Macché sviluppo senza fine! Meglio l’economia giusta

5 Ottobre 2010
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Gianluca Scroccu

Ehi, c’è qualcuno là fuori che si ricorda della New Economy, e dei suoi successi?” Così scrive l’indimenticato Edmondo Berselli nel suo pamphlet postumo L’economia giusta (Einaudi, pp. 100, € 10). Un libro scritto durante la malattia ma non per questo meno lucido e profondo. Un’analisi senza sconti dei guasti prodotti dal neoliberismo e dall’insana idea che abbassare le tasse, ridurre i salari, deregolamentare in maniera selvaggia le forme contrattuali potesse garantire un benessere senza limiti per tutti. Tutto ciò ha invece creato una società pericolosamente piramidale, dove è sparito il concetto stesso di redistribuzione e pochi si sono arricchiti in maniera scandalosa, specie nel settore finanziario, facendo franare quel ceto medio allargato che aveva finito per coinvolgere anche gli operai capaci, coi loro salari, di assaporare i vantaggi della società dei consumi. Non bisogna stupirsi se oggi un manager guadagna quattrocento volte il salario di un operaio, mentre negli anni Settanta solo trenta volte in più.
Una riflessione amara che investe prima di tutto la sinistra e soprattutto quella del nostro Paese, con il passaggio troppo rapido dall’utopia comunista alla sostanziale passività verso i modelli di capitalismo finanziario impostisi negli ultimi vent’anni senza che rimanesse vivo un pensiero critico ma riformatore, alieno da sentimenti vanamente nostalgici . Dove sarebbe l’Italia, scrive l’autore, senza il suo modello di economia sociale di mercato creato nei primi quattro decenni della Repubblica che, pur tra corruzioni e gravi inadempienze, oggi è il lascito più importante che ha impedito la catastrofe sociale degli italiani, ad esempio attraverso le pensioni di nonni e genitori che vengono in aiuto dei trentenni cancellati dalla precarizzazione? Per questo servirebbe, nota Berselli, ripensare a quel modello di redistribuzione realizzato dalle democrazie cristiano-sociali e socialdemocratiche che si resero protagoniste dell’espansione del welfare negli anni Sessanta e Settanta. Discorso sempre più attuale nel momento in cui il dogma del “fare soldi con i soldi” attraverso le speculazione finanziaria senza regole ha fatto breccia anche nella sinistra, come dimostrano le stagioni del blairismo, dove è praticamente sparita ogni critica costruttiva al mercato selvaggio. Non è un caso che alcune delle valutazioni più profonde verso questo modello economico sbagliato siano venute dal mondo cristiano e che l’autore riprenda passi importanti di un’enciclica come la Caritas in veritate di Benedetto XVI, dove è esplicito l’ammonimento contro un capitalismo incapace di creare e garantire capitale sociale conservando finalità morali. Per questo è necessario ritornare ad un’economia non basata sul virtuale ma sulla concretezza della produzione e capace di guardare nel lungo periodo, anche per contrastare le economie emergenti di paesi quali Cina, India e Brasile. Senza una riflessione adeguata su queste tematiche il rischio è che si affermi sempre di più un modello populista che potrebbe diventare, come in parte sta già accadendo, la risposta più semplice per quel ceto medio impoverito ed impaurito da una crisi che appare senza fine e sempre più minacciosa. Sarebbe meglio, scrive Berselli, iniziare ad abituarsi alla fine del mito della “crescita senza fine” e ripensare la nostra vita con la consapevolezza che, vista la contingenza storica, dovremo abituarci ad essere anche più poveri e a consumare di meno per ricostruire quei tessuti connettivi di una società che appare sempre più in disfacimento e dove i cittadini rischiano di non avere più punti di riferimento istituzionali e politici.

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