Piena occupazione? Questo è il problema

17 Luglio 2017
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Gianfranco Sabattini

Manifestazione Cgil

Sergio Cesarotto, docente di Economia internazionale, in “L’imperativo della piena occupazione” (MicroMega, 4/2017) sostiene che l’Italia, nelle condizioni in cui attualmente si trova, non sia in grado di risolvere il problema della piena occupazione; ciò che sarebbe possibile se essa fosse integrata in un contesto internazione favorevole, quale potrebbe essere, ad esempio, quello Europeo dell’Eurozona, se fosse espresso da Paesi organizzati sul piano istituzionale su basi federalistiche ed orientato a svolgere una funzione compensatrice delle differenze economiche esistenti tra gli Stati membri dell’area federata. Così però non è, per cui, sebbene integrata in un contesto internazionale anche più vasto di quello dell’Eurozona, che però come quest’ultimo non è favorevole, l’Italia è destinata a un declino sociale irreversibile. A sostegno della sua tesi, Cesarotto illustra gli ostacoli, pressoché insuperabili, con cui l’Italia dovrebbe confrontarsi, ipotizzando le diverse alternative che nel momento attuale le sono offerte.
Esistono due modi per spiegare la piena occupazione: quello offerto dalla teoria neoclassica e quello keneysiano, riconducibile alla tradizione delle teoria classica. La prima teoria ritiene che la piena occupazione possa essere raggiunta solo in presenza di un mercato lasciato libero di svolgere la sua funzione, senza subire restrizioni di alcun tipo. In questo contesto, se i servizi della forza lavoro sono considerati alla stregua di qualsiasi altra risorsa economica, è fondato prevedere che in corrispondenza di bassi salari pagati dai datori di lavoro possa aversi una maggiore occupazione; a supportare questa previsione è l’assunto che, data la capacità produttiva disponibile, la “produttività marginale” di ulteriori lavoratori impiegati sia progressivamente decrescente, per cui i datori di lavoro saranno propensi ad una maggiore occupazione solo a un salario minore. Nel mercato, secondo la teoria neoclassica, il libero gioco della domanda e dell’offerta di lavoro è sufficiente a determinare un salario naturale d’equilibrio, al quale tutti lavorano.
Il mercato, perciò, quando sia lasciato libero di operare senza essere condizionato da “lacci e laccioli” di ogni tipo, assicura la tanto decantata “flessibilità del mercato del lavoro”; questa opererebbe nel senso di favorire sempre la formazione del salario naturale d’equilibrio e, dunque, il raggiungimento del pieno impiego di tutta la forza lavoro. Infatti, se vi fosse disoccupazione, dovuta a un salario troppo alto, i disoccupati si offrirebbero a un salario inferiore; per cui ai datori di lavoro verrebbe facile ottenere dai lavoratori occupati, sui quali penderebbe la spada di Damocle della possibile espulsine dall’occupazione, l’accettazione di una diminuzione salariale. Così, al salario più basso, tutti avranno l’opportunità di lavorare.
Esiste però un ma; se riducono il salario ai lavoratori-consumatori, i datori di lavoro si mettono nella condizione di correre il rischio che una parte della loro produzione resti invenduta sul marcato; se ciò accadesse, sarebbe inevitabile il riproporsi della disoccupazione. E’ stato Keynes, e prima di lui Marx, ad imputare la disoccupazione a una crisi della domanda finale del sistema economico, a causa del verificarsi di un fenomeno senza del quale il capitalismo non può funzionare: la diseguale distribuzione del prodotto sociale, che non consente ai lavoratori disoccupati di consumare, perché privi della necessaria capacità d’acquisto. Lo stesso Keynes, per conservare il pieno impiego, ha indicato una modalità di distribuzione del reddito tra i diversi gruppi sociali alternativa a quello propria della teoria neoclassica; com’è noto, la questione distributiva è stata affrontata dall’economista di Cambridge, non più in funzione delle libere determinazioni del mercato, ma in funzione di “rapporti di forza” di natura politica tra le parti protagoniste della vita economica.
I rapporti di forza, infatti, hanno consentito di giustificare il reddito dei lavoratori costituito, non più soltanto dal salario corrisposto direttamente dai datori di lavoro, ma anche da sue integrazioni operate da interventi ridistributivi dello Stato, finanziate attraverso la leva fiscale. L’intervento pubblico, in questo contesto, ha lo scopo di sostenere la domanda finale del sistema economico; sostegno che, nel secondo dopoguerra, di fronte alla minaccia sovietica e al pericolo di una nuova Grande Depressione, soprattutto nei Paesi dell’Europa occidentale ha preso la forma di una crescente spesa sociale, che ha caratterizzato i primi trent’anni del dopoguerra.
A parere di Cesarotto, il venir meno “della sfida sovietica e l’indisciplina sociale”, che hanno accompagnato la piena occupazione degli “anni gloriosi” (1945-1975), hanno fatto “progressivamente tornare il capitalismo sui propri passi”. A parte il venir meno della minaccia sovietica, in che cosa è consistita l’indisciplina sociale? Quale è stato il suo ruolo nel determinare la crisi del “compromesso keynesiano”?
Per spiegare l’indisciplina sociale, Cesarotto si rifà alle idee sviluppate all’inizio degli anni Quaranta dall’economista polacco Michal Kalecki, il quale ha evidenziato, indipendentemente da Keynes, che se, da un lato, nel capitalismo il pieno impiego può essere ottenuto con una ridistribuzione del reddito attraverso la spesa pubblica, dall’altro lato, accade che la piena occupazione sia incompatibile col capitalismo, per via del fatto che il pieno impiego “comporta una diminuzione del saggio di profitto e una forte indisciplina sociale”, essendo determinata quest’ultima dalla scarsa dedizione al lavoro che lo stesso pieno impiego comporta presso i lavoratori.
A parte l’allungamento della pausa caffé dei lavoratori e l’aumentata propensione a darsi ammalati, occorre però tener conto del fatto che Cesarotto manca di ricordare che gli alti livelli che la spesa pubblica aveva raggiunto alla metà degli anni Settanta sono risultati difficili da sostenere, per via delle crisi dei mercati energetici e di quelli valutari; ciò ha reso facile il riproporsi, attraverso i neoliberisti, delle ricette distributive proprie della teoria neoclassica. Con queste ricette è stato possibile elevare i tassi di disoccupazione per il sostegno dei profitti, ma anche per contenere l’indisciplina del lavoratori. Ma era necessario – si chiede Cesarotto - tornare alla disoccupazione diffusa per calmierare le pretese dei lavoratori? La sua risposta è no. Vediamo come egli la giustifica.
“Gli aumenti salariali – egli afferma – determinano inflazione, che comporta minore competitività con l’estero”; l’inflazione però “può essere accomodata con la flessibilità del cambio”. Ciò è stato quanto si praticava in Italia negli anni Settanta, in corrispondenza dei quali era massimo l’impegno dello Stato per conservare livelli occupativi i più alti possibile; ma i contro-riformisti nostrani, continua Cesarotto, quali “gli Andreatta, i Padoa-Schioppa, i Ciampi e i loro epigoni ex comunisti”, hanno preferito battere un’altra strada, ovvero hanno scelto di optare per un “regime dei cambi fissi con l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo nel 1979”. Questa decisione, combinata con il famoso “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 e con la liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha determinato l’”esplosione del debito pubblico italiano”. La conservazione del regime dei cambi fissi attraverso il crescente indebitamento pubblico ha inciso negativamente negli anni successivi sulla domanda aggregata e, quel che più conta, sull’andamento della produttività; in questo modo è stato possibile evitare il crollo dell’occupazione, attraverso il mancato miglioramento della produttività, posto a presidio della tutela dell’occupazione.
Il permanere di questa situazione di generalizzata inefficienza del sistema-Italia ha consentito di accertare “una possibile incompatibilità fra regime di cambi rigidamente fissi (associato al libero movimento di capitali) e democrazia”, e di trovare il suo “modello disciplinante” nell’adozione dell’euro. Una scelta, quest’ultima che, a parere di Cesarotto peserebbe “come una spada di Damocle sul passato e sul futuro della sinistra”; fatto del tutto ininfluente per gli italiani, se lo stato delle cose denunciato da Cesarotto non pesasse, quel che più conta, anche sul loro futuro.
Ad ogni buon conto, la situazione di empasse e di crisi in cui versa il Paese, secondo Cesarotto, non sarebbe irreversibile; infatti, essa potrebbe essere contrastata, se si riuscisse ad inaugurare una politica economica di stampo keynesiano, con la possibilità di “sostenere la domanda aggregata attraverso la politica di bilancio e la crescita dei salari senza incorrere nel vincolo estero – ovvero nella crescita delle importazioni e dell’indebitamento con l’estero”. Con l’euro, però, una politica economica di questa natura è praticamente impossibile. Restando dentro l’euro, l’attuazione di una politica kerynesiana, sul tipo di quella descritta, sarebbe possibile solo riformando l’Unione Economica e Monetaria Europea in senso progressista e ridistributico; ciò che ora è praticamente, essendo divenuta quasi assoluta l’egemonia dell’ordoliberismo. Il futuro che si prospetta per l’Italia in presenza dell’euro evoca solo, per Cesarotto, il prezzo di ulteriori vincoli, che possono solo rendere vana la “speranza di un riscatto economico e civile del nostro Paese”.
Esisterebbe, però un’”uscita di sicurezza” che gli italiani potrebbero decidere di “imboccare” per sottrarsi al cappio europeo: l’uscita dall’euro. Ora, a parte le difficoltà tecniche che questa decisione solleverebbe (ripristino della vecchia valuta e ridenominazione delle posizioni debitorie del Paese verso l’estero), fuori dalla moneta unica, una limitata svalutazione del cambio potrebbe risultare strumentale rispetto al sostegno della domanda globale interna, senza incorrere in eccessivi disavanzi con l’estero; sarebbe però necessario “un controllo stretto dei movimenti di capitale finanziario e dovrebbero essere adottate misure oculate di controllo delle importazioni”, più altro ancora; in ultima istanza, sarebbe necessario tornare al clima sociale proprio degli anni Settanta, caratterizzato dai persistenti conflitti sociali originati da una politica economica caratterizzata dalla continua instabilità economica, per il succedersi di periodi di stagnazione con periodi di relativa ripresa (politica dello stop and go).
Questa situazione è resa ancora più probabile dal fatto che l’uscita dalla moneta unica porterebbe l’Italia, anche se dovesse continuare a fare parte dell’Unione Europea, ma fuori dall’Eurozona, ad entrare in un contesto internazionale “che potrebbe essere non solo sfavorevole al Keynesismo in un Paese solo, ma addirittura ostile”. In conclusione, una politica orientata al pieno impiego sarebbe possibile, se Italia fosse integrata in un’Europa con moneta comune organizzata istituzionalmente su basi federali; sarebbe alternativamente possibile – afferma Cesarotto – se l’Italia “decidesse di andare per proprio conto” e le fosse consentito di inserirsi in un contesto internazionale favorevole. Quest’ultima via, però, presupporrebbe “un coraggio politico e un sostegno popolare” che non è dato ipotizzare in un contesto sociale quale quello italiano, “flagellato” dagli esiti negativi delle Grande recessione dell’ultimo decennio.
Di conseguenza, per Cesarotto, lo stato economico e sociale dell’Italia promette solo un suo “declino sociale irreversibile”, nonché lo smarrimento della sua identità storica. Può darsi che a tutto questo, secondo lo stesso Cesarotto, la sinistra radicale guardi con “cinico favore”; quel che più deve preoccupare, però, è che la sinistra riformista incominci a riflettere sul fatto che ormai sono maturi i tempi per prendere atto che con le modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici divengono improponibili le politiche economiche finalizzate a rendere compatibile il pieno impiego con il miglioramento delle produttività dei fattori produttivi e il miglioramento della competitività; occorrono sforzi per andare oltre il pieno impiego e privilegiare, in sua vece, la riflessione sul come distribuire più convenientemente il prodotto sociale.

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