Partito schermo del comitato d’affari

7 Dicembre 2014
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Continuiamo la rilfessione sulla natura attuale del  malaffare con questo editoriale apparso su Il Manifesto.

Il senso poli­tico dell’inchiesta di Roma è piut­to­sto tra­spa­rente. Al di là dei risvolti penali della vicenda, affiora una radio­gra­fia impie­tosa delle ten­denze dege­ne­ra­tive che da tempo scon­vol­gono la vita poli­tica in Ita­lia. Nel depe­ri­mento di una poli­tica orga­niz­zata e dal forte pro­filo iden­ti­ta­rio, ope­rano nelle città degli scal­tri comi­tati d’affare. L’elezione diretta di una carica mono­cra­tica, e la gestione di ingenti flussi di denaro ancora in dota­zione alle ammi­ni­stra­zioni, sug­ge­ri­scono ai poteri occulti di inve­stire con spre­giu­di­ca­tezza per deci­dere l’orientamento e la com­po­si­zione dei ceti politici.
Il pre­si­den­zia­li­smo muni­ci­pale, con­giunto allo spe­gni­mento delle forme di una vita di base par­te­ci­pata, ha appro­fon­dito il peso delle risorse pri­vate nelle car­riere poli­ti­che, nella ado­zione delle poli­ti­che urba­ni­sti­che, ambien­tali, dei servizi.
Emerge la scis­sione tra una poli­tica dell’apparenza, dove pre­do­mi­nano la per­so­na­liz­za­zione della lea­der­ship e i richiami alla mito­lo­gia della società civile, e una trama più invi­si­bile di influenza che vede l’attivismo di comi­tati e cric­che che gesti­scono appalti, fondi, nomine.
Non solo per diven­tare sin­daco «unto dal popolo», ma anche per con­qui­stare un seg­gio in con­si­glio, ser­vono denaro, soste­gno media­tico, con­tatti stra­te­gici per vin­cere la grande bat­ta­glia delle pre­fe­renze. E il seg­gio vale come base sicura per accu­mu­lare una visi­bile potenza pri­vata, utile nelle sedi della con­trat­ta­zione. Il pac­chetto delle tes­sere, e la dota­zione di pre­fe­renze sta­bili da spo­stare anche in soc­corso di can­di­dati amici sono una risorsa pre­ziosa da far valere nel momento della defi­ni­zione delle liste per il par­la­mento o la regione.
La poli­tica senza par­titi strut­tu­rati e codici ideo­lo­gici di rife­ri­mento è sem­pre più appan­nag­gio di potenze pri­vate. Le pri­ma­rie, inven­tate come rito iper­de­mo­cra­tico, in realtà non fanno che ampli­fi­care la rile­vanza di denaro e media nella sele­zione delle classi poli­ti­che locali e nazio­nali. I gazebo impon­gono ruvidi cal­coli di inte­resse che stra­paz­zano ogni valu­ta­zione poli­tica affi­data ai mili­tanti, agli iscritti.
I non-partiti leg­geri, liquidi, estro­versi, in nome dello scet­tro da resti­tuire agli elet­tori sovrani, costrui­scono in realtà dei mec­ca­ni­smi di opa­cità, se non di malaf­fare, che appro­fon­di­scono la subal­ter­nità della poli­tica al denaro. Il sin­golo desi­gnato alla carica elet­tiva, ha alle spalle coa­li­zioni di inte­resse che lo hanno appog­giato nelle pre­fe­renze e subito chie­dono il conto. Nella sua soli­tu­dine, l’amministratore vaga in balia di potenze che lo mano­vrano, lo indi­riz­zano, tal­volta lo indu­cono in tentazione.
Rimedi facili non ce ne sono. Per comin­ciare, biso­gne­rebbe resti­tuire iden­tità alla poli­tica, come pas­sione ideale. Ma ogni evo­ca­zione di una salda com­po­nente ideo­lo­gica nell’impegno pub­blico, subito attira addosso l’accusa di nostal­gia novecentesca.
Ser­vi­rebbe anche l’abolizione delle pri­ma­rie aperte al pas­sante indi­stinto: i gazebo sono di fatto la resa ad un par­tito della nazione scon­fi­nato, privo di dif­fe­renze, sordo al senso della par­zia­lità. Dovrebbe esserci anche un pre­ciso radi­ca­mento dei par­titi nel con­flitto sociale della post-modernità. Ma è dif­fi­cile che ciò avvenga se il con­flitto viene male­detto come una malat­tia e gli impren­di­tori sono cele­brati come «gli eroi del nostro tempo». Fin­ché i par­titi sono «sca­la­bili» con ope­ra­zioni scal­tre, sor­rette dalle muni­zioni ingenti dei signori dei media e del denaro, non ci sono rimedi reali alla com­pe­ne­tra­zione affa­ri­stica di governo, ammi­ni­stra­zione, imprese.
Con l’abolizione del finan­zia­mento pub­blico, i sog­getti poli­tici resi­dui diven­tano sem­pre più poveri, men­tre gli eletti navi­gano nell’opulenza. Que­sta frat­tura tra orga­niz­za­zione esan­gue e peo­nes, così remu­ne­rati da spe­ri­men­tare un vero muta­mento di sta­tus, è una delle cause dell’elevata com­pe­ti­zione interna ai par­titi e anche del dete­rio­ra­mento della qua­lità del ceto politico.
Ogni riforma della poli­tica diventa ste­rile invo­ca­zione se non per­ce­pi­sce quanto esteso e radi­cato è il male.

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