Nino Garau incontra i giovani

17 Marzo 2016
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Gianna Lai

Oggi il Prefetto consegna a Nino Garau, il Comandante partigiano Geppe, una medaglia d’oro per il 70° della Liberazione. Nell’occasione pubblichiamo il resoconto di uno dei frequenti  incontri di Garau coi giovani, ai quali racconta la sua straordinaria avventura nella Resistenza.  

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Imparate a parlare in modo affermativo, con voce decisa e tono forte, dice Nino Garau rivolgendosi agli studenti, ospiti in casa sua, per sentire ancora il racconto del Comandante partigiano Geppe. E ponete tranquillamente le vostre domande che, penso, saranno di carattere storico. Difendo le mie idee, ma avevo l’obbligo professionale di non esprimermi politicamente in Consiglio Regionale, non potevo dichiararmi apertamente di sinistra o di centro sinistra. Amo prima di ogni altra cosa la Costituzione, se la vediamo come un albero, io faccio parte delle radici, voi i rami e i germogli, e sta a voi fare le scelte giuste, per affermare la giustizia sociale, la libertà, l’uguaglianza.
Sono entrato in Accademia aereonautica a 17 anni, oggi ne ho 92 e, all’8 settembre del 1943, frequantavo ancora il 2^ anno di Accademia, il penultimo prima della conclusione, avendo già conseguito il primo brevetto. Nei giorni che precedettero la fatidica data, era arrivato l’ordine di spostarci dal Palazzo Reale di Caserta a Forlì, presso il Collegio aereonautico, nel Liceo classico che i figli dei dipendenti della stessa Aereonautica frequentavano. A Forlì il mio 8 settembre. Ci svegliammo tardissimo il 9 mattina, la nostra giornata iniziava di solito alle sei, inutilmente cercammo l’ufficiale di picchetto, il comandante della compagnia: tutti spariti. Eravamo sbandati noi quattro militari della mia stanza, ed il collega  Foccacci di Forlì, venite a casa mia, disse, domani o dopodomani arriveranno finalmente gli aerei alleati, e noi saremo salvi. In città sapemmo presto che i tedeschi occupavano il territorio e deportavano in Germania i soldati sbandati, quando si rifiutavano di entrare nell’esercito nazista. E nel mentre Mussolini veniva liberato per fondare la Repubblica Sociale, un governo fantoccio, dove un caporale tedesco comandava più di un generale italiano. Nel giro di una settimana il territorio venne completamente invaso, e allora decisi di raggiungere i parenti di mia madre, che vivevano a Modena. Mi vestii elegante, pantaloni bianchi, camicia di seta e biglietto di 1^classe, scalcinato o, ancor più, in divisa, sarei finito sicuramente in Germania. Il controllore non mi chiese il biglietto, perché i ferrovieri ci riconoscevano e ci aiutavano, nella fuga, a scendere e a salire sui treni,  indicandoci le giuste direzioni. 
I miei zii, dal ‘19 decisi antifascisti, non restiamo a Modena, dissero, può essere pericoloso. Nostro cugino può ospitarci nel suo mulino, a Spilamberto. E, anche lui convinto antifascista, mi chiese subito cosa avessi intenzione di fare:  io speravo di poter rientrare in Sardegna al più presto, ma mi trovai tra giovani decisi a opporsi ai nazisti, dei quali ricordo Sergio Carbassi, un venticinquenne presidente dei giovani comunisti modenesi.  Non avevo mai provato interesse per la politica, nè avevo mai avuto a che fare con la povertà, mi sdegnava però il modo in cui venivano trattati i contadini lì in Emilia, e l’odiosità della occupazione tedesca. In sei o sette discutemmo della situazione, quali gli sbocchi per salvarci la vita, e loro mi convinsero a entrare nel movimento antifascista. Non  avevo ancora 20 anni ma, in mezzo ai contadini e agli operai del luogo, ero il più istruito: insieme costruimmo il movimento di Resistenza per la Liberazione dell’Italia dai nazifascisti, organizzando il 5^ Settore della Zona di Modena pianura . In un territorio dominato dai fascisti e dai nazisti, 470 combattenti con 220 basi strategiche e logistiche, garantite dalle famiglie del luogo, tutti i distaccamenti in contatto tra loro. Io davo gli ordini, ero il responsabile, e mi incontrai con i Balungani…, padre e  figlio,  per riunire tutte le forze della 5^Zona e costituire un’unica Unità militare, con basi permanenti e unico centro organizzativo. Artigiani e commercianti e anche due preti ma, sopratutto, contadini e operai, tra quei duemila dipendenti della SIPE, Società italiana esplosivi, costretti a lavorare per i tedeschi che, arrestati dopo il 25 luglio, per aver scioperato, furono liberati dopo l’8 settembre. Avevamo paura, in particolare, degli sbandati, preda dell’esercito di Salò o pericolosi per la popolazione, se si fossero nascosti nel territorio: molti di loro entrarono tuttavia, subito dopo, nelle SAP e nei GAP, che noi riunimmo tutti insieme,  a formare la 13^Brigata Casalgrandi, il primo giovane dei nostri, impiccato dai tedeschi. Era l’aprile del ‘44, e la Brigata fu costituita riunendo tutti i capi famiglia, che ci avevano assicurato basi strategiche e logistiche nella zona, e che ci davano valide informazioni sulla provenienza di ciascun combattente. Quattro battaglioni e tre distaccamenti per ciascuno, con mappe e carte per studiare il territorio. C’erano i Comandanti di Brigata e poi i Comandanti di Battaglione, e  c’erano, su tutti, i Commissari, che controllavano anche il  movimento assistenza. L’Ispettore di Modena era Oliviero Serrantoni. Dal Settembre del ‘44, fino al 14 maggio ‘45, riunii tutte le forze disponibili della 5^Zona, e i Gap, che erano i più scalmanati, e le SAP, e tutti gli antifascisti.  Spilamberto, Vignola, Castelfranco, Castelvetro, S. Vito (frazione di Spilamberto), un’organizzazione perfetta, in mezz’ora avevamo tutte le notizie importanti, attraverso le guide, le staffette e i compagni che assicuravano i rifornimenti. Quando c’erano azioni importanti da compiere, era con i Comandanti di battaglione che sceglievamo gli uomini migliori: la nostra Brigata di pianura compiva azioni grosse solo di notte, di giorno, invece, contro le auto che, sapevamo, avrebbero attraversato il territorio, e che bloccavamo, seminando il terreno di chiodi, per poterle attaccare con i  mitra. Ma anche contro i carri armati seppe intervenire, una volta, un nostro distaccamento, pur armato semplicemente di bombe a mano. Le armi ce le fornivano gli americani, in particolare il tenente Ferruccio della missione americana, oppure venivano recuperate dopo gli scontri coi tedeschi, e risalivano talvolta alla Prima guerra mondiale, recuperate, chissà come, dai vari combattenti. E c’è da dire che gli americani non erano sempre propensi ad aiutarci, poiché non volevano formazioni in pianura, né unità troppo forti di partigiani organizzati: volevano solo, al loro servizio, piccoli gruppi di guastatori, da utilizzare nei momenti più importanti dell’avanzata.

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