Ma conviene morire per l’euro?

6 Novembre 2011
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Galapagos - Il Manifesto del 2.11.2011

Sono tante le ricette contro la crisi. Ecco quella di Galapagos, alias Toberto Tesi, fin dalla fondazione commentatore economico de Il Manifesto.

«È l’Italia la vera bomba a orologeria», sostenne Hans-Olaf Herkel in una intervista all’Espresso un mese fa. L’ex presidente della Confindustria tedesca non è un pasionario dell’euro (giudicato «un folle kamikaze») e da sempre è critico verso la moneta unica, ma con argomentazioni serie e non alla Berlusconi. Togliere la sovranità monetaria alle banche centrali avrebbe potuto funzionare - seppure lentamente - se si fosse realizzato un livellamento di produttività tra i vari stati. Ovvero se un po’ per volta chi esportava troppo avesse ridotto il proprio export e chi, invece, esportava poco fosse stato in grado di aumentare la propria competitività. Ma non è accaduto.
Certo le condizioni di fondo dei paesi in crisi sono diverse: l’Italia non è la Grecia, la Spagna o il Portogallo, ma la struttura produttiva è rimasta parzialmente arretrata e dicotomica.
Un tempo per sostenere l’arrivo dell’euro molti (anche a sinistra) sostenevano: l’Italia senza la possibilità di manovrare la lira sarà costretta a investire per aumentare il contenuto tecnologico delle proprie merci. Il ragionamento non fa una piega, ma non è successo: l’euro ha fatto il suo esordio - nel 2002 - con Berlusconi al governo e gli unici effetti che ha prodotto sono stati avvertiti sul sistema dei prezzi e non su quello dell’innovazione tecnologica. Al contrario si è cercato di riprodurre un sistema vecchio che cercava la competitività solo tentando di strizzare ulteriormente i salari. Detto un po’ più elegantemente, si è puntato quasi unicamente su tecnologie di processo sottraendo potere d’acquisto al salario nella vana speranza di agguantare o non perdere ulteriore terreno sulle merci prodotte dai paesi a basso costo del lavoro.
La mancata crescita (quantitativa e soprattutto qualitativa) ha prodotto tutto il resto, a cominciare da quello che ha combinato Tremonti: è riuscito in poco più di tre anni a far crescere il debito pubblico di oltre 250 miliardi senza stanziare un centesimo a favore dei redditi più bassi o dell’innovazione delle imprese. Insomma, la crisi viene da lontano, anche se tutto è filato liscio o quasi fino a quando non ci sono state tensioni sui debiti sovrani. Certo, la mancanza di fiducia è una componente essenziale della crisi finanziaria dell’Italia e sicuramente ha ragione Nouriel Roubini, l’unico economista che aveva anticipato la crisi del 2008, quando sostiene che basterebbero le dimissioni di Berlusconi per ridurre di un punto lo spread tra Btp e Bund tedeschi. Ma l’operazione fiducia, da sola, non basta: è necessaria, ma non sufficiente. Il punto di partenza è un altro: ha ancora senso che l’Italia rimanga prigioniera dell’euro?
L’uscita dalla moneta comune è una mossa disperata. E disperata è la mossa (tardiva) di Papandreou di chiedere (finalmente) al popolo greco (al quale per legge ha imposto di tutto, meno che la giustizia sociale) che cosa preferisce fare [il referendum però non si terrà, a seguito del diktat di Parigi e berlino - NDR]. In Italia i sacrifici che saremo chiamati a fare (in parte già li stiamo pagando) in caso di permanenza nell’euro non sarebbero inferiori a quelli imposti ai greci. Attenzione: non sto sostenendo “chi se ne frega del debito”, ma che non c’è garanzia che dai sacrifici imposti possa sbocciare un nuovo fiore, uno sviluppo armonico in grado di eliminare (o ridurre) le sperequazioni nella distribuzione dei redditi, dando il via a una nuova stagione che - banale dirlo - dovrebbe mettere al centro le persone. Insomma, serve una svolta: purtroppo non può arrivare solo dalle dimissioni di Berlusconi, Tremonti e Frattini e dalla nascita di un governo tecnico. Anche se è sicuro che se ne debbono andare per manifesta “incapacità”.
Da settimane si discute (tra gli economisti) di quale sia il punto di “non ritorno” per il debito pubblico. L’esperienza ha insegnato che quel punto (che precede il default di un paese) si tocca quando i tassi dei bond decennali toccano il 7%. Ovviamente si tratta di una percentuale relativa: in altri tempi i tassi di interesse dell’Italia hanno sfiorato il 20%. Ma la condizione era diversa e la Banca d’Italia sovrana negli aggiustamenti della lira.
Oggi via Nazionale (dispiace per il neo governatore Ignazio Visco, entrato in carica ieri nel giorno più duro per l’Italia) non è più sovrana. E probabilmente non lo è neppure la Bce, nella quale ieri fatto il suo esordio Mario Draghi. Può sembrare una contraddizione sostenere la mancanza di sovranità della Bce, ma non lo è: la Banca centrale europea, infatti, è troppo legata all’unicità dei suoi obiettivi (la lotta all’inflazione) e limitata dalla mancanza di un governo europeo che, nel rispetto della sua autonomia, la sappia coinvolgere in una pluralità di obiettivi. Cosa che, a volte, ora accade, ma solo quando arrivano i ricatti di Sarkozy o quelli della Merkel.
Berlusconi nelle sue dichiarazioni è spesso inopportuno, ma la sua accusa all’euro per certi versi non era fessa. L’euro ha prodotto alcuni ottimi risultati, ma ha anche distrutto l’autonomia degli stati che - da sempre - vedeva al primo posto il principio del “battere moneta”. Oggi siamo al punto di svolta: morire per l’euro non conviene. Soprattutto se le ricette imposte dal contesto internazionale ricalcano quelle prescritte alla Grecia. Insomma, non si può morire per la maggior gloria della salvezza delle banche e del profitto.

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