Gli italiani sono più ricchi dei tedeschi?

8 Giugno 2013
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Gianfranco Sabattini

Di recente sono stati pubblicati i dati armonizzati relativi alla prima indagine sui bilanci delle famiglie dei Paesi dell’eurozona, realizzata dalla Banca Centrale Europea con la collaborazione di 15 banche centrali; i dati concernenti il nostro Paese sono stati messi a punto da Bankitalia. Le informazioni che emergono dall’indagine possono sembrare, a prima vista, sorprendenti; un’attenta riflessione porta, però, almeno dal punto di vista economico, a conclusioni meno eclatanti e, perciò, meritorie, soprattutto per chi sarà chiamato a governare il nostro Paese, di attenta considerazione.
La sorpresa, sottolineata da alcuni, è che dall’indagine della BCE risulterebbe che gli italiani, anche se guadagnano meno, sono più indebitati ed includono la presenza tra loro di un’alta percentuale di famiglie in stato di povertà, sarebbero più ricchi dei tedeschi. La lettura superficiale dei dati non è però veritiera. Sulla base di questo tipo di lettura, il confronto, in termini di ricchezza, vede le famiglie italiane ai vertici dell’eurozona per il patrimonio accumulato nel passato e tra le ultime per il reddito. Le differenze permangano, pur in termini più affievoliti, se si passa, per fare un confronto più realistico tra i Paesi dell’Unione Europea, ai valori pro-capite; a livello individuale, è così possibile constatare che la ricchezza degli italiani, pari a 108.700 euro, supera di poco quella dei francesi (104.100) e quella dei tedeschi (95.500), mentre, in termini di reddito corrente, l’Italia si colloca nella parte bassa della classifica, occupando il nono posto su quindici, con una presenza, già nel 2010, di una percentuale di poveri elevata (16,5%), superiore a quella degli altri grandi Paesi di Eurolandia, dove il numero dei poveri rispetto all’intera popolazione oscillava tra l’8,9% delle Francia e il 13,4% della Germania.
Questo dato negativo diventa ancora di più significativo se i confronti interindividuali sono effettuati in termini di reddito corrente pro-capire, “armonizzato” rispetto alla diversa composizione dei nuclei familiari; il reddito pro-capite equivalente di ogni famiglia italiana sfiora i 20.000 euro l’anno, al di sotto della media europea (23.000 euro) e nettamente al di sotto delle media tedesca (28.230). Se si considera che l’indagine della BCE è stata condotta su dati aggiornati al 2010 e si considera anche come sono andate le cose nel nostro Paese negli ultimi anni e si tiene conto della caduta del reddito e della propensione al risparmio, l’idea che gli italiani siano ricchi a fronte dei tedeschi poveri acquista tutta la sua pregnanza ironica.
Sebbene lo studio della BCE chiarisca che la lettura delle “statistiche rozze” non esprimono fedelmente la realtà economica e sociale dei singoli Paesi, esso però non spiega perché hanno torto i conservatori tedeschi quando si oppongono a qualsiasi forma di solidarietà nei confronti di quei Paesi che, come l’Italia, si trovano in una fase di evidente crisi, a causa dell’eccessiva posizione debitoria dei loro conti pubblici; ed insistano, perciò, perché tali Paesi, considerati mediamente più ricchi della Germania, provvedano da loro ai deficit dei loro conti pubblici. Ai conservatori tedeschi non viene ricordato, né il contributo dei Paesi presunti ricchi come l’Italia alla creazione del Mercato unico europeo in funzione del processo di divisione delle aree d’influenza a livello mondiale anteriormente al 2008, processo che ha visto la Germania, assieme alla Francia, in posizione egemone rispetto agli altri Paesi dell’eurozona; né le conseguenze che, alla lunga, ha sul reddito il peso di una bassa ricchezza accumulata, per via di errate scelte di politica economica interna.
I tedeschi dovrebbero rendersi conto che la loro eccessiva propensione alla stabilità economica li porta ad accettare tassi d’interesse molto bassi sui loro risparmi che comprimono l’accumulazione della ricchezza, senza accorgersi che, nel lungo periodo, l’obiettivo della stabilità perseguito ad ogni costo riduce, anziché aumentare, il risparmio accumulato; ciò perché, il denaro a basso costo motiva il pubblico ad indebitarsi, ma alla fine, a fronte dei debiti che aumentano, la ricchezza accumulata diminuisce, o aumenta molto lentamente; fenomeno, questo, che se trascurato finisce col segnalare una crisi futura certa dell’economia reale. Forse, il contrario si è verificato e continua a verificarsi in Italia, dove, da un lato, l’imprenditorialità finanziaria (il sistema del credito) ha privilegiato il finanziamento delle privatizzazioni dei beni dello Stato preferendo rimunerazioni da servizi resi alle imprese che scalavano, anziché rimunerazioni derivanti dal credito concesso per il finanziamento di investimenti produttivi; dall’altro, l’imprenditorialità reale ha privilegiato le rimunerazioni da rendite patrimoniali, anziché da profitti, assumendo così un carattere parassitario. Da questa imprenditorialità, sia finanziaria che reale, non c’è certo da attendersi positivi contributi alla soluzione della crisi che grava da tempo sul Paese.
Stando così le cose, c’è solo da augurarsi che i tedeschi si liberino dalla loro “sindrome da stabilità”, cessando di lamentarsi della presunta maggior ricchezza della quale disporrebbero i Paesi comunitari poco virtuosi, ed inizino a “rimproverare” quegli operatori economici degli altri Paesi d’essere poco pervasi da spirito imprenditoriale. Fatto quest’ultimo, che se, per un verso, può giustificare l’invito rivolto ai tedeschi perché formulino meglio le ragioni delle loro lamentazioni; per un altro, è motivo sufficiente perché nell’agenda del prossimo governo italiano entri a farne parte l’urgenza di rilanciare la “propensione al rischio” dell’asfittica imprenditorialità di casa nostra.

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