Politica: alla ricerca dell’autonomia perduta

4 Giugno 2008
Nessun commento


Mauro Nieddu

L’interessante dibattito che si sta svolgendo sul blog a proposito della crisi della democrazia e dei fondamenti della nostra costituzione mi induce ad alcune riflessioni. Credo infatti che sia indispensabile, per chi ancora crede in quel modello di democrazia avanzata delineato nella carta del 48, portare avanti un’analisi profonda, sganciata dalle contingenze elettorali, sulla stagione crepuscolare che viviamo. Una stagione che non inizia il 13 aprile e probabilmente, almeno nelle sue tendenze di fondo, difficilmente poteva essere influenzata in maniera determinante da un esito elettorale diverso, alla luce sopratutto degli assetti sociali del paese e della natura delle forze politiche oggi in campo. Quello che viviamo è il risultato della venefica miscela tra globalizzazione neoliberista , la forma del capitalismo del ventunesimo secolo, e gli aspetti degeneri del carattere nazionale; mi riferisco in particolare alla natura della borghesia del nostro paese, di quella parte cioè che si propone come classe dirigente e che dovrebbe rappresentare la proiezione nazionale del capitalismo globale, e che invece si dimostra, ancora una volta, la più gretta e provinciale nel contesto dei paesi a democrazia avanzata. Capace solo di imporre al paese una variante stracciona della globalizzazione, lontana dalla frontiere più avanzate dell’innovazione tecnologica e della competizione globale e ripiegata ad inseguire le potenze emergenti sul terreno del basso costo del lavoro e della demolizione dei diritti sociali e dei sistemi di welfare.
Come ho detto questa condizione di arretratezza della classe imprenditoriale rappresenta, con alcune isolate eccezioni (tra tutte la straordinaria figura di Adriano Olivetti),  un dato storico della società italiana dell’era industriale. Tuttavia la natura dell’impatto che questa situazione ha avuto sui caratteri della società e delle istituzioni del paese, è sempre stato il risultato del rapporto che questa borghesia ha costruito con la politica e con i partiti. Certo ha ragione Massimo D’Alema quando afferma che uno dei  problemi dell’Italia è la “debolezza dei cosiddetti poteri forti”. Questa debolezza su scala sovranazionale va poi però vista su scala nazionale, nel rapporto con la politica e le forze sociali, dove ha avuto un impatto non positivo, ma certamente determinante, sulle caratteristiche delle istituzioni e della società.  Fu la debolezza e l’autoreferenzialità della classe dirigente liberale che consentì alla borghesia di questo paese di imporre il fascismo come soluzione alla crisi economica e sociale che l’Italia viveva a cavallo tra primo conflitto mondiale e  grande depressione. Fu invece la forza di uomini, partiti e sindacati nati e cresciuti nella Resistenza, forgiati nella Costituente e nelle lotte popolari del dopoguerra a superare i limiti di una borghesia miope e ad imporre al paese un modello di sviluppo che, con tutti i limiti e le contraddizioni, ne ha fatto una economia industriale avanzata. Non è un caso, per esempio, che le realtà produttive più vitali e innovative del dopoguerra siano state aziende come l’ENI, le varie società del gruppo IRI, l’Alitalia fino agli anni 80 ecc. E sarà un caso che tutt’oggi gran parte del listino della borsa di Milano è costituito da società ex pubbliche o a partecipazione pubblica (Enel, Finmeccanica, Telecom, Eni e così via…)?
Il mio è un ragionamento volutamente schematico che ha lo scopo di porre l’attenzione sul problema della forza della politica e in particolare sul tema della sua “autonomia”. Autonomia intesa come capacità di irrorare la società con una fitta rete di partecipazione ,che determina la direzione dello sviluppo e la sua natura nel vivo del conflitto sociale e della autodeterminazione degli individui. Autonomia come capacità della politica di essere la forza trainante della società, lo strumento di emancipazione degli individui dalla subordinazione imposta dai rapporti economici.
Il fattore che determina la conquista di questa autonomia è il “popolo”! Solo quando le classi popolari entrano consapevolmente nel circuito della democrazia, come è avvenuto nel secondo dopoguerra, la politica acquista autorevolezza e diviene il soggetto guida dello sviluppo. Quando la politica si rinchiude dentro le istituzioni, rinuncia alla propria autonomia e diviene uno degli strumenti nelle mani di chi detiene il potere economico di una società.
E’ il dramma che viviamo oggi!
In questo senso la scomparsa della rappresentanza parlamentare delle forze di sinistra non costituisce altro che l’ennesimo sintomo di questo cancro. Larghi strati della società italiana, soprattutto nelle fasce più deboli, sono esclusi dal circuito della partecipazione, messi ai margini da un sistema che li ripiega nell’indigenza, esaurendo le loro forze nella ricerca della libertà dal bisogno, senza alcuna prospettiva di emancipazione che non implichi la rinuncia alla propria essenza di cittadini. La percentuale di partecipazione al voto, che in Italia si mantiene al di sopra della media degli altri paesi, è un dato ingannevole. La democrazia non vive solo di esercizi elettorali, le elezioni debbono essere uno dei momenti in cui si esercita il proprio diritto alla partecipazione, ma la partecipazione implica altro e molto di più che il semplice deporre la scheda in un’urna. Il momento elettorale da solo rappresenta poco più che un fiammifero acceso nella notte, troppo piccolo e troppo breve per diradare il buio. La pianta del voto vive solo nel terreno fertile della partecipazione consapevole, senza queste solide radici diviene preda dei venti del populismo e della demagogia televisiva. Massa di manovra di chi appunto detiene il potere reale. Le forze del centrosinistra e della sinistra, eredi di coloro che costruirono la stagione migliore della democrazia italiana, hanno perso perché non hanno contrastato questa deriva, non hanno rappresentato per questa parte della società il terminale per rimanere dentro il circuito della democrazia; sono state vissute come un corpo estraneo, incapace di indicare un  percorso di emancipazione dalla condizione di sfruttamento, economico e politico, in cui tanti lavoratori sono stati precipitati dalla tempesta della globalizzazione neoliberista..
In questo contesto a nulla valgono, se non come testimonianza individuale, gli appelli contro i rigurgiti di un nuovo fascismo e in difesa della costituzione , soprattutto quando vengono da chi questa situazione ha assecondato e spesso decantato come “modernizzazione”. In questo caso tali appelli appaiono molto strumentali, agitati alla vigilia delle elezioni per raccattare le pecorelle smarrite del voto utile e rimessi nella teca come certi estintori all’indomani del voto, quando puntualmente si riapre la stagione del dialogo con quello che fino al giorno prima era un pericolo per la democrazia.  Alla mancanza di popolo va aggiunto così il tema della credibilità di una classe politica.
Il “che fare” di chi oggi vuole ricostruire un’alternativa di società in questo paese e nel mondo parte  quindi dalla “riconquista dell’autonomia”. Un tema che va al di là della ricostruzione di un partito, o della ricerca di interlocutori per nuove alleanze, ma attiene alla aggregazione di nuove forze, di un nuovo blocco sociale capace di imporre la propria soggettivita e giocarla nella lotta per l’egemonia. E’ un lavoro più lungo, che non esclude i partiti esistenti e il tema delle alleanze ma non ne fa la questione centrale o comunque non deve lasciarsi imprigionare dai rottami dell’esistente.
Infine, è un lavoro che riguarda chi crede ancora che ci sia necessità di una sinistra autonoma, di una forza costitutivamente alternativa all’attuale assetto del capitalismo, cioè al neoliberismo. Chi ha fatto scelte radicalmente diverse, come quella di dar vita al Partito Democratico, si è messo fuori da questa prospettiva e non può quindi essere il punto di riferimento di un tale progetto. Proprio sul tema dell’autonomia quel partito ha fatto la scelta di rottura più radicale, tematizzando la fine del conflitto tra capitale e lavoro il PD Veltroniano ha sacrificato ogni prospettiva di mutamento degli assetti sociali in nome di una semplice proposta di alternanza tra gruppi dirigenti: una sorta di “staff leasing” di personale politico da appaltare al solito committente che, di volta in volta, può scegliere. Senza un radicamento, e quindi una forza, al di fuori delle istituzioni. Non è un caso che, con tutte le differenze , Berlusconi nel centrodestra e Soru nel centrosinistra rappresentino la variante rispettivamente autoritaria e progressista di un potere politico con un forte grado di autonomia  rispetto a molti centri di potere. Autonomia che trova radici non nei rapporti di forza dentro la società, ma nei patrimoni personali di chi la esercita, e perciò priva di vincolo sociale. Un’autonomia che, a prescindere dalle scelte che compie, dettate sempre dalle inclinazioni personali, non apre prospettive di partecipazione democratica, lascia solo lo spazio della delega.. Certo una base molto fragile per costruire l’assetto di una democrazia.
L’autonomia data dalla forza conquistata nel vivo delle lotte sociali è lo spazio in cui si può costruire la sinistra del ventunesimo secolo. A partire da un progetto di alternativa che conquista le masse escluse dalla partecipazione,  perché  propone non semplicemente un nuovo sole dell’avvenire ma una proposta politica capace di incidere nelle condizioni di vita delle persone, migliorando la qualità del lavoro e dell’ambiente. Si tratta di risultati che, oggi più che mai, non sono realizzabili dentro un compromesso col sistema neoliberista, ma nel conflitto per un’alternativa di sviluppo da condurre dentro e fuori dalle istituzioni, superando la distanza che oggi separa questi due termini. Le attuali forze della sinistra, se vogliono concorrere a questo processo, devono superare il minoritarismo che le ha caratterizzate, l’ancora su cui i vari gruppi dirigenti hanno costruito una rendita che ormai si è esaurita, e tornare a fare politica per incidere sui processi reali e non semplicemente apparire nel pastone politico dei telegiornali.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento