L’aspirazione dei precari a diventare cittadini

16 Marzo 2015
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Gianframco Sabattini

 

Quasi esaudendo le aspirazioni dei lavoratori precarizzati a diventare dei cittadini a pieno titolo, dopo la pubblicazione nel 2012 di “Precari: la nuova classe esplosiva”, Guy Standinga, docente di teoria dello sviluppo alla “School of Oriental and African Studies” dell’Università di Londra, co-fondatore e co-presidente del “Basic Income Earth Network”, che promuove l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza nel mondo, ha pubblicato all’inizio di quest’anno un altro importante libro sul fenomeno del precariato, il cui titolo è: “Diventare cittadini. Un Manifesto del precariato”.
Quest’ultimo libro sembra essere un appello a San Precario, il patrono dei precari e delle precarie, “santificazione” libera e indipendente da ogni “chiesa” partitica e sindacale, maturata nel 2004, con la definitiva consacrazione avvenuta durante l’”Euromayday”, la manifestazione del primo maggio precario, in occasione della quale tutti i precari scendono nelle piazze d’Europa. Da allora, San Precario è invocato dai suoi “fedeli”, per avere protezione sociale e indurre quelli che poco fanno per offrire tale protezione a dormire notti insonni, per la carica di pericolosità della “rabbia sociale” che la crescita del precariato reca con sé.
Nelle intenzioni del suo autore, il libro vuole essere anche una “reazione rabbiosa” contro i partiti e i sindacati tradizionali, ma anche contro la totalità dei mass-media, per via del fatto che tutti si dimostrano “privi di immedesimazione con il precariato e con il crescente numero di non cittadini che questa categoria comprende. Ciò che sta succedendo è gratuito e immorale. Chiunque abbia la possibilità di parlare dovrebbe mettersi a gridare contro l’iniquità e la disuguaglianza seminate dai governi senza che le opposizioni facciano il loro mestiere”.
Il libro intende “dare voce” all’aspirazione dei precari ad abbandonare il loro status di non cittadini; a tal fine, tenta di redigere un programma, perché i precari tutti possano diventare la base di un movimento politico, fondato, non sul richiamo utilitarista finalizzato alla costituzione di una maggioranza elettorale, ma sulla visione di cosa può costituire una “Buona Società”, in quanto consapevole di essere una classe sociale in divenire, volta a “diventare una classe-per-sé”, per trovare i modi più opportuni per auto-abolirsi; ciò, secondo Standing, rende la classe dei precari una “forza trasformativa”, diversa dalle altre classi esistenti nelle economie avanzate di oggi, considerato che, queste ultime, tendono solo a conservare o a potenziare i privilegi acquisiti da chi ne fa parte.
Standing ritiene che ciò sia tanto più necessario, in quanto i partiti ed i sindacati tradizionali, di destra e di sinistra, sono “diventati volgarmente utilitaristi”; essi, qualunque sia il loro orientamento politici, hanno cessato d’essere guidati da idee e valori riguardanti gli stati di bisogno delle classi sociali, per passare ad un’azione prevalentemente volta a trovare formule di governo dell’intero sistema sociale condivise da una potenziale maggioranza. Poco importa ai partiti ed ai sindacati tradizionali che le loro politiche privino una minoranza sociale dei suoi diritti di cittadinanza e la precipitino nel precariato; questa minoranza sta però diventando, giorno dopo giorno, sempre più irrequieta, come dimostrano i tanti movimenti che portano i precari a manifestare la loro rabbia nelle piazze.
Il precariato, secondo Standing, è una classe in divenire, nel senso che chi ne fa parte “ha specifici rapporti di produzione, di distribuzione […] e con lo Stato, ma non ancora una coscienza collettiva o una comune visione di cosa fare di questa precarietà”; anche per questo, il precariato è “esplosivo”, perché i suoi interessi non coincidono con quelli dei quali sono portatori i programmi politici tradizionali, sia della destra neoliberista che della sinistra socialdemocratica.
Ciò che potrebbe indurre il precariato a guardare ottimisticamente al futuro è rappresentato dalla possibile istituzionalizzazione ed erogazione di un reddito minimo garantito, o reddito di cittadinanza, nella forma di una ammontare di risorse sufficiente ad assicurare, al limite ad ogni residente legale, la sicurezza di base. L’importo dovrebbe essere minimo, nel senso che dovrebbe essere sufficiente a garantire la sopravvivenza esistenziale, ma anche nel senso che, in sua assenza, non sarebbero soddisfatti altri diritti, come ad esempio quello dell’istruzione, ove dovesse mancare la sicurezza di base. La sua determinazione potrebbe essere assegnata ad un’autorità indipendente, con il mandato di deciderne il livello, tenuto conto delle condizioni economiche del sistema sociale, di tempo in tempo mutevoli.
Tradizionalmente, i sindacati sono sempre stati, e continuano ancora ad essere, contrari al reddito di cittadinanza, in quanto sostengono che ciò minerebbe la base di solidarietà del welfare State; essi, invece, sono favorevoli alla conservazione delle tradizionali politiche di ridistribuzione del reddito, ritenendo che il percepimento di un reddito garantito possa essere giustificato solo sulla base dello svolgimento di un lavoro. In tal modo, essi dimostrano d’essere profondamente influenzati dall’”etica luterana”, secondo la quale l’erogazione di un reddito garantito, incondizionato e indipendente dalla condizione lavorativa, riduce l’offerta di lavoro, negando all’attività lavorativa il ruolo e la funzione di nobilitare la vita stessa dell’uomo; tutto ciò sebbene, anche dopo la nonostante la nascita del welfare State, la dignità dell’uomo non sia stata salvaguardata dal persistere di forme di beneficenza, che altro non sono che forme palesi di carità pubblica.
Con il reddito di cittadinanza, secondo Standing, diventa possibile ridurre nelle società moderne il ruolo della beneficenza, solitamente utilizzata per coprire le politiche regressive e poter giustificare il “taglio” dei diritti sociali. Con la nascita del welfare State, la carità sembrava relegata ai margini, ma poi l’ideologia neoliberista è valsa, afferma Standing, a concedere uno spazio crescente alla carità pubblica e alla sua variante plutocratica, la filantropia. La crescita dello spazio della carità è una ragione in più che giustifica una riforma profonda dell’attuale welfare State, per introdurre il reddito minimo garantito come diritto.
Secondo Standing, ciò che rende progressista la classe dei precari è il suo distacco dai partiti e dai sindacati legati alla socialdemocrazia tradizionale; il distacco consente ai precari di valutare appieno perché, per loro, il reddito di cittadinanza non è solo una fonte di sicurezza esistenziale e sociale, ma anche un fattore liberatorio che permette l’auto-garanzia di poter soddisfare tutti i diritti di chi dispone della certezza e della continuità di un reddito. Questo obiettivo, conclude Standing, può essere raggiunto dal precariato solo se esso riuscirà ad agire per il superamento della sua condizione attuale, mentre la vittoria potrà conseguirla solo quando riuscirà ad abolire se stesso; è troppo presto – conclude Standing – per dire quale tipo di società il precariato potrà concorrere a realizzare dopo che ciò si sarà verificato. Al momento, il compito più immediato per i precari è quello di accelerare la loro auto-estinzione.
Le speranze di Standing corrono il rischio di risultare delle pie illusioni; non è plausibile ipotizzare che il ricupero dei precari al godimento di tutti i diritti, da pieni cittadini, possa automaticamente fare seguito a un’auspicata e spontanea auto-estinzione del fenomeno del precariato; sarebbe come fare affidamento unicamente su un “miracolo” di San Precario che, tramite la sua infinita benevolenza di santo, dovrebbe far sì che la profezia implicita nell’aspirazione dei precari a diventare pieni cittadini si auto-avveri. Per l’eliminazione del precariato, in realtà, oltre all’impegno di chi, suo malgrado, è costretto a subire lo status di non-cittadino, occorre la disponibilità e la solidarietà dei partiti tradizionali più sensibili in materia di tutela del lavoro, ma soprattutto dei sindacati; il problema potrà essere risolto solo se e quando questi ultimi decideranno una buona volta di abbandonare la pretesa di garantire, attraverso la ridistribuzione pura e semplice del prodotto sociale, i diritti dei lavoratori, dimenticando che una massa crescente di essi ha perso lo status di lavoratore, a causa di un malfunzionamento del sistema economico, che i sindacati stessi mostrano, per via dei loro pregiudizi, di non volere e di non sapere rimuovere.

 

 

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