I miei ottant’anni

10 Dicembre 2009
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Andrea Raggio

Caro Andrea,
ti sono molto grato delle belle parole che hai dedicato ai miei ottant’anni. Hai detto bene, la mia è stata una vita intensa, ricca di momenti esaltanti ma segnata anche da errori e da ferite. Una vita niente affatto tranquilla. Se avessi scelto la tranquillità, sarebbe stata forse una vita con meno errori, ma certamente meno appagante. Nessun pentimento, perciò, e nessun rimpianto. Ho cominciato a fare politica da quando avevo quattordici anni. E quando appena ventenne mi fu proposto di lasciare il mio mestiere per fare il “rivoluzionario di professione”, come allora enfaticamente si diceva, accettai senza pensarci sopra. Oggi tutto è cambiato ed è bene che la politica sia professionalità ma non necessariamente professione, come diceva Montanelli. Ma allora la professione del “rivoluzionario” era, soprattutto per un giovane, affascinante non solo perché esaltata dell’esempio di tanti combattenti antifascisti ma perché animata da un’entusiasmante prospettiva, quella di una società più giusta. Ecco perché non sono pentito e, anzi, mi vanto di quel “peccato” di gioventù.
Hai ricordato alcuni aspetti della mia esperienza politica. Colgo l’occasione per qualche considerazione su di essi. I compagni de Il Manifesto mi rimproverarono, e forse ancora mi rimproverano, un’eccesiva chiusura nella vicenda che ha portato alla loro radiazione. Ma anche loro non scherzavano. E’ stata una lotta politica dura, nella quale mi sono trovato in prima linea perché segretario di una delle tre federazioni maggiormente interessate. Ma ho sempre rispettato quei compagni e da loro ho sempre avuto rispetto. Qui sta la differenza. Oggi se azzardi una critica, viene presa come offesa personale. La sezione Lenin, il principale centro di quella dissidenza, decise di tenere il congresso aperto anche ai non iscritti. Decisi di parteciparvi come segretario della federazione. Contrariamente alla consuetudine non fui chiamato alla presidenza, chiesi comunque di parlare e illustrai la posizione della direzione del partito a un’assemblea affollata. Non ottenni consensi, ma non pochi apprezzarono il non essermi tirato indietro. Alla pressante richiesta che anche il congresso federale fosse aperto a tutti, risposi organizzando un rigoroso servizio d’ordine. Un partito serio deve darsi delle regole e deve farle rispettare.
Aggiungo qualche cosa poco nota. Nonostante l’asprezza dello scontro, al congresso nazionale del partito che si tenne contestualmente, la candidatura di Luigi Pintor al comitato centrale fu avanzata, su suggerimento della direzione, proprio dalla delegazione della federazione di Cagliari. E alle elezioni politiche dello stesso periodo Luigi Pintor fu candidato in Sardegna sempre su proposta dalla mia federazione. Qualche giorno prima della presentazione della lista dei candidati fui convocato a Roma da Alessandro Natta il quale mi mostrò una lettera inviata alla direzione da un gruppo di compagni cagliaritani per denunciare l’attività frazionistica di Pintor (teneva riunioni in sedi non di partito). Colpa allora gravissima. Se lo viene a sapere la Commissione di controllo, disse Natta, succede il finimondo. Dobbiamo sforzarci di evitare comportamenti che spingano alla rottura, aggiunse, perciò ti propongo di tenere la lettera nel cassetto. Cosa ne pensi? Sono d’accordo, risposi. Di quel colloquio non parlai con nessuno, neppure con i compagni della segreteria. Mi avrebbero contestato, tanto era ancora arroventato il clima dello scontro. Questo era il PCI, confronto anche aspro ma comportamenti leali, rispetto delle idee e delle persone.
Non si colgono pienamente, però, le cause dell’asprezza che assunse in quella circostanza il dibattito nel partito se non si considerano due aspetti che richiamo perché tornano di attualità. Nel partito convivevano, non senza difficoltà, due anime: quella comunista democratica e quella democratica comunista. Differenza di non poco conto, riguarda infatti l’annosa querelle democrazia formale – democrazia sostanziale. Ancora oggi c’è difficoltà a tenere assieme le due facce. Si discute di democrazia spesso prescindendo dalle concrete condizioni economiche e sociali, oppure di queste prescindendo dallo sviluppo della democrazia. Così la democrazia appare a molti, soprattutto ai più deboli, come un optional se non addirittura come un tema estraneo, da élite. Qui sta, a mio parere il principale limite alla lotta contro il berlusconismo. L’altro aspetto riguarda il conflitto non ancora del tutto risolto tra la visione classista dell’Autonomia e quella democratica, tesa cioè a coinvolgere i cittadini in una rivendicazione di popolo nei confronti dello Stato e per rinnovare lo Stato. L’orientamento del gruppo de Il Manifesto in Sardegna contribuì innegabilmente a risvegliare la concezione classista dell’Autonomia sino allora sopita. Non a caso attorno al gruppo si raccolsero anche molti compagni sostanzialmente antiautonomisti. Il confronto di allora, ancorché duro, aiutò innegabilmente tutto il partito a sviluppare con maggior convinzione e coraggio la strategia dell’unità autonomista. E con successo. Lo dicono i fatti: la costituzione della prima giunta regionale di sinistra nel 1980, i risultati delle regionali del 1984 (maggioranza assoluta alla sinistra laica e sardista) e delle europee dello stesso anno (il PCI col oltre il 32% superò per la prima volta la DC).
A proposito di unità, oggi indispensabile quanto ieri, il tuo ricordo degli anni della Rinascita sollecita un’ultima considerazione. La tela dell’unità va tessuta ogni giorno con pazienza, senza pretese egemoniche ma anche senza cedimenti. Ho sentito stamane alla televisione un compagno del PD dire, a proposito del mancato finanziamento della Sassari Olbia: “Ora Cappellacci guidi la lotta di tutto il popolo sardo.” Ma per favore! C’è poi il solito Di Pietro che pretende che gli altri si accodino alle sue posizioni e se disatteso minaccia di menare randellate, soprattutto a sinistra. Così forse racimola qualche voto, ma disfa la tela faticosamente tessuta. La costruzione dell’unità, è bene essere chiari, rifiuta l’esibizionismo e lo strumentalismo, e sulle iniziative unitarie, tali in quanto concordate, può essere messo solo il cappello dell’unità. Negli anni della Rinascita, c’è stato un forte impegno per utilizzare, innovando, le grandi risorse della politica. Quella straordinaria esperienza democratica è stata promossa e alimentata da una molteplicità di iniziative unitarie, di matrice diversa - comunista, socialista, cattolica democratica, sardista – ma una volta concordate e adottate, nessuno si sognava di vantarne la paternità. La ricerca dell’unità, infine, può anche scivolare nella subalternità e nel compromesso deteriore. Ecco perché è necessario che l’impegno unitario sia accompagnato da una lotta incessante contro le in giustizie e i favoritismi e per la moralità della politica. Qui sta oggi, a mio parere, uno dei principali punti di debolezza della sinistra. Si è riacceso in questi giorni il dibattito sui giovani e si sprecano gli appelli perché non se ne vadano all’estero, quelli che possono farlo, ma resistano qui nel loro Paese, per cambiarlo. I miei figli, come tanti altri giovani, hanno deciso di resistere, non ti dico con quante difficoltà e degli ostacoli. Ma sino a quando? Certo è che se ci fosse un maggiore impegno nella lotta all’ingiustizia e per la moralità pubblica, si sentirebbero incoraggiati.
Mi ero ripromesso di parlare solo del mio passato e, invece, mi sono fatto prendere la mano ancora una volta dall’attualità politica. Sono davvero incorreggibile.
Grazie ancora dei graditissimi auguri.

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