Oggi Congresso provinciale ANPI per ritrovare nella Costituzione i principi dello sviluppo

20 Marzo 2016
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Gianna Lai

Oggi alle 10 a Cagliari, presso la Fondazione Berlinguer in via Emilia, si tiene il Congresso provinciale dell’ANPI. Nell’occasione pubblichiamo la seconda parte dell’incontro coi giovani del Comandante partigiano Geppe, Nino Garau (nella foto). Questo dialogo simboleggia il passaggio di testimone fra i combattenti, che ieri hanno resistito e sconfitto il nazifascismo, e quanti, oggi, si impegnano per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione.

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Quando fu reso noto il proclama del generale americano Alexander, io ero già diventato Commissario e Simonini Comandante della mia Brigata, ci rifiutammo immediatamente di aderire e, mentre si scatenava l’offensiva verso Modena montagna, un componente del nostro distaccamento scese all’Accademia di Modena, ormai sede dei nazisti, per prendere accordi con il segretario politico di Castelvetro. Il 30 dicembre, quando io avevo già dato l’ordine di festeggiare la fine dell’anno, la staffetta di Castelvetro, inviata da Gibertini, comunicò che la base ci invitava ad andare ‘a discutere l’intesa tra fascisti e noi perché non si spari’.Partimmo e ci fermammo a dormire in un casolare, rinviando al giorno dopo l’incontro che doveva decidere sulla questione. Ma mi svegliai con un mitra tedesco puntato alla testa. In piena notte, accerchiati da una compagnia formata da altoaltesini di stanza in provincia di Reggio, capimmo subito che vi era stata una delazione. Nè fu possibile reagire, perchè le nostre armi erano nascoste fuori, quelle pesanti in campagna, quelle più leggere dentro i paesi e le città. Legati mani e piedi col fil di ferro, e l’uno all’altro con una fune che ci stringeva il collo, nel rastrellamento che seguì alla nostra cattura, raggiungemmo Castelvetro. A Ciano d’Enza le percosse e le torture mi provocarono la lussazione della spalla, piaghe nei piedi e gravi disturbi allo stomaco, per uno schifoso intruglio che fui costretto a bere. Volevano sapere i nomi dei compagni, ma non parlai; se avessi parlato l’intera nostra zona sarebbe stata distrutta. Da lì, in camion, raggiungemmo Reggio Emilia. E poi Gonzaga e Guastalla per attraversare il Po. Fino a raggiungere Verona, 1 giorno e mezzo nel Carcere degli Scalzi. C’era un sardo di Cagliari tra le guardie carcerarie, col compito di distribuire il cibo, di quelli che avevano aderito a Salò per non sapere dove andare. Si chiamava Spartaco Demuro e voleva tornare in Sardegna. Chiese se ero sardo, sono Giovanni Ligas, gli dissi. Vuoi fuggire? Conosco un gruppo che aiuta i detenuti a fuggire, insieme possiamo ritornare in Sardegna. Una squadra che, giornalmente, faceva la manutenzione del carcere, lasciò in cella, al posto mio, uno dei suoi operai, che poi sarebbe fuggito passando attraverso le fogne: io con la sua tuta, e Demuro in abiti civili, ci allontanammmo. Non potendo camminare per le torture subite alla pianta dei piedi, mi sostenevano cantando canzoni fasciste e, usciti, sparirono immediatamente. Con Demuro dormimmo a Villafranca, e poi, in autostop, fino a Guastalla, in traghetto fino a Parma. Su un camion che andava a carbone, infine, verso Vignola, a rischio di essere investiti dalle raffiche degli aerei americani che prendevano di mira auto e mezzi, sorpresi ad attraversare quelle pericolosissime strade. Mi sembrò troppo facile l’evasione dal carcere e la fuga successiva, e Demuro poteva essere un infiltrato contro la nostra organizzazione. Così, a quattro-cinque chilometri da S. Vito, abbandonai Demuro, dando le informazioni per il raggiungimento della Linea gotica, poichè dovevo tenere nascosta la mia base. Era il 18 gennaio, e io mi fermai in mezzo alla neve, ormai incrostata, dove presi a camminare scalzo per alleviare il dolore dei piedi e poter così raggiungere i miei compagni a S.Vito. Per due settimane due medici, anch’essi clandestini, che assistevano i combattenti, mi curarono le ferite, la nonna ottantenne di un partigiano guarì i miei piedi con erbe e creme preparate da lei, ed io ripresi, subito dopo, a combattere. Fu allora che appresi la notizia della fucilazione, a Ciano d’Enza di Cappelli, uno dei nostri compagni catturati il 30 dicembre. Erano intanto cambiate le cose nella nostra base durante la mia assenza: per paura che noi parlassimo, Parigi fu eletto Comandante e poi si erano aggiunti Prenti e Gibertini, Commissario era stato designato Galli. Io non ripresi il Comando, ma fui incaricato di preparare le azioni e il Piano generale di offesa e difesa, da mettere in campo durante il ritiro dei tedeschi: non era mica giusto, i tedeschi in fuga bruciavano case e stalle e portavano via tutti i beni alimentari e facevano saltare ponti e strade. Rafforzata la rete di informatori e delle staffette femminili, il nostro triumvirato pose in atto il piano per la liberazione del territorio: a San Vito, punto mediano della zona, i quattro battaglioni della Brigata, il più consistente comandato da me. A Spilamberto il secondo e poi a Vignola, Castelvetro e Castelfranco, ogni battaglione, tre distaccamenti. Fu durante quelle azioni che, grazie ai nostri infiltrati, catturammo due Brigate nere, e fui io a entrare nel salone, in cui si erano asserragliati, per imporre la resa. Con le bombe a mano, contro 50 republichini, se non vi arrendete tiro la fune e saltiamo tutti. Li consegnammo ai partigiani di Modena montagna, mentre proseguivano le azioni. E quando la staffetta annunciò i primi contatti col nemico, il mio distaccamento era ormai preparato a spostarsi velocemente per intercettare il percorso dei tedeschi. Un battaglione di 120 uomini per una operazione eccezionale, a 35 chilometri dalla missione USA, dalla quale ottenemmo ancora le armi necessarie per l’ultimo attacco ai nazisti in fuga.

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