L’avvento della moltitudine al potere nell’analisi di Hardt e Negri

4 Ottobre 2010
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Gianfranco Sabattini

Di recente Michael Hardt e Antonio Negri hanno portato avanti, forse ultimandola, l’analisi della crisi dei sistemi sociali moderni, che, secondo loro, sarebbe causata dalla dominanza del mercato e dalla dittatura del capitale. L’analisi iniziata con “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2002)”, in cui si analizzava la formazione della supremazia internazionale del mercato e del capitale, proseguita con “Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (2004)”, in cui si considerava la scaturigine di una nuova soggettività onnicomprensiva tendente a trascendere sia il mercato che il capitale, è chiusa oggi con “Comune. Oltre il privato e il pubblico (2010)”. Qui è tracciata la transizione verso la “presa del potere” da parte di una nuova soggettività. L’intera analisi è pervasa da una forma estrema di fideismo nell’orientamento teleologico dello spontaneismo con cui la Moltitudine si starebbe incamminando verso il suo farsi Principe. Della “bontà” degli esiti del fideismo di Hardt e Negri è lecito dubitare, considerato che il loro fideismo nello spontaneismo conduce alla teorizzazione dell’”antipolitica”. Cioè alla deresponsabilizzazione dell’uomo nel governo del proprio sviluppo e del rispetto della propria dignità.
L’analisi di Hardt e Negri appare, sul piano della proponibilità politica ed economica, sostanzialmente sterile, a causa dei limiti e delle insufficienze metodologiche che, da molti punti di vista, presenta. Appaiono evidenti soprattutto i limiti e le insufficienze metodologiche propri dello storicismo. Secondo l’analisi di Hardt e Negri, in accordo con lo storicismo, i motivi della crisi del processo di modernizzazione dei sistemi sociali attuali costituiscono tutti insieme le forze che determinano l’evoluzione di tali sistemi; ma questa evoluzione non può essere intesa secondo un piano redatto intenzionalmente in anticipo. Questo aspetto dello storicismo implica la deresponsabilizzazione di tutte le componenti soggettive del sistema sociale. Queste, infatti, diventano i recapiti necessari, ma passivi, degli esiti del processo storico. Partendo da quest’ultima osservazione, si può allora dire che l’analisi dei fenomeni politici ed economici condotta secondo la prospettiva propria dello storicismo rimuove ogni forma di impegno razionale, individuale o di gruppo, nei confronti dello stato attuale di ogni singolo sistema socioeconomico, o, in generale, del mondo intero. In questo modo, alla razionalità è riservata la funzione di porre in essere politiche attive nei confronti del processo evolutivo, alla sola condizione che siano omogenee rispetto al telos ad esso intrinseco.
In realtà, gli analisti ottimisti del processo storico che affidano le loro predizioni messianiche alla prospettiva metodologica dello storicismo sono solo protagonisti di un atto di fede. Una fede che li spinge a credere che alla ragione sia negata la possibilità di realizzare un mondo migliore rispetto a quello materializzatosi nel passato. In conseguenza di ciò, se l’osservazione del processo storico evidenzia l’imminenza di mutamenti, come quelli ipotizzati sulla base di un atto di fede, allora l’osservazione del processo storico e le misure di governo dei mutamenti sono ragionevoli. Se, invece, i mutamenti tendono ad assumere una forma diversa da quelli compatibili con l’atto di fede, allora l’osservazione del processo storico e le eventuali misure per il governo dei mutamenti sono irragionevoli.
Fuori dalla suggestione di ogni previsione di natura fideistica, il processo di modernizzazione più condivisibile dei sistemi sociali è sicuramente quello col quale il governo della transizione dell’umanità verso la costituzione di un mercato mondiale regolato a misura del rispetto dell’uomo e della sua dignità è riconducibile alla responsabilità ed alla razionalità di chi tale transizione deve governare. Ciò significa che, pur in presenza delle pretese egemoniche del capitale, il valore della ragione può fondatamente consentire il superamento di tali pretese, per pervenire, a livello di rapporti tra i singoli soggetti e tra i singoli popoli, ad una sempre più estesa capacità di governo del mercato e della società mondiali da parte della moltitudine.
Chi, come Hardt e Negri, da posizioni fideistiche, ipotizza che il bene futuro dell’umanità possa essere l’esito della dinamica spontanea dei sistemi sociali, teorizza solo dell’”antipolitica”. Di questa si avvalgono esclusivamente i sostenitori della globalizzazione, i quali, sullo spontaneismo dei fatti sociali ed economici e sul governo della contingenza in assenza dello Stato fondano la costruzione del proprio dominio. E’ questa, a ben considerare, la ragione del successo editoriale delle “fatiche” di Hardt e Negri; successo, questo, riscosso soprattutto presso quei gruppi, dominanti all’interno del mercato internazionale, che mistificano la rimozione del mercato e del suo potere regolatorio dietro la rimozione dello Stato, col preciso intento di accrescere senza limiti la dominanza del capitale sulla moltitudine.

1 commento

  • 1 aldo lobina
    4 Ottobre 2010 - 15:59

    Saremmo di fronte ad un fatalismo che nega la libertà dell’Uomo di essere fabbro del suo destino, servo solo della sua libertà, che è la ragione.
    Non è evocata con quelle tesi solo l’anti - politica, ma l’idea mostruosa di un minotauro e di un labirinto che l’uomo saprà sconfiggere, finché rimarrà uomo, capace di intelligenza analitica ed emotiva ed, aggiungo io, di fede in se stesso e in Dio.

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