Il “precariato” e il futuro delle società industriali

26 Ottobre 2019
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Gianfranco Sabattini

 

Maurizio Ferrera trae ispirazione da uno dei quadri più noti del Novecento italiano (“Il Quarto Stato”, dipinto nel 1901 da Giuseppe Pellizza da Volpedo) per descrivere la “Grande Trasformazione”, come Karl Polanyi (studioso ungherese di storia, sociologia ed economia) ha chiamato, nel 1944, il rivolgimento economico, sociale e politico iniziato nella prima metà dell’Ottocento e culminato nel superamento delle modalità organizzative pre-industriali dell’economia e della società; ciò che è accaduto con l’ascesa del mercato autoregolantesi della teoria liberista ha comportato un’organizzazione della produzione basata, a differenza che nel passato, su continue innovazioni tecniche, in un contesto caratterizzato dal generalizzato scambio delle merci, inclusa la forza lavoro.
Il titolo del quadro – ricorda Ferrera – riprende un’espressione coniata nel corso della Rivoluzione francese, per designare gli “strati” sociali esclusi dagli “Stati” formalmente riconosciuti dall’Ancien Régime (nobiltà, clero e borghesia). Nel quadro di Pellizza da Volpedo, il nuovo “Stato”, divenuto nel corso del primo Ottocento “classe operaia”, è rappresentato da una “fiumana” di contadini che manifestavano, in qualità di “ambasciatori delle fame”, anche per conto di quella larga parte della società che, a causa delle proprie condizioni esistenziali insostenibili, chiedeva giustizia sul piano della distribuzione delle opportunità offerte dal vivere insieme. Insomma – afferma Ferrera – “ai primi del Novecento il Quarto Stato viene descritto come classe ‘per sé’, autoconsapevole e compatta, portatrice di interessi universali di emancipazione. La sicurezza e la fermezza dei protagonisti della marcia di protesta celebrano l’affacciarsi sulla scene politica di una nuova forza prorompente, che avrebbe ridisegnato i tradizionali assetti economici e politici. Operai, contadini e braccianti chiedevano di essere ascoltati dal potere: o meglio chiedevano che venisse loro riconosciuto un potere politico – tramite diritti – che fosse in linea con la loro rilevanza economica e sociale”.
All’inizio del Novecento, quindi, operai, contadini e braccianti compongono la classe operaia, formatasi dopo la Rivoluzione Industriale, costituendo una della forze sociali protagoniste del processo storico, che culminerà, appunto, nella “Grande Trasformazione” polanyiana; un processo che, iniziato come già si è detto, nella prima metà dell’Ottocento, come sottolinea Ferrera, risulta caratterizzato da due distinti movimenti: prima lo “scardinamento dell’economia e delle relazioni sociali preindustriali e l’ascesa del mercato capitalistico”; successivamente, il lento e crescente contro-movimento sociale suscitato dagli esiti indesiderati del funzionamento non regolato del mercato delineato dall’ideologia liberista.
Le forze che hanno alimentato il contro-movimento sono state coordinate dalle organizzazioni sindacali e partitiche della classe operaia; con le loro battaglie, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, esse hanno ottenuto (almeno nell’Europa occidentale retta da regimi democratici) che i rappresentanti dei lavoratori “riempissero” i parlamenti e influenzassero l’azione dei governi, sino ad addomesticare, con la creazione del welfare State, gli “animal spirit” del mercato liberista.
Una volta conquistata un’elevata quota di potere politico e migliorate le proprie condizioni esistenziali, la classe operaia novecentesca si è però fermata, esaurendo gli originari slanci rivendicazionisti universali e trasformando lo “spirito di conquista”, che l’aveva caratterizzata nel corso del Novecento, in propensione a difendere unicamente le garanzie economiche e sociali conquistate. Essa, in tal modo, ha così rinunciato a conservare alla propria azione propulsiva “un orizzonte largo”, con lo svolgimento del “tradizionale ruolo di ambasciatrice dei più vulnerabili in un’ottica di lungo periodo”. La conseguenza di tale ripiegamento dell’azione rivendicativa della classe operaia ha comportato il disinteresse nei confronti delle “fiumane di oppressi” che esistono ancora oggi, soprattutto nei cosiddetti Paesi arretrati del Terzo Mondo, in quanto “tagliati fuori da qualsiasi circuito economicamente e politicamente rilevante perché non hanno nulla da scambiare”.
A differenza dei componenti del Quarto Stato dell’inizio dell’era industriale, i diseredati dei Paesi arretrati non hanno braccia che possano servire ad attività produttive che non esistono; al contrario, i componenti del Quarto Stato dei Paesi oggi economicamente sviluppati disponevano dei servizi della loro forza lavoro, che servivano alle attività produttive in espansione; per cui, ricorrendo alla minaccia di indire scioperi ed altre azioni di protesta, essi sono riusciti a migliorare la loro partecipazione alla distribuzione del risultato economico delle attività produttive nelle quali erano occupati.
Inoltre, grazie al suffragio universale (ulteriore diritto conquistato), i componenti del Quarto Stato “sono riusciti a entrare nel sistema e a sfruttarlo a proprio vantaggio”. I diseredati dei Paesi arretrati non possono invece avvalersi delle stesse opportunità, né la globalizzazione, passando “sopra le loro teste”, gliele offre,costringendoli ai “loro tentativi di sfuggire al proprio destino di esclusione formando carovane, salendo sui barconi, scavalcando muri”, esponendoli li sapone al rischio di una probabile morte.
Se questi diseredati dispongono di scarse possibilità per migliorare il proprio attuale status, nei Paesi capitalisticamente avanzati, malgrado le diverse condizioni esistenti, si è formata una nuova fiumana di deprivati, costretti a vivere sulla soglia della povertà, o quantomeno quasi nelle stesse condizioni economiche e sociali nella quali vivevano i componenti del Quarto Stato nel corso dell’Ottocento e, in parte, del Novecento. Questo stato di cose è emerso a causa delle disuguaglianze distributive, che si sono approfondite con l’inizio del processo di integrazione delle economie nazionali, iniziato nella seconda parte del secolo scorso.
A partire dagli ultimi quarant’anni, è apparsa evidente nei Paesi capitalistici la tendenza ad affermarsi di una distribuzione del reddito e delle opportunità rappresentabile graficamente come una “piramide” dalla forma assai diversa da quella tradizionalmente allungata, formatasi dopo l’istituzionalizzazione del welfare State, con poveri alla base, ricchi al vertice e, tra i due estremi, i titolari di svariati livelli intermedi di reddito. In luogo di questa piramide, per effetto del processo di globalizzazione, la ristrutturazione del capitalismo ha dato origine ad una nuova “piramide distributiva”, non più allungata, ma schiacciata, con poveri crescenti alla base, pochi ultraricchi al vertice e una gran “massa media” al centro.
Ralf Dahendorf, ricorda Ferrera, ha associato la distribuzione del reddito rappresentata dalla piramide distributiva allungata ad una struttura sociale che ha denominato con l’espressione di “società dei due terzi”: una società, cioè, costituita dal 65% dei suoi componenti, economicamente e socialmente “a vario titolo “garantiti”, inclusi nella “massa media” e da circa il restante 35% “senza àncore fisse al mercato del lavoro e dunque strutturalmente vulnerabili, quando non addirittura intrappolate nella disoccupazione e nella povertà”.
Il tradizionale Quarto Stato, continua Ferrera, “si è progressivamente disciolto all’interno della massa media”, dove le fasce titolari dei livelli più bassi di reddito sono rappresentate dalla classe operaia, anche se ben coperte da garanzie durature e certe, mentre alla base della nuova piramide distributiva si è “condensata” la percentuale crescente di cittadini del “precariato”, che Guy Standing, docente di “Economic Security” e cofondatore del “Basic Incombe Earth Network”, ha indicato, all’inizio del decennio in corso, come “nuova classe esplosiva”.
In un libro del 2011, Standing ha infatti sostenuto, non senza fondamento, che lo strato sociale del precariato si sarebbe trasformato in una “nuova classe”, che si sarebbe mobilitata “per sé” contro la globalizzazione, l’ideologia neoliberista e la finanziarizzazione del capitalismo mondiale. Sennonché, contrariamente alle previsioni di Standing, Ferrera ricorda che, sebbene negli anni Duemila vi siano stati, da parte dei componenti il precariato, importanti fermenti culminati nei movimenti “no-global” e nella diffusione di azioni di protesta, al di là e al di qua dell’Atlantico, non si sono registrate mobilitazioni emancipative di rilievo, ma solo tendenze regressive, di natura nazionalista e populista.
Ciò vale a sottolineare la profonda differenza che intercorre tra l’azione svolta dalla “vecchia” classe operaia nella prima metà del Novecento e quella della “nuova” classe, che a parere di Standing sarebbe dovuta risultare “esplosiva”, nella conduzione delle proprie rivendicazioni. Le ragioni di questa differenza, secondo Ferrera, possono essere intese solo inquadrando la costituzione del nuovo gruppo sociale in una più lunga prospettiva storica, “il cui penultimo anello è stato, appunto, quello raffigurato nel quadro di Pellizza di Volpedo”.
Il nuovo gruppo sociale, costituito dai precari, che Ferrera denomina “Quinto Stato”, è composto da lavoratori che tendono ad essere molto diversi, dal punto di vista economico e sociale, rispetto a quelli del Quarto Stato novecentesco. La classe operaia del Novecento – afferma Ferrera – “condivideva il lavoro di fabbrica, viveva negli stessi quartieri, frequentava gli stessi ritrovi, le sezioni locali dei partiti e dei sindacati, era socialmente e culturalmente più omogeneo, più facile da organizzare e mobilitare”; al contrario, il precariato di oggi è eterogeneo e molto disperso; al suo interno emergono movimenti di protesta che raramente sono in grado di “fare rumore”. In sostanza – conclude Ferrera – è difficile immaginate “per il precariato un’icona che abbia lo stesso valore simbolico del quadro di Pellizza da Volpedo, la stessa unificante capacità evocativa”.
L’emergere del Quinto Stato è perciò – secondo Ferrera – “l’esito di un nuovo, ampio e pervasivo cambiamento”; ovvero, di una nuova “Grande Trasformazione” ancora incompiuta. Per ora è possibile rilevare solo il primo movimento, quello che, nella prospettiva di Polanyi, corrisponde alla sostituzione dei vecchi modi di produrre e alla crisi delle vecchie relazioni sociali e forme di vita; mentre non è possibile rilevare il secondo movimento (o contro-movimento), in quanto esso non ha ancora preso una forma definitiva, univocamente orientata.
L’azione della classe operaia del Novecento è stata volta ad assicurare lavoro e reddito a tutti i suoi componenti; nel contesto della prima Grande Trasformazione, il contro-movimento ha portato alla costruzione del welfare State, mentre non è ancora possibile capire verso quale obiettivo potrà indirizzarsi quello della nuova Grande Trasformazione, per la costruzione di “adeguati contrafforti sociali e istituzionali per fronteggiare i nuovi rischi, proteggere i nuovi bisogni e ‘civilizzare’ la globalizzazione”.
Sulla costruzione di questi “contrafforti” a tutela della “dignità dell’uomo” circolano da tempo delle proposte, alcune delle quali sono ora al centro del dibattito politico, mentre altre sono rimaste allo stadio di approfonditi studi teorici, ma scarsamente considerati sul piano della loro fattibilità e desiderabilità. Da un lato, considerate le nuove modalità di funzionamento delle moderne economie industriali, si discute su come garantire sicurezza a chi involontariamente è entrato a far parte dell’”esercito dei disoccupati irreversibili”, attraverso l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato; da un altro lato, si dibatte sul come realizzare un nuovo modello organizzativo della società, approfittando delle opportunità offerte dalla globalizzazione e dai processi tecnologici avanzati che caratterizzano il mondo della produzione. La prima Grande Trasformazione è riuscita ad assicurare sicurezza ed equità distributiva alla classe operaia; quella attuale dovrebbe assicurare a tutti, inclusi i componenti del Quinto Stato, un uguale standard di sicurezza e di equità distributiva, certo e duraturo.
Considerando che i tentativi di assicurare un reddito di cittadinanza a chi, suo malgrado, essendo privo di un’occupazione stabile, non dispone di un livello di reddito sufficiente a sottrarlo allo stato di povertà, sono stati sinora oggetto di “laceranti” dibattiti che hanno avuto l’effetto di screditare lo strumento suggerito, il reddito di cittadinanza, assegnandogli una funzione diversa da quella ad esso attribuita da coloro che lo hanno teorizzato (tra gli altri, principalmente, James Edward Meade); in altre parole, riducendo il reddito di cittadinanza a niente più che una “misura rattoppo” inquadrata nel sistema si sicurezza sociale vigente.
Forse l’alternativa migliore per portare a termine la Nuova Grande Trasformazione consiste nel fondare sulla reale funzione del reddito di cittadinanza universale e incondizionato la risposta alla sfida di ciò che Ferrera chiama “riformismo del XXI secolo”. Un riformismo che dovrebbe consentire di ridefinire, all’interno di un’arena trascendente i singoli contesti nazionali, delle “tre idee guida della tradizione europea (libertà, uguaglianza, solidarietà); ridefinizione che potrà essere resa possibile solo da un cambiamento delle tradizionali regole distributive del prodotto sociale, nonché di tutte le sovrastrutture sinora adottate per assicurarne una condivisione non più al passo coi tempi attuali.

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