Gianfranco Sabattini

Gli alti tassi di disoccupazione e la crescente precarizzazione della forza lavoro sono giudicati, dagli economisti di gran parte degli schieramenti politici, non più sostenibili; la loro origine è individuata negli alti livelli di sicurezza sociale. La riduzione del welfare state o la sua riforma sono divenuti gli obiettivi il cui perseguimento è valutato strumentale rispetto al sostegno della crescita ed al contenimento della disoccupazione e della precarizzazione. L’ipotesi di riforma del welfare state più condivisa è fondata sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro attraverso la sua liberalizzazione.

Contro l’opportunità di una riforma del welfare state attuale si può sostenere che per affrontare i problemi posti dalle condizioni di funzionamento degli attuali sistemi sociali industrializzati è necessario definire un nuovo patto sociale che sostituisca quello che si è consolidato dopo la seconda guerra mondiale. Grazie a quel patto tra il capitale, la forza lavoro e lo Stato, tutta la forza lavoro ha fruito di un crescente livello di benessere. Le premesse su cui era fondato quell’assetto organizzativo del sistema sociale, però, sono cambiate; ora occorre istituzionalizzare una nuovo patto fondato sull’introduzione di un reddito minimo garantito (reddito minimo sociale o reddito di cittadinanza) da corrispondere incondizionatamente a tutti i disoccupati involontari, senza alcun controllo o vincolo riguardo alla sua utilizzazione.

Tutti i tentativi sinora sperimentati di introdurre la garanzia del reddito di cittadinanza non hanno mai avuto successo; sempre sono state privilegiate in sua vece modificazioni del vecchio sistema di sicurezza sociale. Il patto sociale sulla base del quale è stato costruito l’attuale welfare state risentiva del fatto che le proposte ridistributive con esso compatibili erano istituzionalizzate all’interno di sistemi sociali caratterizzati da ampie potenzialità di crescita; allo stato attuale, la crescita potenziale è stata sostituita da un livello di attività pressoché illimitato del quale dispongono tutti i sistemi sociali industriali. All’interno di questi, per conservare ed espandere ulteriormente i livelli di attività raggiunti occorre di continuo approfondirli capitalisticamente, contribuendo così a creare una disoccupazione non più congiunturale e temporanea, ma persistente e tendenzialmente crescente.

In presenza di queste condizioni di funzionamento dei moderni sistemi sociali industrializzati, la istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza incondizionato non ha solo lo scopo di garantire un reddito a tutti i disoccupati ed inoccupati involontari; esso ha anche lo scopo di consentire al settore delle famiglie di rilanciare la produzione di beni e servizi dei quali le famiglie erano nel passato i principali centri di produzione e di distribuzione. Un reddito di cittadinanza al quale siano assegnati questi scopi dovrebbe, tuttavia, essere istituzionalizzato in modo da rendere sempre possibile, per i disoccupati che lo preferissero, l’inserimento (o il reinserimento) nel mercato del lavoro tradizionale.

La corresponsione del reddito di cittadinanza non ha lo scopo di “sostenere” la domanda complessiva del sistema sociale; né ha quello di stimolare un puro e semplice maggior ruolo attivo del consumo del settore delle famiglie conseguente alle maggiori conoscenze specifiche delle quali disporrebbero oggi le famiglie, o della migliore organizzazione dei consumatori rispetto all’offerta dopo la crisi del fordismo, come vorrebbero gli studi di marketing. Non ha nemmeno lo scopo di sussidiare i cambiamenti nel comportamento del consumatore indotti dalla disponibilità di più alti livelli del reddito, né i cambiamenti indotti dalle innovazioni sociali originate dalla dinamica delle forme di produzione. Ha invece lo scopo di finanziare forme di consumo creativo, che, non più pilotato dall’offerta, fa esperienza della sua situazione esistenziale per contribuire a modificare la struttura produttiva del sistema sociale mediante il riorientamento del proprio tempo di lavoro; non per soddisfare, secondo esigenze che si collocano dal lato della domanda, un consumo divenuto più “sofisticato”, o più rispondente alla “fioritura” della vita umana, ma per soddisfare, secondo esigenze che si collocano dal lato dell’offerta, una maggior diversificazione della produzione in funzione dell’acquisizione continua di un reddito che le forme tradizionali di organizzazione della base produttiva ed il congiunto sistema di sicurezza sociale non sono più in grado di assicurare.

Negli ultimi tempi, non sono mancati contributi degni di nota per giustificare l’introduzione in Italia di un reddito di cittadinanza. Nicola Rossi (Meno ai padri, più ai figli, 1997), Pietro Ichino (I nullafacenti, 2007), Tito Boeri e Vincenzo Galasso (Contro i giovani, 2007), Luciano Gallino (Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, 2007) non sono che alcuni dei molti contributi sul problema generale del come dare una soluzione alla disoccupazione persistente ed alla precarizzazione. Tutte le proposte, però, riflettono il limite di ipotizzare un reddito di cittadinanza condizionato (con l’orientamento del reddito sociale al sostegno della domanda del sistema produttivo), per cui, direttamente o indirettamente, si omologano alle proposte dei critici più radicali dell’attuale sistema di sicurezza sociale (Alberto Alesina, Francesco Gavazzi, Goodbye Europa, 2006; Il Liberismo è di sinistra, 2007).

Si deve, però, osservare che tutte le proposte fatte per l’introdurre in Italia un reddito sociale sono fondate sulla logica cooperativa che sta a fondamento del funzionamento di ogni economia di mercato; non mancano, tuttavia, anche proposte che sono orientate a rimuovere i motivi della precarietà della forza lavoro attraverso il conflitto sociale (Fausto Bertinotti, “Produzione, riproduzione sociale e consumi. Qui nasce e può morire la precarietà contemporanea” in Alternative per il Socialismo, novembre 2007-gennaio 2008, n. 4 ). Queste ultime proposte assumono che la precarietà non sia un esito scontato e sia, invece, “il terreno della contesa, il nuovo terreno del conflitto di classe”. In queste proposte, perciò, il conflitto di classe diventa la “levatrice della storia” capace di condurre alla realizzazione di una nuova struttura istituzionale, alternativa a quella propria dell’economia di mercato.

L’assunto del conflitto non può costituire una realistica “via di uscita” dal problema delle disoccupazione e della precarizzazione, alternativa a quella possibile con l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza incondizionato. E’, tuttavia, possibile formulare una proposta non riconducibile a quelle proprie degli economisti neoliberisti, ma neppure all’idea che disoccupazione e precarizzazione possano essere rimosse attraverso il conflitto di classe. In luogo del conflitto, può essere conservato l’assunto della cooperazione, in quanto il conflitto sociale può essere fondatamente considerato un concetto inidoneo a risolvere complessivamente i problemi del mercato del lavoro di oggi. Il conflitto può essere sostituito dal rapporto collaborativo, quando questo non implichi, né una sua distorsione riduttiva, né un rafforzamento dell’antagonismo di classe, né il perpetuarsi di una permanente “rivoluzione passiva”; ma implichi, invece, una contrapposizione, sempre reciproca e dialettica, tra percettori di profitti percettori di salari, per trasformare, attraverso il coordinamento degli interessi dei due gruppi, l’accesso al prodotto sociale, non in una “distribuzione a somma zero”, ma in una “distribuzione a somma positiva”, in cui la “plusvalenza” costituisca l’arricchimento che segna il contributo alla dinamica sociale della collaborazione tra i gruppi sociali.

Tuttavia, il coordinamento degli interessi dei percettori di profitti con gli interessi dei percettori di salari coinvolge solo una parte della forza lavoro, con esclusione di quella parte che, non potendo partecipare direttamente alla formazione del prodotto sociale, non ha alcuna possibilità di acquisirne una quota. Il coinvolgimento della totalità della forza lavoro richiede l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza, inteso secondo le forme precedentemente indicate. Tuttavia, la soluzione del problema della disoccupazione e della precarizzazione, possibili con il reddito di cittadinanza, implicano il superamento dell’etica del lavoro così come è sempre stata intesa dalla tradizione. Il lavoro come diritto non è più “strumento” proponibile per risolvere i problemi del lavoro; il lavoro come diritto è un residuo individualistico di un sistema sociale ad economia di mercato afflitto da difficoltà di crescita e dalla necessità di conservarsi competitivo sul mercato internazionale.

Pertanto, per flessibilizzare il mercato del lavoro, occorre garantire un reddito anche a coloro che non siano riusciti ad acquisire un posto di lavoro stabile. A tal fine, una riorganizzazione del welfare state non può che implicare la rimozione di tutti trasferimenti sinora sperimentati a sostegno della disoccupazione involontaria. Con il “risparmio” così realizzato, dovrebbe essere testata la possibilità di determinare il livello del reddito di cittadinanza da corrispondere a tutti i disoccupati; il che significa, conseguentemente, che chi è in età di lavoro potrebbe essere “assorbito” o “espulso” dal mercato senza “ulteriori ammortizzatori”, perché diventerebbe automaticamente titolare di un reddito “minimo garantito”.

Ovviamente, la istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza così inteso richiede il rispetto di due condizioni: la prima, che l’insieme dei trasferimenti effettuati per la soluzione del problema della disoccupazione persistente sia utilizzato per il finanziamento del reddito di cittadinanza; la seconda, che il patto sociale, fondato sull’etica del lavoro e dunque sul diritto al lavoro, trovi nell’etica della solidarietà la giustificazione dell’assegnazione diretta del reddito sociale. In questo modo, diventa plausibile ipotizzare che sicurezza sociale, stabilità, crescita e sviluppo del sistema sociale possano così procedere di pari passo, senza la fideistica certezza che una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, in assenza di una stabile e continua sicurezza sociale, possa sortire l’esito del rilancio sia della crescita, che dello sviluppo.

2 Comments

2 commenti

  • 1 Democrazia Oggi - Per vincere, ripartire dal progetto
    9 Maggio 2008 - 06:10

    […] A queste righe accludo una riflessione sul tema del precariato e del reddito di cittadinanza (“LA PRECARIETA’ DEL LAVORO FORMA MODERNA DELLA POVERTA’”) che, per quanto a prima vista possa sembrare settoriale ed essere percepita come esito della […]

  • 2 Alberto Ghiro
    11 Marzo 2013 - 14:47

    La sostituzione degli attuali ammortizzatori sociali con il reddito di cittadinanza finanziato con risorse fiscali anziché retributive, secondo me, sarebbe il primo passo per una completa attuazione del reddito di cittadinanza. I benefici sarebbero oltre al sostegno di un mercato del lavoro precario anche un alleggerimento dell’onerosità del fattore lavoro. Rafforzerebbe anche il principio di equità se sostituito con imposte di tipo progressivo.
    Il reddito di cittadinanza nella sua attuazione più completa dovrebbe sostituire oltre agli strumenti di tipo assistenziale anche quelli di tipo previdenziale. Ormai il continuo allungamento dell’età pensionabile è una coperta sempre più corta che continua a peggiorare il dilemma della disoccupazione giovanile. Per non parlare dell’ormai diffusa opinione che l’età per andare in pensione è sempre più insoddisfacente o addirittura “inarrivabile” per buona parte dei lavoratori. Non è meglio anticipare la rendita pensionistica spalmandola nel corso della vita del cittadino? Un reddito minino vitale (o anche inferiore) aggiunto a quello di chi non lavora ma anche di chi lavora permetterebbe di gestire meglio l’iter lavorativo e le risorse finanziarie. I fondi pensione che sono già stati istituzionalizzati (con le giuste critiche) ma corretti con una maggiore libertà di scelta, consentirebbero di mantenere la rendita pensionistica per gli anni di diminuzione di efficienza lavorativa. E’ questo, secondo me, l’unico modo sensato di affrontare il discorso e comunque resterebbe sempre il traguardo cui puntare per realizzare riforme sensate per uscire dall’ormai perdurante e durevole stato di crisi che ci vede in balia della globalizzazione sia economica che finanziaria.

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