La Grande Guerra, una svolta radicale

6 Agosto 2014
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Giuseppe Caboni

“Noi e la guerra, sulle orme di Lussu”  è un saggio di Giuseppe Caboni, che si occupa della Grande Guerra da un angolo visuale particolare, quello del “Capitano dei Rossomori”, di cui l’intellettuale sardo è uno dei massimi studiosi. Noi pubblichiamo il lavoro in alcune puntate, preavvisando il lettore che si tratta di uno studio finalizzato ad un lavoro più ampio.
Ecco la prima “puntata”.

Premessa.- La guerra, diceva Joyce  Lussu, dovrebbe diventare un tabù, una pratica vietata universalmente, e impossibile. Invece conviviamo da millenni con ingenti morti organizzate, con distruzioni criminali legittimate; e non abbiamo mai veramente conosciuto la pace.
La prima guerra mondiale, contraddicendo l’aspirazione delle grandi maggioranze, nel pianeta, ad una vita pacifica e al benessere, ha rappresentato una svolta radicale nella dimensione del fenomeno bellico; ma è stato lo sbocco logico, consequenziale, di forme istituzionali, economie , culture. Almeno dal ‘500 gli Stati europei, organizzando in forma organica le forze armate, e occupando militarmente vaste aree del pianeta, preparavano quella che il Papa Benedetto XVI avrebbe definito “l’inutile strage”, l’immane carneficina, appunto, della grande guerra.
È necessario oggi capire l’importanza ed il ruolo che ha avuto questo enorme evento per l’umanità intera, per l’Italia, ed anche per il popolo della nostra isola.
È anche questo un campo di “impegno”, culturale e politico, che non deve essere sottovalutato, se condividiamo l’opinione scientifica che il formarsi dell’opinione pubblica è l’esplicarsi di un potere decisivo nella democrazia contemporanea.

1) Quale memoria, quale coscienza?

Ha sinora prevalso, nelle posizioni storiografiche, un’idea mitologica della guerra europea 1914 –‘18, ben ricostruita da Manlio Isnenghi, e soprattutto, con la creazione del “mito dei caduti”, nell’analisi di Mosse. È l’atteggiamento che di fatto sacralizza la guerra e la fa accettare come fatto indiscutibile. Le celebrazioni del ‘15 - ’18, che l’Italia si avvia a proporre, accettano, di fatto, anche se non sempre nelle intenzioni, questo atteggiamento di esaltazione patriottica e giustificazionista.
È comunque molto diffusa anche la tendenza a vedere nella partecipazione generale degli italiani, direttamente o dalle loro case, allo scontro bellico, un fenomeno di imponente costruzione della coscienza nazionale, unitaria: è questa l’accentuazione posta, anche se su versanti ideali per altri versi opposti, da Gibelli e Galli della Loggia.
Per noi sardi la guerra in questione è stata certamente un fenomeno di costruzione della coscienza regionale, della necessità di superare le contrapposizioni fra paesi e città interne all’isola, e di costruire, insieme, una realtà diversa, di benessere, pace e democrazia. Il dibattito sulla grande guerra, in Sardegna, rimanda perciò immediatamente al ruolo poi svolto, sino all’avvento del fascismo, dal movimento degli ex combattenti, alle sue istanze classiste e anticoloniali.
È questo un dibattito che dura da decenni, e che ha visto operare in senso sostanzialmente riduttivo, se non demolitivo, anche settori dell’intellettualità e della politica di “sinistra.
È comunque patrimonio diffuso, se non generalizzato, ormai, l’orrore per la morte brutale di più di 12000 giovani sardi per una guerra di cui non conoscevano le ragioni.
Le ragioni, come ha ben indicato Piero Pieri da molti decenni risiedevano soprattutto, nella lotta fra le potenze europee per sovrastarsi tra loro, e per spartirsi il bottino dell’espansione coloniale.
Morti, mutilazioni, malattie mentali, suicidi: questo il drammatico esito delle scelte dei governi europei, così accuratamente documentato da storici come Isnenghi,   Rochat, Bracco. E noi sardi siamo stati “campioni” anche in queste sofferenze.

2) Cause e radici

È soprattutto nel campo storiografico tedesco e anglosassone che si è sviluppato un approfondito dibattito sulle cause della prima guerra mondiale.
Il primo macigno l’ha deposto Fischer, sostenendo che alla base del conflitto vi era la volontà dell’impero astro - ungarico di dare “l’assalto al potere mondiale”, per la conquista di mercati e delle materie prime.
Ma correttamente l’ha poi contraddetto Ritter mettendo in evidenza come tutti gli Stati europei erano accanitamente imperialisti.
Ha poi sostanzialmente arricchito i riferimenti logici Joll, sostenendo che accanto alla competizione economica, come causa scatenante della guerra, vi era una vasta e radicata cultura militarista.
Ha poi sostanzialmente arricchito i riferimenti logici Joll, sostenendo che accanto alla competizione economica, come causa scatenante della guerra, vi era una vasta e radicata cultura militarista.
Per quanto riguarda l’Italia la scelta di entrare nel conflitto, discussa animatamente per un anno, è stata caratterizzata in modo netto dal ruolo degli intellettuali, della cultura. Ma mentre in Germania i toni prevalenti, in questo campo, battevano sui richiami idealistici allo “spirito tedesco”, alla sua superiorità, sull’edonismo dei nascenti paesi capitalistici, in Italia svolgevano un ruolo importante i futuristi, con le loro idee sulla guerra modernizzatrice, unica possibile “igiene del mondo”, ma anche imponenti schiere di democratici, come Salvemini e Amendola, o riviste come “la voce” di Prezzolini, gli irredentisti, ma anche molti giovani “chiassosi” (come si autodefinirà Lussu), convinti della necessità di contrapporsi all’autoritarismo è all’invadenza delle potenze centrali.
Svolgevano poi un ruolo determinante, per mobilitare l’opinione pubblica a favore della guerra, i grandi quotidiani, e quindi la forte massa degli industriali.
Le radici della guerra traevano però alimento più in fondo, nelle politiche delle classi dirigenti e degli Stati che già tra fine ‘800 e inizio ‘900, hanno costruito gli “orrori del ‘900”: le guerre, gli stermini, le dittature.
Così gli storici più avveduti hanno riconosciuto fondamentali linee di continuità fra Guglielmo II e Hitler, ma anche tra Giolitti e il fascismo, contraddicendo i come Croce, ha considerato le dittature del secolo come “parentesi”, di temporanea rottura delle armonie dei regimi liberali e capitalistici.

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