Come coniugare rigore e crescita?

7 Novembre 2009
1 Commento


Gianfranco Sabattini

1. Ecco come ragiona da posizioni conservatrici chi propone il collegamento del rigore con la crescita e lo sviluppo del Paese. Secondo Francesco Giavazzi (“Corriere”, 27.10.2009; sulla stessa scia anche Marco Vitale sul “Corriere” due giorni dopo), il governo è in un vicolo cieco: l’attesa che si attenuino i motivi di crisi dei mercati internazionali non impedisce che i consumi continuino a diminuire e la disoccupazione ad aumentare. Quest’ultima, in particolare, in assenza di riforme, sarebbe destinata a rimanere elevata per oltre un decennio. In queste condizioni, il governo, pur resistendo a pressioni per un aumento della spesa pubblica, non sarà in grado di arginare la caduta del reddito e l’aumento del debito pubblico. Per sottrarsi a questo scenario, a dir poco catastrofico, occorre, da subito, porre un freno alla crescita del debito; ma, per fare ciò, occorre coniugare il rigore finanziario con politiche che accelerino la crescita e lo sviluppo. A tal fine, sarebbero sufficienti politiche finalizzate ad accelerare l’aumento dell’età pensionabile; pagare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese; allineare la tassazione delle rendite finanziarie ai valori medi europei; diminuire le imposte destinate allo Stato per sostituirle con tasse locali. Queste politiche, qualche liberalizzazione nel settore dei pubblici servizi e la riforma del pubblico impiego, sarebbero, secondo Giavazzi, sufficienti a rilanciare, a ritmi accelerati, la crescita e lo sviluppo del sistema. Appare evidente, però, che queste misure di politica economica sono di “breve respiro”, destinate cioè ad esercitare una qualche influenza positiva sull’andamento del reddito, dell’occupazione e degli altri fondamentali dell’economia nazionale solo nel breve periodo, ma non in quello lungo. Le linee di politica economica per rilanciare la crescita e lo sviluppo, infatti, non possono che essere più radicali di quelle proposte; esse devono essere orientate a compensare realmente gli esiti negativi che derivano dal modo di funzionare dei moderni sistemi economici integrati nel mercato mondiale.

2. La mondializzazione delle economie nazionali impone un aumento della competitività delle attività produttive tradizionali realizzato attraverso il loro approfondimento capitalistico; se ciò non accadesse, la loro permanenza sul mercato sarebbe resa possibile solo dal ritorno ad un anacronistico arroccamento protezionista (come a volte propone l’attuale ministro del Tesoro). L’approfondimento capitalistico così realizzato porta, però, con sé una crescente riduzione della forza lavoro occupata, a causa dell’aumentato rapporto capitale/lavoro. L’esito di questo processo, nel medio-lungo periodo, è la costituzione di un’estesa riserva di forza lavoro destinata a rimanere disoccupata in termini strutturali ed irreversibili. Se a ciò si aggiunge che, a causa della dinamica demografica e dell’aumento della speranza di vita, le classi di età non più attive vedono aumentare il numero dei loro componenti e che tra di esse larghe fasce di pensionati non dispongono di un’adeguata disponibilità di reddito, si comprende come i moderni sistemi economici abbiano ad affrontare il problema della povertà. Questo è lo status in cui si trova un qualsiasi soggetto privo di un’adeguata dotazione di risorse. La tradizionale definizione di povertà ha sempre preso in considerazione la indisponibilità di un reddito sufficiente a garantire la pura e semplice sopravvivenza. Tale definizione, però, è stata ampliata; infatti, si è pervenuti ora a una definizione radicalmente nuova di povertà, inquadrata all’interno della teoria dello sviluppo dell’uomo e della salvaguardia della sua dignità. In quest’ambito, la povertà è definita in funzione delle capacità dell’uomo di dare compimento al raggiungimento del proprio progetto di vita, piuttosto che in funzione della sola disponibilità di un reddito o di una data quantità di risorse materiali. All’interno della teoria dello sviluppo dell’uomo, il concetto di povertà è stato così ampliato sino a comprendere un insieme di situazioni esistenziali che, associate all’indisponibilità di un dato livello di risorse materiali, pregiudicano irreversibilmente lo sviluppo della personalità dei singoli soggetti. In questo senso, i poveri, non solo non dispongono di quanto è loro necessario per sopravvivere, ma non possono istruirsi, non possono curarsi e non si trovano nella condizione di svolgere alcun ruolo attivo nella comunità di appartenenza. Rispetto a questo concetto di povertà, il reddito in sé e per sé considerato costituisce una “dimensione” non sempre sufficiente ad esprimere le condizioni esistenziali dei soggetti compatibili con il loro sviluppo: possono, infatti, disporre di risorse materiali sufficienti per nutrirsi, vestirsi ed avere una abitazione, e tuttavia possono non disporre delle capacità di svolgere altre funzioni più specifiche e proprie per il loro sviluppo e la salvaguardia della loro dignità. Se si accetta l’idea che per i singoli soggetti è importante, non solo il compimento effettivo di alcune funzioni, ma anche la effettiva capacità di compierle, il concetto di povertà, allora, si allarga; perciò, per tutti coloro che ricadono in questa situazione di povertà allargata, il problema che insorge è quello di trovare il modus operandi del sistema sociale idoneo a garantire loro un accesso generalizzato e garantito a un dato livello di reddito.

3. Questo problema è all’attenzione di quanti studiano le modalità con cui garantire la crescita e lo sviluppo dei moderni sistemi economici in presenza di un sistema di sicurezza sociale coniugato ad un flusso corrente di spesa pubblica il cui finanziamento risulti del tutto compatibile con la crescita e lo sviluppo del sistema economico. Questo problema è irrisolvibile con riforme di breve respiro. Le riforme necessarie, da realizzarsi gradualmente, così come accaduto nel passato per la realizzazione dell’attuale welfare state, non possono che essere, come si è detto, più radicali di quelle proposte dalle forze politiche conservatrici, solitamente schiacciate sul presente ed orientate unicamente a contenere la spesa pubblica senza alcuna considerazione del fenomeno della povertà allargata. E’ in questo senso che appare giustificata la riforma strutturale discussa a livello europeo, che prevede l’introduzione di un reddito o di una pensione di cittadinanza (basic income e basic pension) incondizionati. Da un lato, si tratta, nell’immediato, di garantire a tutti l’accesso a un reddito minimo garantito e condizionato, legato a precisi requisiti (di appartenenza, di reddito, di stato di bisogno ecc.), quali ad esempio gli assegni erogati a favore dei minorenni, la pensione minima erogata a beneficio di tutti oltre una certa età, i sussidi di disoccupazione involontaria senza limiti di durata, un reddito minimo a beneficio di tutte le famiglie al di sotto di un certo reddito. Dall’altro, si tratta, in una prospettiva temporale di maggior respiro, di garantire a tutti l’accesso a un reddito minimo garantito e incondizionato, a favore di tutti i cittadini (o, al limite, di tutti i residenti) semplicemente perché cittadini (o semplicemente perché residenti) senza contropartita (in termini di ore di lavoro, ad esempio), senza prova dei mezzi (inclusi, dunque, anche i ricchi, così come, nell’attuale organizzazione del welfare state, chi dispone di alti livelli di redito può fruire di molti servizi pubblici gratuitamente). Il reddito di cittadinanza si configura, cioè, come un diritto individuale finalizzato a consentire un migliore funzionamento del sistema di sicurezza sociale, senza compromettere la capacità espansiva e di sviluppo, in condizioni di competitività, dell’intero sistema produttivo. L’idea di fondo a sostegno dell’erogazione di un reddito incondizionato è che erogare un reddito condizionato costi di più in termini di costo di gestione e di controllo. La prima forma di reddito, a differenza della seconda forma, libera i cittadini dal bisogno, consente loro di realizzare il proprio progetto di vita e, nello stesso tempo, libera le energie di quanti sono addetti ora a fare funzionare un sistema di sicurezza sociale burocratizzato ed inefficiente, per destinarle alla realizzazione delle condizioni istituzionali atte a garantire una reale ed effettiva autorealizzazione dei singoli cittadini, anche attraverso iniziative a livello microeconomico rese possibili dalla certezza di potere disporre di un reddito garantito.
Occorre, dunque, una riforma radicale deli sistema di sicurezza sociale. Ma di questo si dirà domani.

1 commento

  • 1 Bomboi Adriano
    7 Novembre 2009 - 15:05

    E in Sardegna? Laddove il sistema burocratico-fiscale pone addirittura una pesante ombra sui criteri di restituzione dell’IVA come nel caso della vertenza entrate. Che fare?

Lascia un commento