Per la centralità del Parlamento: vecchi mali e nuovi rimedi

3 Gennaio 2019
1 Commento


Andrea Pubusa

 

Da decenni è visibile un attacco al sistema parlamentare, su cui si fonda la nostra democrazia secondo la Costituzione. “Governabilità” è la parola d’ordine con cui, fino a ieri – da Craxi a Berlusconi e a Renzi – veniva giustificato il depotenziamento del Parlamento, che vuol dire onnipotenza della politica rispetto alla società, resa necessaria dalla sua impotenza e dalla sua subalternità ai poteri dei mercati.  “Ce le chiede l’Europa”, affermavano fino a ieri i nostri governanti a proposito delle riforme istituzionali da loro proposte. E’ vero: l’Europa e tramite l’Europa i mercati ci chiedevano l’involuzione autocratica delle nostre democrazie, necessaria perché i nostri governi abdichino al loro ruolo di governo dell’economia e della finanza e possano liberamente aggredire i diritti sociali e del lavoro dai quali dipendono la vita e la dignità dei cittadini. Funzionale a questa involuzione della nostra democrazia parlamentare era la legislazione elettorale maggioritaria (v. Italicum l. n. 52 del 6 maggio 2015), che enucleava un sistema autocratico nel quale i poteri politici si volevano interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di qualunque sistema presidenziale, per esempio di quello degli Stati Uniti, dove - come vediamo anche in qusti giorni -  è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del  Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Una democrazia parlamentare, invece, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire millimetricamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di  garantire costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di opposizione e di minoranza, si assicura la “centralità del Parlamento“. Grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale delle Camere, alla loro composizione pluralista e alla forza delle minoranze e delle opposizioni, viene assicurato il ruolo delle Assemblee di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare. La governabilità, ossia il depotenaimento della sovranità popolare a favore della sovranità dei mercati, questa è stata l’azione congiunta delle due controriforme (elettorale e costituzionale) perseguite da Matteo Renzi, in accordo con il suo progetto di mutamento in senso decisionista e populista del sistema politico. Del resto, nel momento in cui si è invertito il rapporto tra politica ed economia, non essendo più la politica a governare l’economia, diventa necessaria la semplificazione in senso autoritario del sistema politico.
Quel disegno è stato battuto il 4 dicembre 2016 e il 4 marzo scorso, ma finora, tra decreti-legge, leggi delegate e leggi di iniziativa governativa, gran parte (in passato fino al 90%!) della produzione legislativa è di fonte governativa. La  revisione intendeva costituzionalizzare e perfezionare questo processo di verticalizzazione e concentrazione dei poteri nell’esecutivo, al quale assegnava corsie privilegiate e tempi abbreviati – l’approvazione entro settanta giorni – per i disegni di legge “indicati come essenziali per l’attuazione del programma di governo”. Così fino a ieri, grazie alle mani libere dei governi, si è prodotto un sostanziale processo decostituente in materia di lavoro e di diritti sociali, con l’abbattimento di quell’ultima garanzia della stabilità dei rapporti di lavoro che era l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e con il venir meno della gratuità della sanità pubblica e la monetizzazione di farmaci e visite che pesa soprattutto sui poveri, al punto che ben 11 milioni di persone nel 2015 hanno dovuto rinunciare alle cure.
Ora bisogna dare atto a questa maggioranza di aver eliminato dal suo vocabolario il termine della “governabilità”, in passato declinata interamente a spese dei ceti più deboli. Non si parla più del Pil come sola misura della crescita e del benessere; si è formato, dopo circa un decennio un governo parlamentare contro la prassi degli esecutivi extraparlamentari di scelta presidenziale su placet UE. Occorre altresì prendere atto con soddisfazione che Conte nella conferenza di fine anno ha escluso con fermezza iniziative di revisione costituzionale da parte del governo. Conte, in sintonia col pensiero democratico sulla materia, ha ribadito che le modifiche della Carta devono nascere e svilupaprsi in sede parlamentare con le necessarie ampie condivisioni. Questi, sul piano istituzionale e al di là delle preferenze politiche, sono fatti positivi.
In questi primi convulsi mesi della nuova legislatura sono rimaste però le altre criticità che indeboliscono il Parlamento, specie l’abuso della fiducia e del voto a scatola chiusa, come è avvenuto in modo conclamato con la manovra. E’ positivo però che il Presidente Fico non neghi queste manchevolezze ed anzi parta esplicitamente da esse per proporre delle soluzioni. Ora, se si mette da parte il tifo da stadio e si bada a queste affermazioni con l’attenzione che meritano, dobbiamo ammettere che ci troviamo davanti ad un presidente della Camera consapevole della necessità di ridare centralità al Parlamento. E riconoscere la malattia è un buon punto di partenza per curarla.
Già Ingrao, indimenticato presidente della Camera negli anni 1975-79, in una Italia certo molto diversa da oggi, avanzò in un suo libro (”Crisi e riforma del Parlamento“, dialoghi con N. Bobbio e introduzione di L. Ferrajoli)  acute riflessioni sulla crisi del Parlamento. Ingrao metteva in luce come, prima degli anni ottanta, il Parlamento fosse davvero la sede di un confronto alto tra le forze politiche e, come spiega Ferrajoli nel suo saggio introduttivo, “lo fu perché le battaglie parlamentari erano tutte sorrette da grandi mobilitazioni popolari, quali espressioni politiche di altrettante lotte sociali”. Successivamente inizia invece quel processo di trasformazione che abbiamo sotto gli occhi e che Ingrao lucidamente avverte e denuncia: crisi della rappresentanza, crisi dei partiti, crisi della funzione legislativa del Parlamento, sempre più all’ombra dell’esecutivo, e lo scadimento dell’etica pubblica, accompagnato dalla crescita esponenziale della corruzione. Cosa propone Ingrao? Una seria riforma della macchina dello Stato e delle sue strutture ottocentesche attraverso monocameralismo perfettamente proporzionale, riduzione drastica del numero dei parlamentari, rafforzamento qualitativo dei poteri del Parlamento mediante l’espansione delle sue funzioni ispettive e di controllo, maggior collegamento delle istituzioni parlamentari con le istituzioni europee e con quelle regionali. Come allora osservò Norberto Bobbio, le sue proposte si muovevano in direzione esattamente opposta alla logica della governabilità che già cominciava a informare il dibattito politico. Ma rileggere Ingrao ora è importante perché indicava una chiave di volta per difendere la democrazia e la centralità del Parlamento: riabilitare in primo luogo la politica come azione collettiva e rifondare la rappresentanza sulla base di rinnovati radicamanenti sociali. Al Presidente Fico, mosso dalle stesse preoccupazioni di Ingrao, le riflessioni del suo illustre predecessore possono tornare utili. E tornano utili a quanti - come noi - intendono impegnarsi in questa battaglia di democrazia in prosecuzione dell’impegno per il NO al referendum del 2016.

1 commento

Lascia un commento