L’idea di “socialismo” fra crisi e rilancio

19 Marzo 2017
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Gianfranco Sabattini

Alain Badiou, dopo aver maturato l’idea comunista secondo “un’impronta maoista”, in occasione di un incontro con Peter Engelmann, filosofo tedesco, anch’egli comunista, critica il processo degenerativo che ha investito tale idea all’interno di quei Paesi che hanno vissuto l’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”. Del testo di questo dialogo, svoltosi fra i due filosofi nel 2013, “Micromega” (1/2017) propone la traduzione, divisa in due parti, col titolo “La filosofia e l’idea di comunismo”.
L’interesse del dialogo, afferma Giorgio Cesarale nella sua introduzione, è la differente esperienza maturata dai due filosofi: mentre quella di Badiou è stata vissuta “all’interno di una delle roccaforti dell’Occidente liberale capitalistico, quella francese, Engelmann ha conosciuto dal vivo la traiettoria dei Paesi del ‘socialismo reale’, per essere stato condannato, nel 1972, a scontare, per motivi politici, due anni in un carcere della Stasi a Berlino Est” (riuscendo poi ad evadere e a rifugiarsi, nel 1973, nella Repubblica Federale Tedesca).
“Lo scetticismo verso le potenzialità dell’idea comunista che Engelmann ha derivato dalla sua vicenda esistenziale - afferma Cesarale – serve nel dialogo a fare da contrappunto alla perorazione fattane da Badiou”; le considerazioni di quest’ultimo, tuttavia, non sono una pura e semplice critica del fallimento cui l’idea è andata incontro nel corso dell’esperienza del XX secolo, in quanto sono anche una esplicita riflessione riguardo alla individuazione delle cause che ne hanno determinato il fallimento. L’idea comunista e, più in generale, quella socialista, secondo Badiou, non è da considerarsi irrimediabilmente irrecuperabile, a causa del suo legame a un passato tragico; essa ha ancora senso, perché come non si può rinunciare all’idea di Cristianesimo, per via dell’Inquisizione, così non si può rinunciare all’idea di comunismo o di socialismo, per via dello stalinismo.
Nella prima parte del dialogo, Badiou espone i presupposti sui quali è fondata la sua idea comunista; in particolare, si intrattiene nel circostanziare il concetto di “soggetto”, mentre nella seconda parte egli illustra i motivi del fallimento al quale sono andati incontro quegli Stati, come l’URSS, che hanno tentato di realizzarla, attribuendo i motivi dell’insuccesso al fenomeno della “rappresentanza”.
Nell’analisi di Badiou, la categoria del soggetto svolge un ruolo esplicativo della natura dell’attività politica; ciò perché – egli afferma – “la politica è l’ambito che meno di ogni altro può rinunciare al soggetto”. Essa “è questione di orientamenti, di azione, di scelte e di principi; esige un soggetto, una dimensione soggettiva”.
Di conseguenza, il tentativo di ridurre la politica a un “contenuto oggettivo” porta solo ad una condizione in cui non si sa più “cosa sia l’agire politico propriamente detto, in quanto azione consapevole, libera e costruttiva”. Secondo Badiou, il soggetto della storia “è una creazione, una costruzione non un dato”, mentre la “figura di individuo […] è invece un dato”. Individuo e soggetto non sono quindi, per il filosofo francese, la stessa cosa; anzi “sono due termini – egli afferma – fondamentalmente contrapposti, anche se gli individui sono sempre chiamati a divenire soggetti o a entrare in un soggetto” e la chiamata avviene sempre in “nome di un processo”, qual è, ad esempio, quello politico.
La particolarità del soggetto, nella prospettiva di analisi di Badiou, è legata alla capacità dell’”individuo di non essere più unicamente al servizio della sua particolarità”, ma di essere “parte integrante e attiva nella costruzione di qualcosa che ha un valore universale”. Il concetto di individuo designa, un “movimento intermediante” tra i “limiti particolari, individuali, biologici, culturali, nazionali dell’individuo e qualcosa che ha un valore universale”, che oltrepassa la limitazione originaria. Il soggetto inteso in questo senso, “emerge nel momento in cui l’individuo ha la possibilità di oltrepassare la propria singolarità […] e di costruire, di edificare qualcosa il cui valore possa essere universale”.
Al fatto che nell’azione politica di costruzione dell’idea comunista non si sia tenuto conto della differenza tra soggetto e individuo è da ricondursi la causa del fallimento del comunismo reale. Ciò perché, a differenza di Marx, – afferma Badiou - che considera ontologicamente il “proletariato” una categoria universale, in quanto coloro che lo esprimono, essendo il “nulla”, rappresentano l’universalità del negativo; nella tradizione staliniana, invece, il proletariato “lungi dal costituire unicamente una negatività, diventa una sostanza rappresentativa”, espressa, questa, dal partito, rappresentato da Stalin. In tal modo, si è passati da una categoria universale, il proletariato, che per via di successivi rapporti di rappresentanza si è rovesciata nel suo contrario, in quanto un solo individuo ha preteso di “rappresentare il movimento dell’universale”. Tutto ciò è avvenuto a causa del ricorso all’idea riduttiva di rappresentanza, cioè all’idea sbagliata, secondo Badiou, che un elemento dell’esistente possa rappresentare tutti gli altri.
L’idea di rappresentanza è strettamente legata all’idea di partito. Essa riguarda – afferma il filosofo francese – “la grande svolta filosofica che […] comincia alla fine del XIX secolo con lo sviluppo, in Europa, dei partiti socialdemocratici”; si tratta di un’idea che ha “completamente falsato” quella di democrazia e che, nel caso dell’esperienza sovietica, è culminata nella struttura di partito leninista e poi stalinista, nel quale l’universale era, appunto, solo rappresentato. La “santificazione del partito” non è stata opera di Stalin, egli l’ha solo ereditata, diventando tra l’altro un erede violento, in quanto una volta conquistato il potere lo ha esercitato in modo assoluto, rovesciando l’”originaria universalità dell’idea di comunismo” nel suo contrario, mentre l’”agente di questo rovesciamento è stata l’idea di rappresentanza; questa stessa idea, in virtù della quale il partito rappresentava il proletariato, e Stalin il partito a livello internazionale, ha comportato che il socialismo venisse rappresentato in un luogo definito, in palese contraddizione con l’idea di internazionalismo, della quale il partito di Stalin pretendeva d’essere il portatore.
Le considerazioni che Badiou svolge riguardo all’origine dell’idea di rappresentanza sono interessanti; il momento centrale in corrispondenza del quale tale idea si è imposta dovrebbe  risalire alla sconfitta della Comune di Parigi, che ha fatto sì “che il bilancio di tutte le forme di spontaneismo rivoluzionario risultasse negativo”; le conseguenze sono state così rovinose, da indurre tutti a pensare che, nella storia politica, le sconfitte sono drammatiche, non tanto per il fatto in sé, quanto per il radicarsi del convincimento che, per evitare le conseguenze negative, fosse necessario un “partito strutturato”, cui delegare la rappresentanza di quanti si identificano nella causa del partito.
La sconfitta della Comune negli anni successivi al 1871 ha suggerito l’ipotesi che solo grazie alla presenza di un partito rappresentativo e disciplinato si potesse sperare nel conseguimento di determinati obiettivi politici. Sul piano internazionale – afferma Baidiou – la Rivoluzione d’Ottobre “è stata vissuta come la rivalsa della Comune di Parigi”. Qust’ultima era stata soffocata nel sangue, ma nel 1917 la rivoluzione ha trionfato, con un impatto pubblico diffuso nel mondo; si è trattato infatti di una rivoluzione vittoriosa, al contrario di quella della Comune, la cui disfatta ne aveva completamente occultato gli aspetti positivi, quali, da un lato, l’assenza di terrore e dell’idea di rappresentanza e, dall’altro, la presenza di più democrazia e di una maggior convergenza di tendenze diverse, ma univocamente orientate. Tutti questi aspetti positivi – afferma Badiou – sono stati rimossi dalla sua sconfitta. La Rivoluzione del 1917 è stata invece l’esito di un “comunismo militare”, giustificato dal fatto che esso era riuscito ad avere successo grazie alla “disciplina di ferro”, plasmando la società sovietica attraverso la violenza, i gulag, la tortura e l’accoglimento dell’idea che, se qualcuno avesse “disturbato” la realizzazione del socialismo, poteva essere soppresso fisicamente.
Di fronte al fallimento del “comunismo da caserma”, qual è stato quello sperimentato con lo stalinismo, Badiou è del parere che, per realizzare il socialismo, occorra rimuovere la violenza e che gli individui che ne organizzano la necessaria azione debbano agire fuori dall’idea di rappresentanza a tutti i livelli; perché poi l’idea socialista possa essere perseguita, occorre fare affidamento solo su esperienze politiche locali, fuori da ogni prospettiva di poterla perseguire a livello mondiale. A questo livello, secondo Badiou, è solo possibile discutere se l’idea possa essere riproposta oppure no, mentre, “a livello della politica concreta”, è possibile “lasciare alle esperienze locali” il tempo necessario perché essa si sviluppi, sia conosciuta e sia interiorizzata dalla generalità degli individui. Tuttavia, anche a livello locale, permane il problema della tentazione, da parte di chi organizza l’attuazione dell’idea socialista, di “assumere un potere su ciò che pensano le persone e quindi sull’intera società”.
Quando però una società finisce con l’essere rappresentata, significa che essa cessa di essere creativa, ed è questo il motivo per cui l’idea socialista ha mancato di essere realizzata nella società stalinista ed in quella cinese, senza riuscire nell’intento di porre rimedio agli eccessi della società capitalistica, che era poi il motivo per cui essa veniva perseguita. Ai fini della realizzazione dell’idea socialista, sarebbe stato necessario riorganizzare l’istituto della proprietà, istituzionalizzando, accanto a quella privata ed a quella dello Stato, anche la proprietà collettiva.
I motivi per cui questa forma di proprietà è stata trascurata vanno ricondotti, a parere di Badiou, al convincimento che, per realizzare l’idea socialista, fosse necessario “entrare in rapporti di concorrenza con il mondo capitalistico”, al fine di raggiungere i suoi stessi traguardi economici; ciò, però, all’interno delle società che hanno perseguito l’intento di realizzare l’idea socialista, è valso solo a sacrificare l’istituzionalizzazione di una “vera proprietà collettiva”; per cui, dopo l’esperienza negativa della Comune di Parigi, si è pensato “che il modello della disciplina militare fosse indispensabile per giungere alla vittoria”; ovvero è parsa inevitabile la formazione di “una proprietà di Stato autoritaria e coercitiva”, consentendo al partito che esprimeva la rappresentanza dell’intera società di organizzare il funzionamento dell’economia secondo la logica di un “modello militare”, che non aveva niente a che fare con la realizzazione dell’idea socialista.
I fallimenti cui sono andati incontro sinora i tentativi di realizzare l’idea socialista non implicano – afferma Badiou – il suo abbandono; egli ritiene che sia più interessante riabilitare l’idea, piuttosto che abbandonarla, pensando che essa sia “stata compromessa da accadimenti terribili”, sebbene “esprimesse un proposito assai encomiabile” desiderabile ancora oggi, forse più di ieri.
D’altronde – conclude Badiou – tutte le idee hanno una storia travagliata e accidentata; al presente, anche quella di democrazia popolare è, a parere di molti costituzionalisti, irreversibilmente compromessa, a causa della crisi della rappresentanza; ciò non significa che all’idea di democrazia popolare, come a quella socialista, si debba rinunciare, così come non si è rinunciato al Cristianesimo, per via dell’Inquisizione. Quando un’idea è forte, è anche esposta al peggio, come in fin dei conti sta a dimostrare la storia del Cristianesimo; il suo dramma – sostiene Badiou – è stato “in ultima istanza Costantino”, ossia il momento in cui il Cristianesimo è diventato religione di Stato.
Se l’idea di democrazia, come quella di socialismo, in quanto idee forti, sono esposte, e lo sono davvero, al rischio che qualcosa o qualcuno porti a realizzarle in nome e per conto di chi le condivide, senza alcuna possibilità di poterne controllare le decisioni, quale futuro è plausibile attendersi? Certo, arroccarsi, come suggerisce Badiou, dietro esperienze politiche locali, fuori da ogni pretesa di conservare o di realizzare le idee nelle quali si crede, per far fronte ai mali del mondo attuale, confidando che il dibattito culturale coinvolga nel processo aree sempre più estese della scena mondiale, può essere un valido, ma temporaneo, ripiego. Ma quelle idee, senza il riferimento ad una visione globale, corrono il rischio d’essere condivise solo in condizioni di “accerchiamento”; fatto, questo, che varrebbe a negar loro ogni possibilità di sopravvivenza.

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