Regionali. Appunti per un programma di rinnovamento delle istituzioni e rilancio della specialità sarda

29 Novembre 2018
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Gianfranco Sabattini

Le liste e gli schieramenti si preparano alle elezioni regionali. Finora molte manovre, tante trame molta propaganda, ma poco programma. Pubblichiamo un intervento del Prof. Gianfranco Sabattini, che fa seguito ad altro sullo stesso tema, con lo scopo di offrire spunti programmatici per lo sviluppo della Sardegna. Ne seguiranno ovviamente altri sui temi istituzionali, su quelli economici e culturali.
Per agevolare la lettura abbiamo diviso lo scritto in tre parti. Nella prima è indicato il senso e i risultati generali della ricerca. Per chi voglia approfondire,
nella seconda e terza parte, il metodo e le specifiche considerazioni conclusive. 

Al volume Identità e Autonomia in Sardegna e Scozia, pubblicato nel 2013 a cura di Gianmario Demuro, Francesco Mola e Ilenia Ruggiu, contenente i risultati di un progetto di ricerca finanziato dalla Regione autonoma della Sardegna, ha fatto seguito, nel 2017, la pubblicazione di un nuovo volume che rappresenta la prosecuzione del primo, dal titolo “La specialità sarda alla prova della crisi economica globale”, curato da Giovanni Coinu, Gianmario Demuro e Francesco Mola. Anche di questo secondo volume, come del primo, il punto di partenza è stata un’indagine demoscopica, accompagnata dalle riflessioni di diversi autori sulle problematiche attualmente presentate dal problema della specialità ordinamentale di alcuni regioni.
Nel primo volume, l’indagine ha avuto lo scopo di accertare l’opinione dei sardi sulle riforme istituzionali “necessarie alla Sardegna per uscire dalla fase di transizione istituzionale in cui essa è venuta a trovarsi a partire dal 1999”, anno in cui è stata approvata la legge costituzionale n. 1/1999. Com’è noto, questa legge ha implicato lo “smarrimento” della specialità dell’autonomia della Regione sarda, comportando nell’opinione dei sardi il radicarsi della necessità di una riforma dello Statuto vigente; da qui la giustificazione di svolgere un’indagine statistica, che potesse essere d’aiuto nella formulazione di proposte in merito. Secondo i curatori, dai risultati dell’indagine sono emersi “dati molto netti e sorprendenti”, tra i quali, il più rilevante, è stato quello esprimente il senso di autonomia vissuto dai sardi che, reclamando maggiori poteri, valutano negativa la politica delle istituzioni regionali, giudicate incapaci “di rappresentare adeguatamente la specialità”.
Dalla prima indagine demoscopica era risultato che i sardi fossero orientati, quasi all’unanimità, nel denunciare una profonda percezione delle difficoltà dei politici e delle istituzioni regionali nel gestire l’autonomia. Secondo Gianmario Demuro, autore (oltre che curatore del libro) di uno dei testi che accompagnano il commento dei risultati dell’indagine, l’interpretazione che di essi, da un punto di vista giuridico e politico, poteva essere data, era che in Sardegna vi fosse “una forte rivendicazione di maggiore rappresentanza politica, da sempre il principale veicolo dell’identità e della specialità”, percepite e interiorizzate dai sardi in funzione della crescita economica e dello sviluppo qualitativo dell’Isola.
Tuttavia, la ricerca presentava il limite di non aver indagato sul come i sardi avrebbero desiderato porre rimedio alla loro sfiducia nei confronti della politica regionale e, in particolare, delle istituzioni regionali; la lacuna ha limitato fortemente lo scopo dell’indagine, ovvero la conoscenza dell’opinione dei sardi riguardo al modi in cui l’eventuale riforma dello Statuto vigente potesse consentire il ricupero potenziato della autonomia speciale della loro Regione. Ciò a supporto di una maggior tutela della propria identità, fondata sulla qualità di una crescita e di uno sviluppo che la distribuzione del potere decisionale fra le varie istituzioni, nelle quali si è sinora sostanziata l’autonomia, non ha saputo assicurare. Ai limiti della prima indagine ha posto rimedio la seconda, che costituisce, come si è detto, il punto di partenza del secondo volume sul problema della specialità della Sardegna.
Questa seconda indagine, infatti, è volta ad appurare quale sia l’opinione dei sardi circa la più conveniente riforma delle istituzioni regionali. I dati che da essa si ricavano risultano però coerenti con quelli della prima solo su un aspetto fondamentale, riguardante il modo di percepire il senso dell’autonomia speciale; rispetto agli altri aspetti indagati, invece, non si può non rilevare una certa contraddittorietà delle risposte fornite dalle due indagini.
L’aspetto riguardo al quale i sardi hanno mostrato un’alta coerenza è quello che investe direttamente i motivi della loro identità, quali quelli etnici e linguistici. Dalla prima indagine era risultato che, la rivendicazione della specialità regionale sancita nello Statuto non era necessariamente legata al fatto di essere nati in Sardegna, in quanto in maggioranza i sardi si sentivano portatori di una identità plurale, integrata nelle istituzioni in cui era “incarnata” l’autonomia: oltre che sardi, quindi, gli abitanti dell’Isola si sentivano italiani, europei e cittadini del mondo (con buona pace per tutti coloro da sempre impegnati ad invocare per il popolo sardo un modello identità non fondato sulla natura e qualità delle istituzioni). Ciò è confermato dalla seconda indagine, dalla quale risulta che la rivendicazione della specialità è basata, non tanto su pretese etnico-culturali, quanto piuttosto sulle peculiari condizioni economiche e sociali che caratterizzano la comunità regionale.
Dunque, dai dati emersi dall’ultima indagine, è risultato che, per i sardi, i problemi prioritari sono quelli di carattere economico-sociale e non quelli di carattere etnico-cultural-territoriale; ma è proprio sulle priorità degli interventi auspicati in nome della specialità che la seconda indagine demoscopica evidenzia le contraddizioni più gravi, destinate ad avere ripercussioni negative, in assenza di un approfondito dibattito culturale sulla questione di una possibile riforma dello Statuto regionale.

MODALITA’ DELLA RICERCA. L’indagine è stata condotta sulla base di un questionario (somministrato a un campione di 607 intervistati) strutturato in quattro sezioni, riguardanti, rispettivamente: profilo socio-demografico della popolazione; priorità d’intervento; atteggiamento dei sardi riguardo alla vita pubblica; distribuzione dei poteri nelle istituzioni. Le sezioni che maggiormente rilevano, rispetto all’atteggiamento dei sardi circa la rivendicazione della specialità e la struttura istituzionale con cui realizzare gli interventi, sono la seconda (riguardante le “priorità d’intervento”) e la quarta (riguardante la “distribuzione dei poteri nelle istituzioni”).
La sezione relativa alle priorità è stata la più corposa (costituita da 56 domande); agli intervistati è stato chiesto di esprimere la propria opinione sulle priorità d’intervento riferite ad otto settori: Identità e cultura, Economia, Lavoro, Trasporti e infrastrutture, Riforme e istituzioni, Ambiente e territorio, Welfare, Sicurezza. Con l’ultima domanda della sezione è stato chiesto agli intervistati di esprimere le loro preferenze, assegnando un punteggio in una scala da 1 (bassa priorità) a 10 (alta priorità). I risultati, sorprendentemente, sono stati i seguenti: massima priorità al Lavoro, seguito da Trasporti e infrastrutture, Economia, Sicurezza, Welfare, Ambiente e territorio; penultimo il settore Identità e cultura e ultimo (!), il settore Riforme e istituzioni.
Per quanto concerne la sezione relativa al settore riguardante la distribuzione dei poteri nella Regione, al fine di meglio interpretare il pensiero degli intervistati, si è fatto ricorso ad un’”analisi multivariata”, mediante l’applicazione della tecnica statistica della “Cluster analysis”, con la quale sono state rilevate le risposte di gruppi omogenei (rispetto ad età, titolo di studio, ecc.) dell’intero campione; questi i risultati: Anziani centralisti (22%); Giovani conservatori e sfiduciati (12%); Statalisti (30%); Adulti decentralizzatori (36%). Inaspettatamente, riguardo alla distribuzione del potere decisionale rispetto a quattro istituzioni di riferimento (Unione Europea, Stato, Regione, Comuni), l’atteggiamento dei sardi è risultato contraddittorio rispetto alle manifestazioni d’interesse al rilancio della specialità autonomistica della loro Regione. Solo il gruppo degli Adulti decentralizzatori (36%) ha presentato una forte presenza di soggetti che vorrebbero un aumento dei poteri assegnati ai Comuni (senza specificare se amministrativa o di altra natura); pochi, invece, sono stati quelli che hanno espresso il desiderio di conservare lo status quo nella distribuzione dei poteri tra i quattro livelli istituzionali di riferimento.
Rispetto alla distribuzione dei poteri delle istituzioni, tutti gli altri gruppi (Anziani centralisti, Giovani conservatori e sfiduciati, Statalisti), per un totale pari al 65% del campione, hanno espresso una sostanziale indifferenza, se non la loro contrarietà, al cambiamento dello status quo istituzionale: gli Anziani centralisti si sono espressi in pro di un aumento dei poteri dell’Unione Europea e dello Stato; i Giovani conservatori e sfiduciati hanno manifestato un forte sentimento di indifferenza, in quanto propensi a lasciare le cose così come stanno; gli Statalisti hanno espresso un’opinione propensa ad assegnare maggiori poteri allo Stato.
RISULTATI E CONCLUSIONI. Di fronte a questi risultati, concernenti il senso che i sardi hanno interiorizzato rispetto al tema della specialità dei poteri autonomistici della propria Regione, come si può giustificare l’impegno profuso da minoranze estreme, nel proporre, addirittura, riforme della Costituzione italiana e dello Statuto sardo a difesa dell’autonomia speciale regionale, in funzione di profili identitari etno-linguistici-territoriali? L’evidente contraddizione può essere compresa solo se si considera, come afferma Roberto Toniatti (in “Le vie della democrazia partecipativa per la legittimazione delle autonomie speciali”), quanto problematica sia oggi la difesa delle autonomie speciali regionali e determinante il fatto che tale categoria giuridica corrisponda “ad una ininterrotta auto-percezione da parte di chi vi vive ed opera dall’interno”, in funzione però della soluzione dei problemi maggiormente avvertiti.
Se la conduzione di un’indagine statistica può rappresentare il mezzo per acquisire materiali conoscitivi sufficienti per poter procedere ad un’opera di rinnovamento delle istituzioni regionali più rispondenti alle priorità d’intervento espresse dagli intervistati, occorre però tener conto dell’atteggiamento prevalente dei sardi rispetto all’opera di rinnovamento dell’assetto istituzionale regionale; ciò è tanto più importante, se si considera che il riconoscimento della specialità è oggi fortemente contestato da parte di chi ritiene che le forme differenziate di autogoverno regionale siano ormai superate e, nella fase economica attuale, costituiscano una fonte di sprechi e di inefficienze. La critica al riconoscimento della condizione giuridica della specialità autonomistica ha infatti favorito - come afferma Roberto Louvin in “La sostenibilità dei regimi speciali di autonomia” – la formazione di due “opposte visioni di futuro”, dalle quali i sardi, stando alle indicazioni sulle priorità emerse dall’indagine statistica, dovranno difendersi.
Da un lato, essi sono chiamati a “lottare” contro una “concezione a-territoriale delle autonomie”, che tende ad assumere la forma di una pretesa, da parte degli organi centrali dello Stato, di plasmare a loro piacimento le istituzioni territoriali, spesso ammantando la pretesa con la presunzione che sia l’Europa a chiederlo. Dall’altro lato, i sardi dovranno “lottare” anche contro la concezione opposta di una difesa della specialità sulla base di pretese solo ideologiche e aprioristiche.
La pretesa di salvaguardare la specialità autonomistica sulla base di profili etnico-linguistici-territoriali prefigurerebbe per la Sardigna il rischio che la specialità autonomistica arrivi a tradursi in una “prigionia identitaria”, cioè in una vera e propria “autonomia sequestrata”, in cui le classi politiche e le élite amministrative possono continuare a gestire “il regime di autonomia come affare loro […], ampliando indebitamente la sfera dei loro privilegi e provocando un enorme danno d’immagine alle comunità che dovrebbero invece servire”. Questa situazione riflette in pieno il senso negativo del parere espresso dal gruppo degli Adulti decentralizzatori, i quali, pur favorevoli in maggioranza ad aumentare i poteri dei Comuni, sembrano orientati a soddisfare il desiderio delle élite politico-amministrative comunali di acquisire privilegi “particulari”, piuttosto che cercare maggiori possibilità di servire le comunità locali.
Stando così le cose, considerato che entrambe le concezioni descritte sono negative per riproporre una specialità autonomistica dell’Isola all’altezza dei problemi più avvertiti da tutti coloro che vi abitano, è d’interesse vitale contrastare la doppia deriva ideologica che tende o a giustificare la soppressione del regime giuridico della specialità, oppure a relegarlo nell’orizzonte esclusivo del passato. E’ necessario quindi, una mobilitazione, oltre che sul piano politico, anche su quello culturale, al fine di fare prevalere nei sardi il convincimento che le priorità d’intervento da loro indicate possono essere soddisfatte solo attraverso una più consona ridistribuzione dei poteri delle istituzioni regionali; una ridistribuzione che, come afferma Gian Giacomo Ortu in “L’intelligenza dell’autonomia. Teorie e pratiche in Sardegna”, consenta di anticipare “pratiche federaliste”, nella prospettiva di una futura riorganizzazione in senso federalistico di tutti i livelli istituzionali ai quali fa riferimento l’indagine demoscopica condotta per appurare l’atteggiamento dei sardi rispetto alla specialità ordinamentale della propria Regione.
La mobilitazione politico-culturale dovrà perseguire l’obiettivo di diffondere e di radicare nella coscienza dei sardi il convincimento che le priorità d’intervento da loro espresse possono essere perseguite solo attraverso una crescita stabile dell’area regionale ed uno sviluppo più equo e diffuso a livello territoriale, da realizzarsi con una riforma dello Statuto in grado di coinvolgere nei processi decisionali le comunità locali, attraverso una più appropriata organizzazione dell’Istituto regionale; dovrà trattarsi di un’organizzazione in grado di consentire la sottrazione dell’intera comunità regionale all’inefficienza istituzionale venutasi a creare dopo l’adozione, nel 2016, da parte della Regione, di un ordinamento degli enti locali del tutto inadeguato.
Il nuovo ordinamento delle autonomie locali, a parte l’Area metropolitana di Cagliari, continua a subire gli esiti negativi del centralismo della Regione nel governo del territorio, attraverso strumenti di programmazione della politica regionale che lasciano poco spazio alle autonomie locali, riordinate recentemente sulla base di “Unioni di Comuni”. La nuova legge non prevede per i nuovi enti locali alcuna possibilità di partecipazione alla definizione della politica di crescita e sviluppo delle loro aree; sulla base di un presunto dimensionamento territoriale ottimale dei nuovi enti, essa si è infatti limitata a perseguire un più razionale esercizio delle competenze amministrative, riducendo il loro potere di iniziativa alla stipula di convenzioni tra i vari Comuni ricadenti all’interno delle nuove circoscrizioni territoriali, in funzione dell’esercizio congiunto dei servizi di loro competenza.
Il superamento di questa situazione non può che essere una riforma della struttura dell’Istituto regionale adatta a rimuovere i due grandi limiti che hanno bloccato la crescita e lo sviluppo della Sardegna, quali l’inefficienza delle istituzioni locali e la mancanza di una loro adeguata autonomia decisionale per la progettazione e l’attuazione di interventi conformi alle priorità emerse dall’indagine demoscopica della quale sono stati illustrati i risultati.
Allo stato attuale, perciò, rispetto al passato, la discontinuità dell’organizzazione istituzionale della Sardegna può essere realizzata solo attraverso un decentramento degli strumenti di programmazione della politica regionale, che garantisca la partecipazione delle società civili locali alla formulazione delle scelte per la promozione della crescita e dello sviluppo dei loro territori; la “discontinuità”, in questa prospettiva di riforma istituzionale, dovrà essere il risultato di una limitazione dell’esercizio del potere a livello regionale solo allo svolgimento di una funzione di coordinamento e di indirizzo delle scelte locali, ponendo termine all’esercizio di una politica attiva che sinora non ha mai risposto alle attese delle comunità locali.
Per la realizzazione di una riforma dell’Istituto regionale secondo le linee indicate, occorrerà che la revisione dello Statuto vigente sia realizzata nel segno del superamento del centralismo decisionale sinora privilegiato; motivo, questo, che è alla base della percezione, da parte della popolazione sarda, dei limiti con cui i politici e le istituzioni regionali hanno fino ad ora rappresentato e gestito l’autonomia istituzionale.
Come afferma Gianmario Demuro nelle sue “Conclusioni” sui risultati dell’indagine demoscopica e sui commenti degli autori che hanno contribuito all’allestimento del volume recentemente pubblicato, il futuro dei sardi dipenderà da ciò che essi saranno capaci di realizzare, maturando e approfondendo però il convincimento - è il caso di aggiungere - che l’unico modo per salvaguardare e potenziare l’autonomia speciale finora riconosciuta, consiste nell’evitare che essa sia associata ai risultati fallimentari del passato; risultati che sono, forse, all’origine della presenza nella popolazione sarda del consistente gruppo di Statalisti e dell’indifferenza di un non trascurabile gruppo di Giovani conservatori e sfiduciati, il cui atteggiamento, assieme a quello dei primi, non è certo positivo nei confronti di una possibile riforma delle istituzioni regionali che sia più conforme alle prevalenti priorità di intervento emerse dall’indagine demoscopica.

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