Il «crucifige!» e la democrazia, di G. Zagrebelsky

14 Agosto 2008
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Recensione a cura di Andrea Pubusa

La democrazia è un fine o un mezzo? Zagrebelski propone nel volume tre visioni della democrazia: dogmatica, scettica e critica. Ad esse corrispondono tre mentalità, tre visioni del mondo. Il dogmatico non vede che la verità alla quale tutti devono aderire. Lo scettico, la realtà alla quale bisogna piegarsi. Il critico, invece, si fa strada responsabilmente tra le possibilità. La tesi dell’autore è che solo coloro che possiedono una visione critica della democrazia la concepiscono come fine. Per chiarire questo concetto si rifà a uno dei simboli tragici della democrazia: il processo a Gesù dove il dogma dell’infallibilità della volontà popolare si profila come quintessenza della democrazia dogmatica.

Ecco una recensione da “Opere”, secondo cui  il libro è “un contributo illuminante e una proposta per contrastare alcuni fenomeni degenerativi della società democratica”.
Nel saggio ‘Il crucifige e la democrazia’, secondo il sottile e sofisticato ragionamento di Gustavo Zagrebelsky, una teoria della democrazia come fine e non solo come mezzo deve saper proporre un modello di pensiero ‘che non presuma di possedere la verità e la giustizia, ma nemmeno ne consideri insensata la ricerca’.
«Qui si pone la domanda: se il popolo capace di agire è il popolo della democrazia e il popolo che subisce è il popolo delle autocrazie, quello chiamato soltanto a reagire è il popolo di quale forma di governo? Forse, conformemente all’etimo, il popolo della demagogia».
La democrazia è una forma di governo unanimemente accettata in quasi tutto il mondo civilizzato. Il pericolo oggi, semmai, sorge quando qualcuno, con alterne fortune – e dubbio criterio – tenta di “esportarla” nel resto del pianeta e imporla a paesi di tradizione e cultura diverse dalla nostra.  
Eppure, oggi più che mai, qui, a casa nostra, ci si interroga sui limiti di questo regime che si prefigge di dare al popolo la possibilità di governarsi da sé e molti si chiedono se dietro al paravento di impegnative dichiarazioni d’intenti non si vada stagliando l’ombra bifronte dell’oligarchia e dell’autocrazia. Ci si domanda, insomma, se tanto entusiasmo democratico non possa in realtà definirsi “populismo” e se l’adulazione del “popolo” non nasconda una forma di dittatura demagogica. Per dirla con Luciano Canfora (Democrazia, storia di un’ideologia) se ciò che si va spacciando come “governo del popolo” non sia piuttosto “governo sul popolo”.
Il dubbio è legittimo, tanto che in Italia si riscontra, sempre più palpabile, un allontanamento emotivo della gente dalla nostra ottima Costituzione repubblicana, ciò che dalla prospettiva opposta viene presentato come un allontanamento della Costituzione dalla realtà della gente. Un po’ di patina, forse, che domanda un adeguamento difficile da intraprendere, a causa delle spinte contrapposte che si agitano intorno a questo delicato istituto.
Questo breve saggio di Gustavo Zagrebelsky, Il crucifige e la democrazia (Einaudi 1995, qui analizzato nella riedizione del 2007), concentra la nostra attenzione su un episodio emblematico del Vangelo. Quello che vede schierati, di fronte al procuratore romano e al popolo della Giudea, Gesù e i sacerdoti del Sinedrio.
 Cosa centra tutto questo con la premessa appena formulata?
In questo teatrino simbolico Ponzio Pilato rappresenta il realismo scettico di chi detiene il potere – da cui ricava cospicui benefici – ha a cuore solo il potere e la sua conservazione. Il Sinedrio rappresenta il dogma oligarchico che pretende di possedere la verità, unica e insindacabile. La consultazione popolare («Volete ch’io vi liberi il Re de’ Giudei?» Gv 18, 39) può apparire come una forma approssimativa e arcaica di democrazia (la democrazia usata come mezzo) che però, ahinoi, non sortisce il risultato desiderato, dato che determina la condanna di un innocente e trasforma un caso giudiziario in una tragedia di dimensioni storiche. Un fallimento della democrazia?
«Di democrazia, in quel caso, si può parlare ma a condizione che si precisi: democrazia nella pessima delle sue versioni degenerative, il regime della folla informe ed emotiva, della plebe inconsapevole e irresponsabile.»
Secondo il sottile e sofisticato ragionamento di Gustavo Zagrebelsky, una teoria della democrazia come fine e non solo come mezzo deve saper proporre un modello di pensiero «che non presuma di possedere la verità e la giustizia, ma nemmeno ne consideri insensata la ricerca». Un modello a cui il presidente emerito della Corte Costituzionale assegna il nome di «democrazia critica».
La revisione del processo a Gesù operata dall’autore, compendiata da numerose citazioni tratte dalla Bibbia del Diodati, tende a ricostruire la dinamica di questa brutta storia, inchiodando ciascuno degli attori alle proprie responsabilità.
L’esegesi testuale di Zagrebelsky mette in luce interessanti sfaccettature dell’episodio, tra i più significativi della letteratura di tutti i tempi, per i suoi risvolti politici e psicologici, oltre che umani.
Il fatto è noto. Dopo aver cercato in tutti i modi di liberarsi di un imputato scomodo che, per di più, Pilato ritiene innocuo per gli interessi di Roma, egli si rivolge al popolo che, presente in massa a Gerusalemme per le celebrazioni pasquali, costituisce in quel momento la maggiore preoccupazione per il procuratore, per i disordini che una folla ostile al dominio romano e per di più indispettita avrebbe potuto causare. Solo dopo diverse verifiche dell’orientamento popolare (1) Pilato si rassegna a giustiziare il Nazzareno, adeguandosi al desiderio del Sinedrio e della moltitudine da esso manipolata, ma dissociandosi platealmente dalla sentenza, mediante il celebre lavacro delle mani. 
«Il primo compito di ogni uomo di governo “puro” è di rafforzare il potere o, almeno, di non indebolirlo. La maggior colpa di ogni uomo del potere è di lasciarselo scappare, non di voltarsi dall’altra parte, di fronte alla verità e alla giustizia: due illusioni di chi, ignorando le dure leggi della politica, può permettersi il lusso di coltivare chimere.»
Il significato che si può ottenere è che entrambi i protagonisti – il dogma e la schepsi – hanno una concezione della “democrazia” – di quella minima indispensabile misura di democrazia che sono disposti a concedere – come mezzo. E’ come se essi portassero avanti il proprio reciproco rapporto – un rapporto simbiotico, pensandoci bene – per interposta persona, una specie di “guerra fredda” che fa passare i conflitti e le divergenze attraverso il demos. Il dogma ne manipola gli umori facendo leva sul timore reverenziale e superstizioso che riesce a evocare. La schepsi si rivolge ad esso per sondarne gli orientamenti e indirizzare l’azione di governo verso gli ambiti meno rischiosi per il potere (per una trattazione più attuale dei rapporti tra il dogma e il potere costituito vedi anche, dello stesso autore, Contro l’etica della verità).
Alla fine la politica si riduce a un gioco delle parti in cui il dogma, con i propri condizionamenti, confeziona ad hoc le istanze popolari a cui l’autocrazia scettica acriticamente si adegua. Per la schepsi l’unico obiettivo rilevante è la conservazione del potere o il suo rafforzamento; per il dogma, la conservazione della propria autorità e dei privilegi connessi.
Il progetto politico di Zagrebelsky visualizza una forma costituzionale che superi l’esigenza di operare nel senso di una necessità – sia questa avvertita impellentemente dai sostenitori di un integralismo etico o dai cultori del potere per il potere – per aprirsi alla possibilità che non si stanca di trovare sempre nuove e più adeguate soluzioni e non arretra neppure di fronte alla sconfitta che ritiene, appunto, possibile, ma mai definitiva.
«Nella democrazia critica, la democrazia è funzione di se stessa. Poiché essa pone sempre a se medesima i suoi fini, è al tempo stesso mezzo e fine. Ed essendo contemporaneamente mezzo e fine, non può crearsi una contraddizione per uscire dalla quale si possa essere posti nell’alternativa di salvaguardare i fini, rinunciando alla democrazia come mezzo, oppure di salvaguardare la democrazia come mezzo, rinunciando ai fini.»
L’obbiezione che sorge spontanea, avvicinandosi alle ultime pagine di questo intelligente contributo che non si limita a descrivere efficacemente la dinamica politica che anima le forze della conservazione e della demagogia, ma propone anche un atteggiamento che si prefigge di rafforzare i valori insiti nella carta costituzionale e nella stessa idea di democrazia, è la seguente. 
In un contesto in cui quattro regioni del paese sono di fatto in mano alla criminalità organizzata le cui attività illegali producono introiti approssimamente quantificati in «tre finanziarie Prodi» (vedi Luca Ricolfi, Le tre società); considerando che questa massa di denaro immensa finisce con l’inquinare l’economia regolare, nel cui circuito viene inserita senza alcun criterio economico e oggi i referenti rispettabili di queste entità criminali siedono nei consigli d’amministrazione delle banche che a loro volta controllano le maggiori aziende italiane; in un paese, ancora, in cui i più importanti mezzi di comunicazione sono concentrati nelle mani di un comitato d’affari di sospetta fede repubblicana, in grado di condizionare l’opinione pubblica al punto da creare un partito dal nulla e conquistare in pochi anni il governo (e sempre pronto a metter mano alla Costituzione!) e oggi, per accedere a certe informazioni il cittadino è costretto a collegarsi al blog di un comico cabarettista (vedi Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti); in un paese, ancora, il nostro, in cui si legifera in maniera che la durata dei processi risulti di fatto superiore alla prescrizione dei reati che si dovrebbero punire (vedi Bruno Tinti, Toghe rotte. La giustizia dalla parte di chi la fa), il sofisticato ed elegante disegno politico di Gustavo Zagrebelsky non potrà risultare, da solo, un tantino debole?
E’ lo stesso autore a soddisfare in parte la nostra obiezione, con una finale iniezione di realismo che lascia aperta la strada a opzioni più incisive:
«Nella politica, la mitezza, per non farsi irridere come imbecillità, deve essere una virtù reciproca. Se non lo è, ad un certo punto “prima della fine”, bisogna rompere il silenzio e agire per cessare di subire.»
Resta da discutere quali contromisure – nel caso questa seconda eventualità si realizzi – la rigorosa soluzione costituzionale di Gustavo Zagrebelsky permetta di adottare per contenere e contrastare avversari fortissimi e agguerriti, del tutto immuni da scrupoli o incertezze.

1 commento

  • 1 silvano
    20 Luglio 2013 - 06:32

    a volte mi domando: le riflessioni che eminenti pensatori espongono, possono essere “Mezzo” per mediocri politicanti che ne fanno “Fine”?
    La democrazia è una sorta di >grimaldello< un semplice “Mezzo” per tirare fuori mediocri “Fini”

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