L’indipendentismo? Un diversivo, meglio l’Autonomia

29 Novembre 2012
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Andrea Raggio


Il Partito sardo d’azione ha presentato una mozione perché “il Consiglio regionale dichiari solennemente la Sardegna nazione indipendente”. E ora, che succederà? Niente, proprio niente. Sia che la mozione venga dichiarata inammissibile come dovrebbe essere, e quindi cestinata, sia che venga messa in discussione, tutto sarà come prima. A che serve, allora, la mozione? Serve a distrarre l’attenzione dalle responsabilità del centrodestra per la drammatica crisi che la Sardegna vive. “Come è stato grottesco, dopo la Liberazione – scriveva Emilio Lussu – quel nazionalismo sardo indipendentista, che finiva col puntare le fortune dell’Isola sull’America o sull’Inghilterra. Spedito e allegro indipendentismo, che si metteva al servizio del migliore offerente.” Oggi l’indipendentismo è di fatto messo al servizio dello sgangherato centrodestra. 
La mozione sardista è, quindi, nient’altro che un diversivo, uno dei tanti mediante i quali è passata negli ultimi venti anni  una linea di progressivo abbandono dell’Autonomia. Tutto è cominciato all’inizio degli anni ’90. Si poneva il problema di avviare una nuova politica di Rinascita adeguata ai cambiamenti intervenuti in Sardegna, in Europa e nel Mondo. Invece, frastornati dal tracollo del sistema dei partiti dopo tangentopoli, abbiamo ceduto alla suggestione del nuovismo, del decisionismo, della stabilità politica coatta, del presidenzialismo. Falsi idoli pagati al prezzo di minore democrazia. Anche l’adeguamento dello Statuto ai cambiamenti intervenuti è stata piegato a diversivo con l’evocazione di una riforma tanto radicale quanto vaga, tant’è che rimane appesa per aria. Si è passati dalla ipotesi di “una nuova forma giuridica della specialità” (1995) a quella di “una Autonomia non solo speciale ma particolare” (1999) e di “una Autonomia al limite dell’indipendenza” (2011), senza mai precisare cosa si intendesse. Ora siamo all’indipendentismo. In questi vent’ anni la politica regionale è andata rattrappendosi nella difesa di quel che è rimasto del passato assetto industriale e nel culto dei diversivi, ha eluso l’esigenza di avviare uno sviluppo nuovo. Perciò la Sardegna è la Regione più colpita dalla crisi.    
E’ tempo che la si finisca con i depistaggi e si affronti la realtà ripartendo dall’Autonomia e dai suoi contenuti: lo sviluppo, l’autogoverno, il concorso Stato-Regione. Questa impostazione non va più bene, la si vuole cambiare? Si dica chiaramente perché e come, ma la si smetta di cercar farfalle sotto l’Arco di Tito. La verità è che alle storiche linee guida dell’Autonomia non v’è alternativa; quel che occorre cambiare sono, invece, le modalità della loro attuazione. L’obiettivo dello sviluppo era nel passato la rottura del sottosviluppo, e a tal fine è stata scelta l’industrializzazione forzata. Oggi non può che essere la valorizzazione delle potenzialità insiste nel patrimonio ambientale e culturale, nella centralità mediterranea e nel ruolo delle piccole imprese, potenzialità sino ad ora trascurate e spesso sabotate dal potere pubblico.  L’autogoverno negli anni della Rinascita è stato caratterizzato dalla contraddizione tra la straordinaria partecipazione popolare alle lotte sociali e politiche e la costruzione della Regione come Ente neo centralista. Oggi è indispensabile procedere alla sua trasformazione in Regione Ordinamento, accompagnando alle istituzioni della democrazia rappresentativa forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Senza dimenticare che l’autogoverno comporta, innanzi tutto, l’assunzione piena di responsabilità. Infine, il concorso Stato-Regione, che nel passato poggiava su leggi programma, quelle della Rinascita, e sul finanziamento straordinario, negli ultimi vent’anni è scaduto a mero rivendicazionismo. Il concorso Stato-Regione deve oggi, invece, poggiare sulla corrispondenza delle politiche nazionali ed europee ai bisogni dell’isola e, dunque, sulla partecipazione della Regione alle scelte esterne. Comporta, cioè, l’assunzione da parte nostra anche di responsabilità  nazionali.
La classe dirigente regionale non può sottarsi al dovere di farsi carico di questi compiti e responsabilità.

 

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