Nichi Vendola
Confesso che ormai da 20 anni non leggo più le riflessioni, sempre logorroiche, degli intellettuali e dirigenti della sinistra sull’unità della sinistra. E ho iniziato a disertare queste dissertazioni quando ho capito che quanto più con calore si discettava dell’unità, tanto più si preparava una nuova divisione. Non ho perso nulla, ho solo speso meglio il mio tempo. Ora, però, in flagrante contraddizione vi propongo uno scritto recente di Nichi Vendola. Ma ho dei buoni motivi. E’ lungo, ma sempre meno delle relazioni di Occhetto, Fassino e D’Alema. Poi ha un titolo intrigante: la prima alleanza è con la realtà. Non voli pindarici privi di senso, ma un invito alla concretezza della lotta sociale. “La politica - dice il leader di Sel - torni ad essere il vocabolario del cambiamento e non il chiacchericcio di un ceto separato” E poi come non essere affascinati da questa affermazione: “Non bisogna cercare le alleanze “negli abracadabra di Palazzo”, nelle “intenzioni tattiche” che “si rivelano sempre sbagliate o fallimentari: la realtà della società italiana non si fa ridurre ad una astratta somma algebrica”. ed infine sntite che bella questa: “Liberarsi di Berlusconi per tenersi il berlusconismo non è una grande vittoria”.
Peccato che in periferia Vendola abbia così cattive compagnie, se no, potremmo cercare di dargli una mano! Ma nel frattempo godiamoci il suo pensiero. (a.p.)
I senatori di questa ormai scarnificata maggioranza hanno fretta, tanto da incorrere in qualche goffo e grottesco incidente parlamentare. Vogliono approvare la controriforma dell’università subito, senza rischiare ripensamenti, senza dovere fare ancora i conti con le prime vittime della loro riforma, gli studenti.
Vogliono calare il prima possibile l’ultima saracinesca su quei ragazzi, per potersi gustare il cenone avendoli chiusi in una cantina buia e senza più nemmeno una finestrella aperta sul futuro. Evocano il terrorismo perché hanno terrore di una generazione che rappresenta il corto-circuito della propria feroce politica. Sono l’icona, ritoccata dal chirurgo plastico, di un potere che uccide il futuro. Evocano atmosfere classiche, il bel tempo andato dove l’Ordine costituito non conosceva le perturbazioni della piazza: i figli della lupa e la Gelmini ci accompagnano sulle vette della sapienza e della modernità.
Gli arresti preventivi non devono stupire più di tanto. Hanno già preventivamente arrestato questa generazione: chiusa nella gabbia del grande fratello e della grande precarietà. Ricordo sommessamente che “la meglio gioventù” non è quella di chi si subordina al cattivo buonsenso, ma quella che si ribella, che contesta le gerarchie sociali, che scruta orizzonti inediti, che intende auto-educarsi alla cooperazione e non auto-castrarsi nella rete vischiosa della competizione totale. Vogliono apparati formativi che addestrino all’obbedienza e alla parcellizazione del lavoro, che educhino alla paura e alla flessibilità, che ci abituino ad essere funzioni del mercato piuttosto che attori della società. Appunto, vogliono che la società scivoli nella forma del mercato, fino a che il cittadino non si identifica interamente nella dimensione del cliente.
Anche l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. ha fretta. E’ impaziente di stringere intorno al collo dei lavoratori italiani il cappio che completerà la loro trasformazione in merce seriale, privati anche solo della memoria di quelli che un tempo erano i loro diritti. Si tratta di un finale di partita drammatico. L’alibi della crisi e della globalizzazione per capovolgere il secolo che ha fatto del lavoro la pietra angolare dell’architettura democratica. Il lavoro smette di essere un fatto sociale, un misuratore di civiltà, una dimensione collettiva e regredisce a condizione individuale, quasi biologica: in un corpo a corpo sempre più violento e pre-moderno tra la solitudine del singolo lavoratore/lavoratrice e l’impresa a rete transnazionale.
Il governo e l’azienda, Tremonti e Marchionne, marciano allo stesso passo veloce. Hanno in mente un progetto di società comune e omogeneo. Con un gusto orwelliano del paradosso sinistro, definiscono l’edificazione di un nuovo paradigma neo-servile come condizione esistenziale permanente di “libertà”. Ci dicono che la libertà sarebbe inibita dalla democrazia. Anche perché l’unica libertà che hanno in mente allude all’esercizio dell’onnipotenza del maschile: potremmo dire che si tratta di una libertà di stupro della forza produttiva e di quella riproduttiva. La violenza contro i corpi sociali e contro i corpi individuali è consustanziale alla modernizzazione dei tecnocrati e dei custodi della grande frode fiscale dominante.
Il berlusconismo, inteso come un sistema complesso di cultura e di politica, merita una lotta capace di intelligenza e di fiato lungo: le contumelie contro il premier rischiano di deviare l’attenzione dagli ingredienti di un ciclo storico che ha segnato l’intero Paese e tutta la politica, anche la nostra. Liberarsi di Berlusconi per tenersi il berlusconismo non è una grande vittoria. Molto aldilà delle malefatte di un singolo leader e imprenditore, c’è un’intera epopea di idee e di mutamenti da radiografare, c’è davvero “l’autobiografia di una nazione” con cui fare i conti. Dovremmo saperci muovere all’altezza di questa sfida, senza perderci nei composti fumosi del “piccolo chimico” parlamentare, senza baloccarci ulteriormente con un pallottoliere i cui conti astratti non corrispondo mai a quelli reali. Dobbiamo restituire alla parola “libertà” il suo significato profondo, che oggi è prima di tutto libertà dalle tre P della destra: paura, precarietà, povertà. Qui c’è la traccia di un programma di alternativa, con questa spinta ideale può rinascere la sinistra e insieme può vincere l’Italia migliore.
Finisce il 2010 così, con vere scene di caccia ai diritti sociali e ai diritti di libertà: prede prelibate di un’attività venatoria che appare indispensabile per contenere l’eruzione del debito pubblico e per rovesciare il Novecento. Così la questione sociale torna ad avere un nome antico, come ci racconta nei suoi bellissimi e dolorosi saggi Marco Revelli: povertà. In un’Europa che ha imboccato la strada del proprio suicidio: fuoriuscire dal welfare, ridurre la complessità sociale a capitolo di ordine pubblico, affidare alle polizie la gestione della repressione dei poveri e della vigilanza sulle libertà esuberanti. La povertà dilagante in una Italia che Berlusconi narra come Paese di benestanti, laddove un esiguo 10% di popolazione è padrone della metà della ricchezza nazionale. La povertà estrema di quella metà esatta delle famiglie italiane che devono sopravvivere con solo il 10% della ricchezza complessiva. Ma anche la povertà dei sogni, soffocati dall’angustia di quelle gabbie in cui il governo sta rinchiudendo il futuro, la povertà di un lavoro immiserito perché spogliato della sua dignità e irriso dai modelli culturali e comportamentali dominanti.
Hanno ragione quei dirigenti del Pd che insistono sulla necessità delle alleanze, ma hanno torto quando le cercano negli abracadabra di Palazzo, nelle intenzioni tattiche che sulla carta dovrebbero regalarci un voto in più dei rivali, e che poi si rivelano sempre sbagliare o fallimentari: perché la realtà, la società italiana, il mondo in cui viviamo non si fa ridurre a una astratta somma algebrica. Se per noi la politica non diventa un’idea forte di Paese, e non si declina come speranza popolare e passione giovanile, continueremo a dare risposte sbagliate. Perché non avremo saputo ascoltare le domande di chi ci chiede di non aver paura. Di chi su una gru o su una terrazza cerca disperatamente un orizzonte nuovo. Di chi prova a riconnettere, sul terreno della politica, le parole ferite: lavoro, sapere, libertà, perché la politica torni ad essere il vocabolario del cambiamento e non il chiacchiericcio di un ceto separato.
Pubblicato su il manifesto
1 commento
1 Michele Podda
28 Dicembre 2010 - 20:49
Caro Direttore,
anche a me piace Vendola, anche se non aspiro ad avere un figlio con lui, tramite utero in affitto (Elton Jon). Epperò vederlo in un lungo monologo al secondo punto del TG3 delle 19.00 in diretta, a parlare delle condizioni generali dell’Italia, del Governo, del futuro e del lavoro, mi sembra un po’ troppo, mi suona alquanto strano, perchè non è la prima volta.
Mi sento un po’ preso in giro, quando vedo che, per scelta di chi sa chi e non si sa con quale scopo, si decide di lasciare il microfono aperto a qualcuno che esprime le proprie opinioni politiche in un momento in cui si potrebbero giocare primarie e candidature. Forse sbaglio, ma mi da fastidio. Il bello è che lo presentano come “il Presidente della Regione Puglia”. Fanno i turni, i Presidenti? E’ un prescelto? Non capisco.
En passant, ho visto la scena dei pastori sardi manganellati a Civitavecchia e respinti in Sardegna senza uscire dal porto; è qualcosa di veramente inaudito. Il motivo del blocco? La manifestazione non era autorizzata. Non so perchè lasciano arrivare a Roma, o a Genova o altrove i Black Bloc e invece fermano l’ “esercito” dei pastori sardi, meno di trecento e non tutti giovani e forti. E’ certo che “giocano d’astuzia” servendosi della carne da macello per i loro sottilissimi obiettivi.
Sempre gente che tira le fila, ci deve essere. Utilizzano anche le leggi come meglio credono: a volte la manifestazione va avanti comunque, altre volte la si interrompe sul nascere perchè non autorizzata.
Battuta di un pastore intervistato: diverso il trattamento per i “furbi” delle “quote latte”. Mi pare che sia così, noi sardi ancora una volta discriminati platealmente. Ho detto altre volte che a Roma a “elemosinare” non ci sarei andato “mai”.
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