Il femminismo ha perso la sua natura originaria?

14 Aprile 2015
4 Commenti


Gianfranco Sabattini

In questi ultimi tempi il femminismo sembra aver smarrito completamente la sua originaria natura: da movimento liberatorio, qual era, o come veniva prevalentemente percepito all’origine, esso si è trasformato in movimento rivendicativo essenzialmente sessista. Il fenomeno non è circoscritto all’Italia, per quanto nel nostro Paese abbia assunto posizioni forse tra le più estreme, risultando comune alla generalità dei contesti sociali in cui ha avuto modo di radicarsi e di svilupparsi.
All’inizio della prima metà del secolo scorso il femminismo poteva essere connotato in termini di movimento per la liberazione dell’”uomo”, senza alcun segno corporeo distintivo; ora, a causa del suo lento degrado verso forme di protesta rivendicativa, esso è esposto al rischio di perdere l’adesione a suo sostegno di tutti coloro, maschi compresi, che hanno sempre avuto a cuore il problema della liberazione della società da ogni forma di rapporti di sudditanza, per l’affermazione, in loro vece, di rapporti di uguaglianza, non solo formale, e di solidarietà.
Il femminismo, com’è noto, è nato dalla presa di coscienza di una asimmetria, ovvero di una disuguaglianza affermatasi a livello sociale tra i due sessi; esso è nato quindi come rifiuto dei rapporti di potere e di gerarchia, che l’asimmetria valeva ad instaurare nella società, e dei conseguenti processi di esclusione fatti pesare da una classe o gruppo sociale ai danni di un’altra classe o gruppo. Le varie interpretazioni di quell’asimmetria, unitamente alle soluzioni di tempo in tempo teorizzate ed attuate per la sua rimozione, hanno dato vita alla diversificazione del femminismo, in funzione dell’evoluzione delle istanze avanzate dal movimento sul pieno economico e sociale: basti pensare al proliferare di specificazioni e varianti terminologiche che hanno designato il femminismo lungo tutto l’arco di tempo compreso tra la seconda metà del secolo scorso e l’inizio di quello attuale. Così, il femminismo degli anni Settanta ha potuto essere marxista, socialista, radicale, a seconda del legame che esso aveva con le prevalenti tradizioni ideologiche e politiche; o anche in femminismo dell’autocoscienza, del salario per il lavoro domestico o della salute della donna, a seconda dell’esperienza che esso aveva avuto modo di vivere all’interno dei diversi contesti sociali.
Dalla proliferazione dei femminismi sono nate così argomentazioni spesso contrastanti riguardo alla soluzione del problema della liberazione delle donne, ma anche riguardo al tipo di percorso da compiere per realizzare la liberazione: se lottare solo per eliminare alla radice i ruoli sociali considerati la causa prima dei rapporti di subordinazione, realizzando le pari opportunità tra uomini e donne nel pieno rispetto biologico del loro segno corporeo, oppure se criticare radicalmente l’identità del genere in cui le persone potevano identificarsi (se donna, uomo, o qualcosa di diverso da queste due polarità), per rivendicare, come sta avvenendo in Italia, la soddisfazione di istanze formulate su basi sessiste, con la pretesa di riservare “quote rosa” nell’assegnazione degli status-ruoli istituzionali, oppure di rendere sempre più complessa una legislazione unicamente orientata a favorire il “carrierismo” delle donne. Alle rivendicazioni delle “quote rosa” e del carrierismo vanno ad aggiungersi quella formulata dalla “Presidentessa” della Camera, Laura Boldrini, che si provveda all’adeguamento dell’uso della grammatica della lingua italiana alle esigenze di genere (la ministra, la deputata, ecc), nonché, a livello internazionale, quella di attivare un movimento di opinione volto ad assicurare al Palazzo di Vetro dell’ONU l’ascesa di una donna dopo la fine del mandato di Ban Ki-moon.
Contro il “degrado” del femminismo a pura e semplice attività rivendicativa a fini carrieristici si sono levate molte critiche; una delle più tranchant è quella formulata da Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista militante statunitense. In un articolo uscito su “The Guardian” alcuni mesi or sono (“Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”), ciò che appare interessante della critica che la Fraser americana porta alle deviazioni subite dal movimento per la liberazione della donna, è l’accusa d’essere diventato “servo” del capitalismo neoliberista.
“Come femminista – afferma la Fraser - ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi”. In particolare, la Fraser si dichiara preoccupata che la critica della disuguaglianza tra i sessi a livello sociale fornisca oggi una giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento: il movimento per la liberazione delle donne “sembra essersi avviluppato in una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti nel costruire la società del libero mercato”. Ciò sarebbe avvenuto per l’affermarsi nel movimento liberatorio delle donne attraverso di tre “blocchi di idee”.
Il primo è rappresentato dalla critica che il femminismo ha portato contro il “salario familiare”, così com’era venuto a consolidarsi all’interno dello Stato welfarista nei primi decenni del dopoguerra; questa critica ha portato – secondo la Fraser - alla legittimazione del “capitalismo flessibile” neoliberista, che ha consentito alle donne di riversarsi sul mercato del lavoro, sostituendo il modello organizzativo del welfare basato sul salario familiare con quello della famiglia a due percettori di reddito. Il capitalismo neoliberista si è servito della critica femminista del salario familiare per sfruttare il sogno dell’emancipazione delle donne come “motore dell’accumulazione capitalistica”, grazie al basso livello dei salari causato dall’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e ad un peggioramento dei servizi sociali.
Il secondo blocco di idee strumentalizzato dal capitalismo neoliberista è consistito nel fatto che le donne, radicalizzando la critica al salario familiare, hanno anche radicalizzato le loro pretese identitarie su basi sessiste ed individualistiche; ciò che l’ideologia neoliberista ha utilizzato per rimuovere le antiche aspirazioni all’uguaglianza sociale e per togliere al movimento femminista il carattere di movimento di massa con respiro internazionale, come è stato messo in evidenza da Janet Saltzman Chafetz e Anthony Gary Dworkin in “Female revolt”.
Il terzo blocco di idee critiche portate dal femminismo contro il modello del salario familiare, nella prospettiva di migliorare la crescente partecipazione della donna al lavoro, è consistito nel supportare la tendenza del capitalismo neoliberista a realizzare la disgregazione dello Stato sociale, facendosi promotore di iniziative legislative finalizzate ad istituzionalizzare provvedimenti utili a favorire il carrierismo al femminile.
Il consolidarsi a livello culturale dei tre blocchi di idee illustrate ha fatto sì che l’ambivalenza del femminismo si risolvesse nello smarrimento del valore dell’uguaglianza e della solidarietà sociale tra i sessi. Allo stato attuale, tuttavia, secondo la Fraser, il ricupero del movimento femminista alle sue istanze originarie può risultare possibile, solo con la rottura della “relazione pericolosa” che il femminismo ha stabilito con il neoliberismo, utilizzando ai propri fini i tre blocchi di idee prima descritti. Come? La Fraser non ha dubbi al riguardo. Il femminismo potrebbe ricuperare la propria autonomia di azione, solo riuscendo a conformare il movimento ai valori originari del movimento stesso.
Innanzitutto, il femminismo dovrebbe rompere “il falso legame” cha ha concorso a stabilire tra la critica al salario familiare e ciò che sono diventati gli attuali approdi del capitalismo del lavoro precario. In secondo luogo, esso dovrebbe superare il discorso identitario condotto su basi sessiste per finalità di carriera, sostituendolo con il potenziamento di quello basato sulla realizzazione di una generalizzata giustizia sociale. Infine, esso dovrebbe ricuperare “il concetto di democrazia partecipativa come un mezzo per rafforzare i poteri pubblici necessari a vincolare il capitale a finalità di giustizia”.
Alcuni, tra coloro che condividono l’analisi della Fraser, senza nel contempo concordare sulle conclusioni, osservano che la femminista americana sembra suggerire un completo ritorno al modello welfaristico affidato totalmente allo Stato. Sono senz’altro legittimi i dubbi sull’opportunità di un ritorno al modello dello Stato-assistenza del salario familiare; in alternativa, per ricuperare la propria autonomia dal capitalismo neoliberista, il movimento femminista potrebbe finalizzare la propria azione alla realizzazione delle condizioni utili all’”auto-valorizzazione di pratiche autonome di welfare e di cooperazione sociale produttiva”, con l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza; un tema quest’ultimo che in Italia è da sempre trascurato e banalizzato. Se fosse introdotto, senza essere ridotto a misura assistenziale, il reddito di cittadinanza consentirebbe di realizzare una condizione generalizzata di pari opportunità per tutti, affrancando il movimento delle donne dal vincolo risibile delle “quote rosa” e del carrierismo, che sa solo il “vincolo di manodopera” a tutela dei portatori di handicap!

4 commenti

  • 1 Lucia Pagella
    14 Aprile 2015 - 18:24

    Vi era un gustoso monologo di Troisi in cui, lui - disoccupato napoletano alla ricerca di una sistemazione- si lamentava di aver trovato o un lavoro part-time o un lavoro notturno o un lavoro ad ore o un lavoro nero o un lavoro flessibile o….un lavorettto ma di non essere ancora riuscito ad ottenere un lavoro senza aggettivi, un lavoro-lavoro. E questo perché non era il figlio di qualcuno con le mani in pasta.
    Nell’articolo che precede ed in cui si fa ampio riferimento alle teorie della Fraser mi sembra che succeda qualcosa di simile, ovvero non si parla di salario ma solo di salario familiare o di salario di cittadinanza ma mai di salario-salario e, perché no, di stipendio? Che la Frazer sostenga che il capitalismo abbia sfruttato la volontà delle donne di affermarsi nella vita (ed il lavoro é ancora il sistema principale per conquistarsi un’identità e un peso nella società) non mi meraviglia affatto: ha solo scoperto l’acqua calda. Se, però, non si confinasse il salario (ed il lavoro) familiare o, peggio di cittadinanza nell’ambito di un unico genere forse il problema potrebbe essere posto nella giusta luce e le derive capitalistiche potrebbero essere più facilmente sconfitte. Del resto il salario familiare, il congedo parentale ed altri istituti consimili sono già in essere ed io non vedoo nulla di strano che questi possano essere applicati, ove possibile, anche agli uomini che forse avrebbero molto da imparare dalle e sulle loro compagne ma…ma, invece, sono proprio gli uomini che ritengono tali istituti ” femminili ” perché il dedicarsi alla casa ed alla famiglia é visto come una capitis deminutio, con ciò svelando le vere ragioni della loro preoccupazione sul degenereare del femminismo.
    Che quanto riportato nell’articolo sia stato scritto da una donna ancora una volta non mi meraviglia. Tavolta le donne sono le peggiori nemiche di loro stesse (basti ricordare Camille Paglia) a ciò allenate dagli uomini che dalla competizione femminile hanno avuto sempre da guadagnare. Oltretutto si dice che non vi é peggior beghina di una puttana pentita.
    Per quanto mi riguarda continuerò a preoccuparmi del lavoro precario, della flessibilità in entrata ed in uscita, dello schiavismo strisciante senza addebitarne la colpa alla degenerazione del femminismo quanto piuttosto alla degenerazione del capitalismo che, guarda un pò ,é proprio questo di matrice prettamente maschile.
    Devo inoltre confessare che mi disturba non poco il termine ” carrierismo femminile ” quando, se la cosa riguarda gli uomini ,si preferisce parlare di giusta ambizione:

  • 2 Gianfranco Sabattini
    15 Aprile 2015 - 09:22

    Il suo discorso, cara Lucia, non mi convince. Ridurre il problema della liberazione della donna alla sola aspirazione del libero inserimento nel mercato del lavoro senza ulteriori specificazioni è riduttivo; il problema, considerata la sua importanza, merita d’essere trattato in un contesto più generale, all’interno del quale, capitalismo o meno, i ruoli dei generi siano ridefiniti. Sino ad allora, mi consenta d’essere franco: a me, per il momento, in Italia, la pretesa da parte del “movimento femminista” di far valere il vincolo delle “quote rosa” nella spartizione degli status ruoli istituzionali, francamente la considero una sorta di boomerang, i cui effetti nocivi servono solo ad “inquinare” quel poco di valido che vi è nell’aspirazione delle donne ad un loro crescente inserimento, a parità di condizioni e senza discriminazioni di genere, nella divisione sociale del lavoro.

  • 3 Lucia Pagella
    16 Aprile 2015 - 00:22

    Caro Sabbatini,non avevo dubbi sul fatto che Ella non sarebbe stato d’accordo con me e sono pochi, pochissimi gli uomini che possono comprendere a pieno il fenomeno del femminismo e condividerlo. Un mio caro amico, Michele Calia, con il quale ho condotto diverse battaglie assieme, mi diceva che solo chi porta scarpe strette può sapere quanto lo siano e parlarne con piena cognizione di causa.
    Il femminismo é nato come fenomeno liberatorio, non vi é dubbio, ma alla base di tale fenomeno vi era lo strumento della rivendicazione : le suffragette che vennero uccise sotto gli zoccoli dei cavalli mentre lottavano per il diritto al voto lo fecero appunto rivendicando un diritto.
    Ma un diritto che non possa essere fatto valere non é un diritto: é una menzogna. Se la donna viene confinata fra le mura domestiche e non ha la possibilità di ottenere un lavoro pari alle sue capacità, ma gli viene concesso solo un salario familiare che la vincola a quelle attività che gli vengono riconosciute proprie secondo la mistica della femminilità l’elettorato passivo - come é dimostrato dai fatti - sarà un’eccezione e la società tutta, anche gli uomini, saranno privati dell’apporto di punti di vista plurali, che é poi la sostanza della democrazia.
    E’ ovvio che la questione sia molto più ampia e che la rivendicazione delle donne non possa esaurirsi solo nell’aspettto economico ma é da qui che si deve partire perché da qui tutto deriva : nel mondo antico uno schiavo non era neppure un soggetto di diritto e tale lo diveniva solo quando veniva liberato e poteva divenire titolare di diritti.
    Quando le condizioni di partenza sono così differenti da creare il tetto di cristallo bisogna incidere nella realtà anche con sistemi che possono non piacere ( le quote rosa ) che non sono un boomerang ma un’opportunità di cui tutti dovremmo auspicare al più presto la non necessità.
    Lei é stato molto franco e di questo la ringrazio. Ma vi é una frase inquietante e riguarda la possibilità di inquinare ” quel poco di valido che vi è nell’aspirazione delle donne.” Se non é stato un lapsus calami forse meriterebbe una spiegazione.

  • 4 Gianfranco Sabattini
    17 Aprile 2015 - 21:35

    Gentile Lucia, chiedo scusa d’aver ferito la sua sensibilità con la frase ”quel poco di valido che vi è nell’aspirazione delle donne”; è stata una reazione emotiva alle esternazioni delle quali in Italia, da parte di “qualcuno”, spesso, si abusa. A parte l’“incidente”, dal suo commento del 16. u.s., mi pare di poter cogliere un terreno di un possibile comune accordo. In particolare, concordo che la liberazione della donna non si esaurisce solo nell’aspetto economico e condivido anche l’affermazione secondo cui un diritto che non può essere fatto valere non é un diritto. Tuttavia, proprio perché la questione della liberazione della donna è molto più ampia di quanto non si sia disposti ad ammettere, pretendere, per il raggiungimento dell’obiettivo del “movimento”, di “partire” dal riscatto della donna dalle mura domestiche, senza la preventiva formulazione di un’ipotesi di una nuova divisione sociale del lavoro che coinvolga tutti, uomini e donne, mi conserva fermo nel convincimento che il femminismo, senza il riferimento a un “nuovo modello di organizzazione sociale”, sia destinato a perdere slancio e consenso. A questo punto il discorso, vorrà riconoscerlo, si allarga a tal punto da risultare impossibile qualsiasi tentativo di farne una sintesi in questa sede; ad ogni buon conto, capiterà l’occasione per riprendere il discorso in termini più articolati e compiuti. Salutandola, la ringrazio dell’attenzione

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