Indennità, chi decide? Questo è il problema

15 Maggio 2014
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Emanuele Pes

Martedì abbiamo pubblicato un articolo prospettando una giuria popolare per concorrere col Consiglio regionale alla deliberazione di indennità e trattamento dei consiglieri regionali. Ecco un intervento che sottolinea gli aspetti problematici della questione.

Concordo assolutamente sul fatto che gli strumenti di partecipazione democratica dei cittadini possono dare una risposta, e forse non solo in questo caso. E magari anche la sola trasparenza e pubblicità sarebbero risolutive. Però quando una materia è così delicata, e lo è per una questione di giustizia anche al di là del suo valore in termini di risorse, e richiama la necessità di un altro canale di espressione popolare per venire in qualche modo a capo della questione, cioè ottenere una legittimità sociale e condivisa degli emolumenti e dei trattamenti pensionistici legati, non vuol dire che la questione è molto più profonda e investe la rappresentanza generale dell’organo legislativo in tutti i suoi campi? E’ in primo luogo la situazione economica e sociale che fa emergere l’ingiustizia. Ma la condizione delle assemblee elette in Italia la rende più acuta. Nel caso nostro, un Consiglio eletto con maggioritario, soglie di sbarramento, altissima astensione e equilibrio di genere inesistente che autorevolezza concreta può avere? se non quella astratta, che difendiamo in attesa di migliori condizioni democratiche. E se questa crisi di rappresentanza non è contingente e non è transitoria? se non riguardasse solo i “soldi”? se trovasse nei “soldi” l’espressione di un dissenso più radicale nei confronti delle forme attuali della democrazia? Non sono grillino, ovviamente. Però gli aspetti della proposta del M5S sono significativi (e comunque lasceranno un segno). Il M5S propone un drastico ridimensionamento dei compensi agli eletti, ma anche elementi di vincolo di mandato. Le due cose in effetti non sono slegate. Perché se è vero che il cumulo di stipendi di cariche politiche ha in Italia una consolidata tradizione “pre-repubblicana” è anche vero che la libertà dell’eletto e il divieto di mandato imperativo per essere concreti devono avere un sostegno materiale congruo. Anche così non è possibile evitare compravendite di parlamentari, o la subordinazione della funzione della rappresentanza generale a interessi economici privati. Diversamente, però, il “prezzo di mercato” di un parlamentare sarebbe molto meno oneroso. La proposta del Movimento ha senso perché, col vincolo di mandato o con elementi di vincolo, restringe la necessità dell’emolumento alla accessibilità democratica e alla dignità della funzione. Come praticamente si sta dimostrando che si può fare, e come in passato, per altri versi, ha dimostrato il PCI e altre formazioni di sinistra parlamentare che imponevano il versamento di quote degli emolumenti non solo per autofinanziamento, ma anche con finalità educative e “suntuarie”. Anche io preferirei che fossero i consiglieri ad autodeterminare il loro compenso. Infatti un po’ biecamente mi chiedevo se in qualche modo non fosse stato possibile intervenire sulla tassazione piuttosto che sulla determinazione di stipendi e pensioni, ma mi rendo conto che è una fesseria. Sarei perché questa facoltà di decidere sul proprio stipendio sia mantenuta, in ultima istanza perché mi sembra che dobbiamo ancora concepire la possibilità di costruire una società nella quale tutti ci possiamo autodeterminare. Ma sono molto ingenuo. In penultima istanza, sempre molto ingenuamente, perché all’assemblea rappresentativa del popolo sardo sia riconosciuta perfino una completa “autodichia”. Mi si dirà: ma ti sembra il caso? eh, già…
Ho appunto questo dubbio sulla Giuria popolare, che lo stesso compagno Pubusa anticipa quando sottolinea l’eccezionalità di questa soluzione. Non c’è il rischio che la sigla di una sorta di “riconciliazione” tra comunità politica e rappresentanza istituzionale che avviene attraverso l’approvazione dello stipendio, costituisca una sorta di dualismo, anche se simbolico e momentaneo, che potrebbe finire coll’operare sia al di fuori della democrazia diretta che della democrazia rappresentativa. Non si potrebbe anche prevedere che partiti e coalizioni, al momento di depositare formalmente le sottoscrizioni alle liste per le elezioni, alleghino non solo il programma del candidato Presidente (che rappresenta un impegno di natura politica) ma anche la loro proposta di stipendio per la legislatura? con una adeguata pubblicizzazione, cosicché i cittadini abbiano gli elementi per esprimersi, col voto alla lista, anche sulla definizione degli stipendi. L’espressione, a quel punto, proverrebbe direttamente dal corpo elettorale, contestualmente e legata all’elezione dei propri rappresentanti. Il problema sarebbe che un’indicazione di questo genere non può essere vincolante. Rimarrebbe puramente programmatica. E se l’organo popolare costituito con sorteggio intervenisse in questa fase, dopo un’indicazione programmatico-elettorale?
Ad ogni modo, quantomeno il criterio della pubblicità deve essere adottato e può essere esteso al finanziamento ai partiti e ai gruppi, per la pubblicità e la tracciabilità delle spese. Non sarebbe eversivo. Perché sono comunque soldi pubblici e se da un lato bisogna tutelare una seria discrezionalità politica della spesa, è comunque necessario lasciare ai cittadini per intero il diritto/dovere di giudicarla, criticarla o approvarla alle elezioni. O anche, se in futuro si dovesse orientare il senso della rappresentanza verso un vincolo più stretto nei confronti degli elettori, attraverso l’indicazione nelle urne e/o un cosiddetto popular recall.
Grazie per avere aperto la discussione.

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