistema d’istruzione, abbiamo pensato di iniziare ad organizzare una serie di incontri nei quali fare “l’elogio della scuola pubblica” e parlare anche dei suoi problemi veri.

Perché quelli che conoscono la scuola pubblica, la conoscono nelle sue luci e nelle sue ombre, ma soprattutto la considerano un baluardo per la difesa della vita democratica, a questo punto devono controbattere.

In politica non si ottiene nulla se i cambiamenti non provengono dal basso: abbiamo oggi il dovere di difendere la scuola pubblica quindi democratica, quella della Costituzione, per intenderci, perché l’opinione pubblica non deve essere indotta a credere che la scuola sia sbagliata, bloccata, che non prepari adeguatamente o il rischio è quello di andare verso modelli di scuola selettivi con l’introduzione di bonus-cultura per le famiglie (come è già successo in Germania) e lo smantellamento della scuola pubblica a favore di un sistema frammentato e, neanche a dirlo, ancora più elitario.

In una recente pubblicazione, Luciano Benadusi e Orazio Giancola, tra i massimi esperti di indagini empiriche sui sistemi educativi dei Paesi OCSE dal titolo “Equità e merito nella scuola”, dimostrano con dati, prove empiriche, confronti di rilevazioni pluriennali e internazionali che i sistemi scolastici selettivi non sono migliori in termini di qualità degli apprendimenti e il verdetto storico di fallimento dell’eguaglianza e del modello di scuola comprensiva è inaccettabile perché risulta empiricamente infondato. “Sul terreno dell’equità, se si guarda ai dati, la “comprensivizzazione” (il contrario della scuola selettiva tanto decantata dai 600) è stata un successo, per lo più ottenuto non a prezzo di una minore efficacia e qualità, semmai il contrario. (..) Certo, una maggiore eguaglianza conseguita a scapito della qualità degli apprendimenti non farebbe che aumentare il peso economico, sociale e culturale delle famiglie, quindi la disparità tra avvantaggiati e svantaggiati senza innalzare il livello degli apprendimenti per gli studenti “lasciati indietro”, ma a questo deve provvedere non la scuola da sola ma le politiche sociali nel loro insieme”. 2

In sostanza il treno dell’equità nell’educazione marcia con due locomotive: le politiche dell’istruzione e quelle sociali. E inclusione e qualità devono formare quando si parla di scuola un binomio inscindibile.

Ma perché chi si arroga il diritto di parlare di scuola lo fa sempre a vanvera? Senza prendersi la briga di studiare i dati della ricerca? Se non si procede così, siamo nel campo delle opinioni. Della fuffa, perché tutti hanno diritto alle proprie opinioni ma non ai propri fatti.

Noi procederemo in un altro modo: guardiamo i dati. Se prendiamo quelli dell’ISTAT scopriamo che nel 1951, primi anni dell’epoca repubblicana il 12% degli italiani erano analfabeti e il 59% aveva la licenza elementare. Nel 2001 dopo 50 anni di scuola pubblica il 30% ha la licenza media, il 30% il diploma e il 7% la laurea.

È ancora troppo poco, certamente, ma sono dati sufficienti ad affermare che la scuola della Repubblica ha modificato la società più che in ogni altro Paese industrializzato.

Ecco, questo è un fatto!

Veniamo ad altri numeri e dati importanti che riguardano la qualità degli apprendimenti.

Mi affido ad un altro recente studio scientifico di Domenici, Lucisano, Biasi dal titolo: “Ricerca sperimentale e processi valutativi in educazione” e vado alle conclusioni: sarebbe troppo lungo ripercorrere questa documentata e elaborata ricerca ma chi vorrà potrà procurarsi il saggio e studiarlo.

Dicono i ricercatori a proposito della validità di queste prove e del bisogno che le muove: “Le indagini internazionali negli anni Settanta erano orientate da uno sforzo cooperativo incentrato sulla necessità di sostenere i processi di democratizzazione attraverso l’accesso alla scuola secondaria di strati della popolazione sin lì esclusi. Verso la fine degli anni Novanta il focus delle indagini si è spostato verso la necessità di quantificare il capitale umano, una variabile ECONOMICA che viene declinata in termini di rendimento alle prove somministrate”3.

Questa scelta rende la portata informativa delle indagini internazionali impoverita dall’uso che ne fanno i decisori politici cioè quello di concentrarsi sul posizionamento dei diversi Paesi nelle graduatorie internazionali.”

Traduco: le prove di rilevazione non sono e non devono essere le Olimpiadi del sapere!

Anche perché così facendo si rischia di considerare l’educazione alla stregua di una variabile indipendente rispetto a fattori economici e sociali. “Questo comporta – sono sempre i tre ricercatori a scrivere “un’attribuzione eccessiva di responsabilità al sistema scolastico che viene costantemente messo sotto pressione (in realtà ci sparano addosso con il fucile a pallettoni!) e lo si carica di responsabilità che invece sono proprie del sistema sociale ed economico, mai messo in discussione.”

In pratica queste rilevazioni che dovevano all’inizio servire a migliorare i sistemi scolastici in Italia sono diventati un grimaldello per scardinare a livello di opinione pubblica la validità del sistema scolastico. E spesso i decisori politici hanno fatto tesoro di queste rilevazioni. Come scriveva Campbell, però: “quando i punteggi dei test diventano l’obiettivo del processo di insegnamento, perdono il loro valore come indicatori dello stato di istruzione e DISTORCONO il processo educativo” impoverendo le prassi didattiche. 4

Sul rendimento scolastico, inoltre, incidono molti fattori: il territorio di provenienza, il titolo di studio dei genitori…Sicuramente non solo la scuola. Potremmo dire con Amleto che ci sono più cose in cielo e in terra che meriterebbero di essere valutate e non sempre è possibile o corretto farlo con metodologie quantitative. Sarebbe un grave errore quello di marginalizzare nella scuola i saperi non orientati a performance misurabili, ma è quello che potrebbe avvenire se si continua a guardare alle rilevazioni nazionali come ad un oracolo.

Altro rischio piuttosto palpabile è che il catastrofico dilagante ingeneri altre due temibili derive: molti docenti forse per un ingiustificato senso di colpa o per “risentimento” hanno iniziato a pensare che questi risultati così deludenti possano essere da imputare alla natura refrattaria al sapere di studenti e studentesse. La colpa insomma - che non è di nessuno perché non esiste una colpa - si è riversata su quelli che proprio non possono e non devono averne perché sono ragazzi e ragazze in obbligo scolastico ai quali e alle quali dobbiamo dare un servizio di qualità.

L’altra deriva pericolosa è che le prove Invalsi siano usate per stilare graduatorie degli istituti migliori per indirizzare le scelte delle famiglie (l’osservatorio Eduscopio finanziato dalla fondazione Agnelli ha iniziato a farlo già da qualche tempo). Questo ha messo in competizione le scuole che operano sullo stesso territorio quando ora più che mai ci sarebbe bisogno di combattere la povertà educativa costruendo (ci sono ma non hanno mai funzionato realmente) delle reti di scuole che operano congiuntamente e in sinergia negli stessi ambiti territoriali.

 

Insomma abbiamo appuntato l’attenzione su un aspetto che è balzato in primo piano e ha invaso il quadro (…), come diceva Calvino in Palomar. “S’aggiunga che il riflusso d’ogni onda ha anch’esso una sua forza che ostacola le onde che sopravvengono. E se si concentra l’attenzione su queste spinte all’indietro sembra che il vero movimento sia quello che parte dalla riva e va verso il largo”.

Proviamo allora a guardare altrove, dal largo verso la riva. Se si indagano le indagini dell’OCSE-PIAAC si scoprirà che nel nostro Paese persistono discriminazioni si tipo sociale e di genere (sulle quali lo ammetteranno i nemici della scuola democratica, la stessa scuola poco può fare da sola). Ma in un campione di età dai 16 ai 64 anni emerge che i risultati nel primo ciclo nelle competenze nella lingua madre e in matematica sono pari a quelli della media internazionale.

Ripeto e traduco: le elementari reggono il confronto con gli altri Paesi.5 Soprattutto le giovani generazioni hanno più competenze della popolazione più anziana. Quindi: le fasce più giovani della popolazione ottengono migliori risultati (oltre venti punti di differenza in entrambi gli ambiti) rispetto alle altre fasce d’età. E questa differenza è maggiore che in tutti gli altri Paesi partecipanti. Il campione è composto estraendo individui dalle liste anagrafiche e l’indagine è svolta dall’INAPP (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche Pubbliche) (p. 332). Le prove sia detto per inciso sono a domanda aperta, non prevedono come L’Invalsi la mera risposta ad un item, sono quindi molto più significative per rilevare le competenze.

Traduco ancora una volta il dato: sono i più anziani e non i più giovani in questo Paese ad avere competenze più basse.

Spazzato il terreno dall’orrore della fotografia dello stato di salute del sistema scolastico restituito dalle prove Invalsi (mi ricordano quelle fotografie scattate a tradimento dove avevamo gli occhi rossi ed esterrefatti, come tanti demoni spauriti!) andiamo a quelli - questi si spietati - sull’abbandono precoce della scuola ma non prima di aver fatto chiarezza su un dato. Anche qui le cifre sono sempre piuttosto confuse. I dati sull’abbandono sono suscettibili di grandi scostamenti quando vengono pubblicati, si va dal 15% al 26%. Come mai? C’è un enorme fraintendimento linguistico: si confonde il concetto di abbandono scolastico con quello di dispersione.

La letteratura scientifica distingue i due concetti. Per abbandono si intende le percentuali di chi lascia gli studi prima della fine dell’obbligo che oggi in Italia è a 16 anni. Per dispersione un insieme di dati che indicano l’abbandono, la ripetenza, il non raggiungimento degli standard fissati dalle prove di rilevazione internazionali in literacy e numeracy (le cosiddette competenze che l’Invalsi non rileva perché sono prove volte a rilevare le abilità e le conoscenze).

Prendiamo i dati del MIUR sull’abbandono precoce nello scorso anno scolastico: il 15% delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi non porta a compimento la scuola dell’obbligo.6 È un numero che dovrebbe tenerci tutti insonni. Invece è, almeno nei fatti, un problema che non angoscia come dovrebbe.

Ci fanno sobbalzare di più gli errori di grammatica degli universitari!

Se si incrocia poi il dato con quelli dell’ISTAT sulla correlazione tra i risultati scolastici e l’estrazione sociale della famiglia di origine (ovvero i livelli di istruzione dei genitori e la loro situazione lavorativa) è chiaro che la scuola italiana rimane una scuola di classe, di élite, non riesce ancora ad essere una scuola che rimuove gli ostacoli alla piena realizzazione della persona umana, a dare un servizio di qualità a chi ne ha più bisogno: 2/3 degli studenti che non raggiungono il diploma, sono figli e figlie di genitori a loro volta privi del titolo di studio superiore. La scuola democratica che i suoi detrattori attaccano, in realtà, non è mai stata realizzata. Altro che egualitarismo colpevole di aver abbassato il livello!

La scuola è stata lasciata sola e impoverita a far fronte a problemi sempre più complessi senza avere alle spalle una società che si pensa in termini di società educante, mentre insieme agli altri attori sociali dovrebbe realizzare quello sforzo costante di costruzione di una Repubblica democratica che la Costituzione ha affidato a tutti noi.

Il problema non è fare brutta figura all’esame di sociologia con il Prof. Ricolfi, il problema senza una scuola democratica nei fatti è avere una peggiore qualità della vita, maggiore possibilità di ammalarsi perché impiegati in lavori precari o meno qualificati, lavorare di più per guadagnare meno, avere meno senso civico e provare risentimento per i più “fortunati.”

Senza questo tipo di scuola è a rischio non il sapere della classe dirigente ma la democrazia, la coesione sociale. Solo l’istruzione e la lotta contro la povertà educativa - che vuol dire non solo una scuola migliore ma più biblioteche, più servizi per le donne madri e lavoratrici, più palestre pubbliche, - possono contenere l’onda d’urto dei populismi e dei sovranismi che si esprime in termini di odio per il diverso, disprezzo delle minoranze, semplicismo del linguaggio e del pensiero.

Per non chiudere con una nota di resa, ma con una nota propositiva torniamo a chiederci cosa possiamo fare noi come cittadine e cittadini per risolvere il vero problema del nostro Paese: i divari sociali che si ripercuotono sulla scuola. Non c’è nulla d’ineluttabile nella trasmissione dei vantaggi socio-economici da una generazione all’altra. Le forti differenze nella mobilità tra i Paesi indicano chiaramente il ruolo cruciale che le politiche possono svolgere nel promuovere la mobilità. In particolare, sono necessarie politiche di supporto al reddito così come quelle rivolte a promuovere la mobilità nell’istruzione e quella occupazionale, per alleviare lo svantaggio di coloro che vengono da famiglie a basso reddito.

Perché lo ribadisco solo l’accesso equo all’istruzione e ai servizi educativi può ridurre i divari.

E questo noi dobbiamo chiedere alla politica. Con sempre maggior forza!

E poi raccontare la scuola come un organismo vivo, palpitante e pulsante.

Noi cominciamo subito ascoltando coloro che ogni giorno realizzano la scuola che non disperde e non dispera: ascolteremo con vero piacere tra poco le colleghe e le studentesse del CPIA Cagliari 1.

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