La scuola del merito e la lezione di don Milani

6 Maggio 2023
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Uno studente ogni sei in Italia abbandona la scuola prima del diploma, secondo l’ultimo rapporto Svimez. E al ministero “dell’istruzione e del merito” si ascoltano le sirene contro l’inclusività della scuola. Sarebbe invece da riprendere la lezione del prete di Barbiana che invitava i professori a “non dormirci la notte”.

Don Lorenzo Milani servì in modo esemplare i poveri, il Vangelo, la Chiesa. Il riconoscimento della limpida coerenza evangelica del percorso e dell’opera del prete di Barbiana è finalmente arrivato. Per decisione di papa Francesco che ha pregato sulla sua tomba, visitato la sua scuola, incontrato i suoi ex-studenti. Ma  solo nel 2017, a cinquant’anni dalla sua morte. Con ciò si è forse messa la parola fine a una lunga storia di attriti e di freddezze di parte delle gerarchie ecclesiastiche per quel prete così scomodo da decidere di  esiliarlo in un borgo sperduto di montagna. Perché, pur obbedendo sempre, scrisse che “l’obbedienza non è più una virtù”, difese gli obiettori di coscienza al servizio militare, impose il tema, di scottante attualità anche oggi, della responsabilità individuale rispetto alla guerra e al suo contrasto. E fu capace di parlare al mondo laico – ai giovani di allora, una generazione di rottura alla ricerca di nuove libertà per sé e per gli altri – come nessun altro prete cattolico in quegli anni aveva saputo fare. Una riappacificazione definitiva? Forse, perché anche nella Chiesa niente sembra poter essere scritto sulla pietra.

Ma l’importanza di Don Milani nell’Italia del secondo Novecento, la sua capacità anche oggi di ispirare etica e cultura civile, o almeno la ricerca, l’impegno, le battaglie che ne sono il nutrimento, non dipende da questo. Può sembrare paradossale, considerata la smemorataggine della società dei nostri tempi, ma è indubbio che per tanti che operano nella scuola, nelle periferie, nell’immigrazione, nel vasto mondo di un volontariato credente e non credente o che, più in generale, costruiscono partecipazione democratica e coesione sociale, la sua scelta di essere sempre a fianco degli ultimi, la durezza con cui ha denunciato le ingiustizie, la forza del suo esempio, restano un punto di riferimento.

Don Milani appartiene alla schiera dei rari intellettuali che sanno parlare a tutti, atipici, non conformisti, non catalogabili in schieramenti ideologici. E’ questa la fonte primaria del suo lungo fascino. Le sue parole e le sue azioni restano tuttora vitali, anche se il mondo non è più quello di mezzo secolo fa, perché molti dei problemi messi a nudo con la sua azione di verità restano irrisolti, perché ha difeso i mondi che il modello di sviluppo economico sta distruggendo, perché ha rivendicato il valore autentico, l’insopprimibile umanità della politica. “Il problema degli altri è eguale al mio. Uscirne tutti insieme è la politica. Uscirne da soli è l’avarizia”.

La fecondità del suo pensiero e del suo esempio si riscontrano soprattutto nel campo dell’educazione, che è assai più largo di quello della scuola ma che nella scuola, in particolare quella a cui tutti hanno diritto, ha il suo fulcro. Non c’è insegnante che prima o poi, negli studi accademici, nella preparazione ai concorsi, nella formazione in servizio, non abbia dovuto misurarsi con la scuola di Barbiana. O almeno con la sua fama e con il suo messaggio fondamentale, se non con lo studio di ciò che rivela quello straordinario manifesto che è la “Lettera a una Professoressa”.

Il messaggio, che irrompe in quella particolare stagione politica in cui migliaia di  studenti scoprirono non solo l’iniquità sociale dell’istruzione pubblica ma anche il fascino della sfida democratica e civile del lavoro docente, è che la scuola “non è più scuola se si perdono gli ultimi. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Che le diseguaglianze di partenza si possono curare se gli insegnanti “aguzzano l’ingegno” e non compiono l’errore “di fare parti eguali tra diseguali”. Che dei Pierini promossi e dei Gianni bocciati sono gli insegnanti ad avere la colpa ( “Mi dite che avete bocciato non i poveri ma solo i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi”). Che bisognerebbe “non dormirci la notte per l’ansia di elevare a un livello superiore il povero. Non dico a un livello pari all’attuale classe dirigente. Ma superiore, più uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto”. Il compito della scuola è offrire a tutti, in primis ai più “difficili”, gli strumenti per essere cittadini a pieno titolo, uguali, consapevoli, capaci di lottare contro le ingiustizie. Non si tratta di solo “ascensore sociale”, né di formare  la classe dirigente. Il fine è rendere coscienti, colti e liberi tutti, superando gli svantaggi di partenza. E’ l’articolo 3 della Costituzione, l’uguaglianza delle possibilità di crescere, migliorare, sviluppare le proprie capacità. Un potente programma democratico di emancipazione civile e sociale attraverso l’istruzione, la cultura, la padronanza della lingua. Con l’obbligo di stare dalla parte degli ultimi: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto in grande ‘I care’. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori, il contrario del motto fascista ‘me ne frego’ “.

La scuola di cui scrivono i ragazzi di Don Milani, sebbene  obbligatoria e unica per tutti ( la riforma della scuola media è del 1962, la “Lettera” del 1965), i Gianni continua a bocciarli, ricacciandoli nel destino del lavoro nelle campagne e nelle fabbriche. Da allora la normativa scolastica ha fatto passi da gigante, in termini di inclusione formale e di sollecitazione ad un’attenzione educativa e didattica ai più deboli, e la dispersione e gli abbandoni si sono spostati per lo più a dopo la scuola media. Ma ancora non ci siamo, i numeri dicono che gli insuccessi formalizzati o no (perché oltre alla dispersione esplicita, più alta della media europea, c’è anche quella implicita, cioè i titoli cui non corrispondono le competenze previste) sono quasi sempre connessi con lo svantaggio socio-economico, i divari territoriali, le provenienze, gli indirizzi frequentati. I Gianni che nonostante tutto proseguono gli studi e che ora si chiamano spesso Ahmed e Fatima, lo fanno in percorsi considerati inferiori. Molti – italiani doc e italiani in attesa di essere riconosciuti tali: il 67% degli studenti stranieri è nato in Italia – abbandonano prima della conclusione, moltissimi escono dalla scuola con poca cultura, lingua povera e incerta, competenze fragili, scarsa formazione civile. Se Don Milani fosse ancora tra noi, i suoi timori di allora, tanto simili a quelli di Pasolini, del venire avanti di una gioventù assai più esposta alle sirene del conformismo consumista che preparata all’altruismo e al “prendersi cura”, ne uscirebbero di sicuro confermati. Solo una parte non grande delle scuole fanno dell’esperienza di Don Milani la bussola di pratiche didattiche nuove, costruite sui bisogni di ciascuno, capaci di motivare, appassionare, non perdere nessuno. Solo pochi, in una categoria docente depressa dalla svalorizzazione professionale e da politiche scolastiche senza slanci e senza qualità, sanno essere non insegnanti di routine ma autentici educatori. Quelli che non si dimenticano per tutta la vita. Quelli che accompagnano alla consapevolezza della realtà, alla partecipazione, alla politica.

Don Milani parla ancora alla scuola, ma talora è solo retorica. Non solo. A fronte dei risultati diffusamente scadenti del sistema scolastico italiano, si sta gonfiando il coro dei detrattori del suo profilo universalistico e, almeno dal punto di vista formale, anche inclusivo. Ad essere sotto accusa non è la duratura assenza delle politiche ordinamentali e di formazione/valorizzazione del personale essenziali in una scuola insieme di massa e di qualità. A crescere, nell’opinione pubblica e in molta politica, è la tesi secondo cui sarebbe l’inclusività stessa della scuola la causa di un insegnamento sempre meno impegnato a realizzare apprendimenti solidi, conoscenze approfondite, competenze valide. E’ da lì che deriverebbe una scuola troppo poco esigente, che per mandare avanti tutti “ha abbassato l’asticella” e che li promuove  indipendentemente dal “merito” e dall’impegno. Il problema, insomma, sarebbe che non si boccia più, con il duplice effetto negativo da un lato di non valorizzare talenti e meriti dei migliori (che tuttavia, in quanto  perlopiù  benestanti, possono recuperare in altro modo), dall’altro di far perdere agli altri la sola opportunità disponibile, cioè l’esperienza scolastica, per riscattarsi dagli svantaggi. Un punto di vista con molti vizi. Che non solo non tiene conto di quanti ragazzi si perdano anche nella scuola inclusiva (e di quanto pochi si sia  capaci di recuperarne nella formazione degli adulti), ma che non considera che tra le scuole migliori del mondo ce ne sono che escludono del tutto il dispositivo, o il deterrente, della bocciatura, puntando invece sulla qualità didattica, sulla flessibilità dei tempi e delle modalità dell’apprendimento, sull’utilizzo delle diverse intelligenze, sul mix tra teoria e pratica, studio e lavoro.

Di recente persino l’OCSE ha sconsigliato le bocciature, perché inutili o dannose agli studenti, e in più costose per il sistema. Ma tutto ciò ai nostalgici della scuola del passato non importa. Come per un riflesso condizionato, inoltre, si finisce sempre per dare la colpa al Sessantotto: che forse qualche colpa l’ha anche avuta, ma di certo non quella di condizionare le politiche scolastiche per i successivi settant’anni. E allora, inevitabilmente, la colpa è anche del Don Milani così amato dai sessantottini, e della sua appassionata battaglia contro le bocciature. A deprecare il “donmilanismo dilagante” c’è anche il sociologo Luca Ricolfi, intellettuale ascoltato nel ministero “dell’istruzione e del merito”.

E qui siamo al travisamento di ciò che è stata Barbiana. Perché Don Milani, che ha criticato con estrema durezza l’ingiustizia sociale della scuola, non ha mai messo in discussione il rigore e l’impegno nell’apprendimento. Tutte le testimonianze e le documentazioni raccontano di un maestro quanto mai esigente, con se stesso e con gli studenti, che nega l’autorità ma rispetta la tradizione. La sua idea di scuola è lontanissima dalle suggestioni della pedagogia della descolarizzazione, l’apprendimento è una partita della massima importanza che richiede disciplina e dedizione. Passa da qui, dalla padronanza della lingua e delle “tabelline”, la possibilità di una piena realizzazione umana, la non subordinazione, la non marginalizzazione. Quante parole servono per essere uguali, per non abbassare la testa? Il maestro di Barbiana chiede il massimo dai suoi ragazzi, li motiva, li accompagna. Non c’è nessuno che non possa imparare, anche ad amare la musica classica, anche a raccogliere dati, disegnare grafici, esporre argomenti, scrivere collettivamente un testo provocatorio e complesso come la “Lettera”. Si consultano i libri della biblioteca, si leggono i giornali, ma si impara anche a nuotare e a lavorare nel laboratorio di falegnameria e di meccanica. Poi, nella “Lettera” e in altri testi, c’è anche una meditata metodologia, in parte ancora attuale e perfino applicabile alla didattica con le nuove tecnologie. La scuola aperta alla realtà e agli interlocutori esterni, il programma condiviso con gli alunni, l’apprendimento cooperativo, l’intensità della relazione educativa non solo tra maestro e studenti ma anche degli studenti fra loro. La modernità e l’attualità di Don Milani è anche qui. Bisognerebbe studiarla meglio, conoscerla nei dettagli, magari sperimentarla. “Aguzzare gli ingegni” e “non dormirci la notte”.

Pubblicato dalla rivista Rocca

 

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