La libertà di espressione và difesa con l’art. 3 Cost.

26 Settembre 2009
1 Commento


Andrea Pubusa

Non è stata una manifestazione oceanica. Ma cinquecento persone, in una splendida mattina di sabato a Cagliari, col mare che esercita ancora un irresistibile richiamo, non è poco. Anche perché l’organizzazione è stata artigianale, fondata sul passaparola e sull’accumularsi fittissimo di mail inviate da ciascuno alle stesse persone e, infine, a se stessi.
Bene anche gli interventi degli oratori, e importante la presenza di Franco Siddi, segretario generale FNSI - Fed. Naz. Stampa Italiana, che ha sottolineato, con puntigliosità ed efficacia, come la compressione dell’art. 21 Cost. sia oggi il risultato di un complesso e inestricabile conflitto d’interessi che fà capo al Cavaliere, il quale mette in campo anche il potere derivantigli dall’essere a capo del governo. Non a caso, pure i ministri, non ultimo Scajola, sono impegnati in questa azione di compressione e svilimento delle libertà e dei diritti fondamentali.
Dagli interventi e dai cartelli dei manifestanti è venuto bene in luce che la violazione della libertà di espressione non deriva tanto dalle tradizionali misure censorie, oggi precluse proprio dalla lettera dell’art. 21 Cost. e presidiate dalla magistratura, ma dal condizionamento economico e politico. Ciò che antecostituzione faceva il questore o il prefetto oggi lo fà il distributore che rende antieconomica la diffusione dei giornali più poveri (non di idee ma di risorse) in vaste aree del Paese (vedi Il manifesto nelle isole) o la pubblicità che foraggia la stampa governativa a scapito delle testate d’opposizione. O i grandi gruppi economici che si cimentano nell’editoria per fare il comodo loro.  Va avanti (anche all’opposizione) solo chi ha alle spalle segmenti economico-finanziari importanti, lasciando così ai margini le testate alternative, ormai tenute in vita da un sempre più incerto finanziamento pubblico.
Un panorama classico da postdemocrazia o da democrazia borghese pura, in cui conta solo il più forte. Anche qui lasciare libera la “mano invisibile” significa in realtà dare voce solo ai gruppi dominanti, ossia l’esatto contrario della democrazia, che anzitutto dà la parola alle minoranze, creando un riequilibrio con l’intervento pubblico. Ed è paradigmatico di questa disparità la pretesa di Berlusconi di “par condicio”, che secondo la sua accezione significa che ognuno deve agire soltanto coi suoi mezzi, ossia che deve parlare solo lui o poco più, e le minoranze attive devono tornare al porta a porta (non a “Porta a Porta”!) o poco più. La libertà di espressione oggi più che con l’art. 21 và difesa, dunque, con l’art. 3 della Costituzione, dove si dice che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli di natura economico-sociale che si frappongono all’eguaglianza effettiva e alla partecipazione dei lavoratori all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese. E’ qui, sul piano dell’uguaglianza sostanziale, che si annida il vero vulnus alle pari opportunità di trasmettere le proprie idee. Ed è all’articolo 3 capoverso che bisogna tornare abbandonando anche nel centrosinistra tutti i cazzeggi liberistici.
Ma una forte autocritica il centrosinistra deve farsela anche su un altro versante. Quando è stato al governo non è andato al di là di una banale lottizzazione, anziché creare un sistema d’informazione pubblica a favore di un reale pluralismo informativo, assicurando correttamente la presenza di tutti gli operatori con idee serie da trasmettere. Non si può lottizzare millimetricamente la TV e poi pretendere che gli altri non lo facciano. Ma anche qui, a ben vedere, gira gira, torniamo all’art. 3 Cost. Questa volta al primo comma.
Ad ogni buon conto, la manifestazione di Cagliari, insieme alle altre che si svolgono in tutta Italia, sono un segnale incoraggiante di difesa della libertà di manifestazione del pensiero e di opposizione all’involuzione democratica impressa in tutti i campi dal governo Belusconi e dai suoi ministri.

1 commento

  • 1 Andrea Murru
    27 Settembre 2009 - 09:59

    La libertà di stampa, invocata a gran voce dagli autorevoli interventi che si sono succeduti sabato 26 in piazza Costituzione dovrebbe, a mio avviso, essere declinata in due accezioni diverse ma complementari, ossia come libertà di espressione del proprio pensiero (soprattutto se critico) e come libertà di accesso, di intervento sulla stampa e, comunque sui vari mezzi di comunicazione di massa. La prima delle due figure concerne il diritto/dovere dei giornalisti di informare i cittadini al fine di renderli consapevoli e perciò coscenti nelle scelte che vanno ad operare. La seconda accezione è invece riferita alle inesistenti possibilità che ha, il comune cittadino, di accedere e “governare” i mezzi di informazione. Se immaginassi la Rai come una Spa, riterrei di poter considerare i cittadini che regolarmante pagano il canone come i soci di maggioranza della stessa che, non essendo organizzati nè avendo delegato un loro rappresentante, subiscono le scelte del gruppo (la scelta del singolare non è casuale) di minoranza che nomina gli amministratori, detta le linee guida, sanziona le divergenze. Ma un dipendente del servizio pubblico, e quì rivolgo la domanda al Prof. Pubusa, può condurre delle trasmissioni in detto servizio come se fosse a casa sua? Può decidere chi invitare, quante volte farlo, a che ora farlo e di quanto spazio ha diritto? Dov’era il ministro Scajola quando il suo Premier diffondeva a “reti unificate” meriti non suoi e spacciati invece come tali? In un paese dove il Parlamento nomina il consiglio di amministrazione della Rai, ne sceglie il Presidente, nomina le autorità di vigilanza, può esservi libertà di informazione? La libertà, intesa quale possibilità di accesso diffuso, è già di per se preclusa visto che il potere dei partiti, che per definizione sono di parte, ne limita la diffusione.

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