La sfida della decrescita

4 Gennaio 2010
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Gianluca Scroccu

Il presidente statunitense Barack Obama, parlando del suo new deal verde, l’ha ribadito anche dopo il deludente vertice di Copenaghen: «È tempo per l’America di condurre la lotta ai cambiamenti climatici». La sfida della lotta contro il global warming e per la creazione di un nuovo modello di società mondiale è realmente quella centrale dei prossimi anni.
Appare quindi particolarmente utile la lettura dell’edizione economica del bel libro di Pietro Bevilacqua “Miseria dello Sviluppo” (Laterza, pp. 257, € 8,50). L’autore, storico dell’età contemporanea ed autore di importanti lavori sulla storia della agricoltura e sulla metodologia storica, ricostruisce in questo volume, che si segnala anche per la ricchezza dei dati e la ricca bibliografia, le vicende che hanno portato alla fine dell’idea di sviluppo per come si è concretizzata negli ultimi cinquant’anni, e che la recente crisi economica mondiale ha rivelato in tutta la sua complessità. Oggi non esiste nessun politico che possa evitare di inserire nella propria agenda di governo le questioni della salvaguardia dell’ambiente in una posizione prioritaria, parlando così della necessità di incrementare le energie alternative e di valorizzare il territorio tramite la diffusione di un’agricoltura non asservita alle logiche della mera quantità della produzione ma capace di favorire la qualità dei prodotti e delle colture locali.
Per fare questo, scrive Bevilacqua, è necessario che la politica sappia attuare un vero rovesciamento delle sue chiavi interpretative della società ricostruendo sistemi democratici e annullando le logiche della privatizzazioni senza respiro e della deregolamentazione dei servizi pubblici, anche ipotizzando politiche di decrescita. E questo dopo anni in cui l’economia neoliberista ha sostanzialmente guidato la scena mondiale, decretando di fatto un arretramento generale dei livelli democratici anche in Occidente e causando una concentrazione sempre maggiore delle ricchezze verso l’alto e la cancellazione di ogni tipo di ascesa sociale che si ripercuote in particolare sui paesi del Terzo Mondo.
La frantumazione della società sarebbe del resto una conseguenza della concezione del lavoro derubricato a merce e sacrificato al profitto immediato, logica contro la quale lo storico auspica l’adozione di un protocollo internazionale che ostacoli lo sfruttamento dei popoli più poveri da parte delle multinazionali e, contemporaneamente, svuoti il potere di ricatto che queste stesse imprese esercitano nei confronti dei lavoratori nelle nostre società. Su questo si innesta la crisi della politica, con partiti sempre più asserviti alle logiche del marketing e che si sono ridotti a vendere il proprio prodotto politico agli elettori oramai sempre più “consumatori” di appuntamenti elettorali, annullando di fatto la partecipazione politica tra un’elezione e l’altra e spezzando l’impianto solidaristico comunitario che dovrebbe regolare la vita sociale, a partire dai livelli amministrativi comunali. Ma non c’è solo la crisi della politica da risolvere: l’autore è convinto che il cambiamento parte in primo luogo da noi stessi. Ad iniziare dalla nostra quotidianità, dal nostro modo di consumare o di muoverci nelle nostre città e di vivere così il nostro rapporto con gli altri e con la natura. Saprà l’uomo del XXI secolo rifiutare l’attuale modello di sviluppo oramai insostenibile concependo l’economia come strumento per ottenere il benessere della società e ricreando le fondamenta per un nuovo rapporto di armonia con l’ambiente sulla base di un ordine mondiale oramai sempre più transnazionale ed interdipendente?

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