Modelli di Welfare? Ce ne sono tre

4 Giugno 2015
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Gianfranco Sabattini

Gøsta Esping-Andersen, noto economista e sociologo danese, ha dedicato le proprie indagini economiche e sociologiche all’analisi dello stato sociale (welfare State) e del suo impatto sulla distribuzione personale del reddito all’interno delle economie capitalistiche. Nel 1990 egli ha pubblicato “The three worlds of welfare capitalism“ (I tre modelli di welfare), divenuta un’opera citata e oggetto di dibattiti che durano ancora. In essa, l’autore spiega “perché” si sono formati determinati modelli di welfare, arrivando a formalizzare tre regimi ideali di welfare: quello liberale (associato ai paesi anglosassoni: USA, Canada, Gran Bretagna, Australia), quello conservatore o corporativo (rilevabile nell’Europa continentale: Francia, Germania, Italia) e quello socialdemocratico (tipico dei paesi scandinavi). In seguito, i tre regimi di welfare sono stati identificati con i tre tipi ideali di homo politicus: homo liberalis, homo familisticus e homo socialdemocraticus.
Secondo Esping-Andersen, nella letteratura sul welfare State spesso si parla, indistintamente di Stato sociale, politica sociale e regimi di welfare, come se le tre espressioni avessero tutte lo stesso valore. In realtà, esse rappresentano invece concetti diversi, in quanto sono il risultato di differenti combinazioni dell’offerta di prestazioni pubbliche e private finalizzate a realizzare un’equità sociale; è questo il motivo per cui Esping-Andersen ricorre all’espressione di “regime di welfare” e alla formulazione di differenti modi in cui l’offerta di benefici è divisa fra Stato, mercato e famiglie.
Le caratteristiche principali del regime di welfare liberale sono l’esistenza della “prova dei mezzi” per poter fruire dell’assistenza, nonché la limitata universalità dei benefici, unita quest’ultima ad un’altrettanto limitata organizzazione della sicurezza sociale; l’offerta dei benefici dell’assistenza e della sicurezza sociale è rivolta perciò ai soli percettori di un basso reddito, normalmente lavoratori e dipendenti pubblici. Il regime di welfare conservatore (o corporativo), relativo a tutte le sue possibili configurazione comprese tra quella originaria, bismarckiana, e quella di William Henry Beveridge, è caratterizzato dal fatto che l’offerta dei benefici è indirizzata a vantaggio dei disoccupati e degli ammalati, essendo il diritto a riceverla fondato sui contributi assicurativi precedentemente versati; contributi e benefici che variano in funzione del reddito percepito. Il regime di welfare democratico, infine, offre alti livelli di benefici e di servizi pubblici, ponendo l’intera società sotto la protezione di un unico sistema assicurativo universale.
Nel 2008, due studiosi di scienza della politica, Torben Iversen della Harvard University e John Stephens della North Carolina University, hanno pubblicato un articolo (“Partisan Politics, the Welfare State, and Three Worlds oh Human Capital Formation”, apparso sui numeri 4-5 della rivista “Comparative Political Studies”, che ha suscitato un ampio dibattito a livello mondiale, coinvolgendo prevalentemente studiosi ed esperti dei processi di istruzione e formazione. In Italia, la rivista “Scuola Democratica” ha dedicato ad esso l’ultimo numero del 2013, nella forma di un’edizione speciale curata da Massimo Paci, noto sociologo ed esperto di problemi inerenti il mercato del lavoro.
I due autori, applicando la tripartizione dei regimi di welfare di Esping-Andersen a tutti i sistemi di istruzione e formazione dei maggiori Paesi occidentali, hanno distinto anch’essi tre modi di formazione del capitale umano: quello liberale, quello conservatore o corporativo e quello socialdemocratico, riferiti agli stessi Paesi cui si riferisce la tripartizione dei regimi di welfare di Esping-Andersen. Nel loro studio, Iversen e Stephens hanno tenuto conto, non solo della relazione tra spesa pubblica nei regimi di welfare e nei sistemi di istruzione e formazione e la distribuzione generale del reddito, ma anche delle caratteristiche d’ordine economico, sociale ed istituzionale dei diversi Paesi considerati.
Ciò che, secondo Iversen e Stephens, giustifica la trattazione congiunta dei regimi di welfare e dei sistemi di istruzione e formazione è che sia gli uni che gli altri svolgono un ruolo importante riguardo alla distribuzione personale del reddito, quindi alla distribuzione delle opportunità sociali, assumendo che non vi sia un “trade-off” (effetto sostitutivo) tra la spesa pubblica per il welfare e quella per i sistemi di istruzione e formazione. Ma le caratteristiche d’ordine economico, sociale e istituzionale comportano che si tenga conto di una dicotomia di fondo esistente tra un “modello di economia di mercato liberale”, associabile a un regime di welfare liberale, e un “modello di economia di mercato regolata”, associabile sia a un regime di welfare conservatore-corporativo, che a un regime socialdemocratico: mentre all’interno dei Paesi ad economia di mercato liberale (quelli anglosassoni) la spesa pubblica per i sistemi di istruzione e formazione tende a crescere più di quella per il welfare, sino a rendere plausibile l’esistenza di un reale trade-off tra i due comparti di spesa, nei Paesi europei continentali ed in quelli scandinavi, tutti ad economia di mercato regolata, la spesa pubblica nei due comparti si è sempre espansa parallelamente. In tal modo, afferma Paci nel suo articolo (“Welfare ed education: il ruolo del sistema politico-istituzionale”), Iversen e Stephens “giungono a identificare tre ‘mondi di formazione del capitale umano’: quello liberale, quello socialdemocratico e quello corporativo”.
Secondo i due autori, il “mondo di formazione liberale del capitale umano” non offre buoni risultati, per via del fatto che la spesa pubblica per i sistemi dell’istruzione e della formazione è mediamente vicina a quella dei Paesi europei continentali ad economia di mercato regolata con regimi di welfare conservatori o corporativi, ma inferiore a quella dei Paesi scandinavi, anch’essi ad economia di mercato regolata, ma con regimi di welfare socialdemocratici; inoltre, mentre la spesa pubblica per l’istruzione superiore (higher education) nei Paesi ad economia di mercato liberale va a favore delle classi medie, quella privata (molto più alta che nei Paesi ad economia di mercato regolata) va prevalentemente a vantaggio delle classi sociali superiori.
Tuttavia, Iversen e Stephens ritengono che il “mondo di formazione del capitale umano” nei Paesi europei continentali ed in quelli scandinavi, malgrado siano tutti ad economia di mercato regolata e la distribuzione della loro spesa pubblica tra welfare e sistemi di istruzione e formazione cresca parallelamente in entrambi i comparti, presenta delle differenze. I Paesi scandinavi – come osserva Paci – “hanno sviluppato nel lungo periodo un sistema di coordinamento cooperativo tra imprenditori e sindacati, fondato su concessioni pragmatiche reciproche, relative alla fluidità del mercato del lavoro e all’investimento in formazione professionale e istruzione generale e pre-scolare, tali da favorire, sia la diffusione di skills funzionali alle esigenze delle imprese, sia l’ascesa sociale dei soggetti provenienti da famiglie operaie e meno abbienti”. I Paesi continentali europei hanno invece sviluppato forme di coordinamento corporativo, in cui il welfare State ha effetti ridistributivi inferiori, a causa del fatto che la destinazione della spesa pubblica è fortemente segnata “dal sistema delle assicurazioni sociali, le cui prestazioni sono commisurate al reddito dell’assicurato”.
Dei Paesi continentali europei fa parte l’Italia, la quale però sconta il grave limite della mancanza coesione interna dei partiti e delle coalizioni di governo; ciò espone il processo decisionale del Paese alle pressioni degli “interessi particolari”, affievolendo gli effetti ridistributivi di tutte le azioni di governo. Questo spiega perché il mondo di formazione del capitale umano sia, in Italia, largamente inefficiente, a causa della proliferazione dei partiti, favorita dall’organizzazione politico-istituzionale esistente.
Di fronte a questa situazione, si discute se la mancanza di coesione interna dei partiti e delle coalizioni di governo possa essere eliminata attraverso un sistema elettorale maggioritario, piuttosto che proporzionale; chi si illude di poter fare fronte a quella mancanza di coesione con l’introduzione di un “robusto” sistema elettorale maggioritario, non tiene nella dovuta considerazione il fatto che, in Italia, la mancanza di coesione non è solo delle parti politiche, ma anche dell’intero Paese, il quale, per ragioni storiche e per i diffusi e profondi squilibri distributivi settoriali, territoriali e personali, non riesce a trasformarsi in nazione; sin tanto che non sarà posto rimedio alla mancanza di equità sociale, l’illusione che un sistema elettorale maggioritario, per quanto indicato da Iversen e Stephens come più conveniente rispetto a un sistema proporzionale, varrà solo ad aumentare la mancanza di coesione sociale degli italiani, che, a sua volta, si riproporrà all’interno dei partiti e delle coalizioni di governo.
Finché il Paese non diverrà una nazione coesa, il sistema elettorale proporzionale è quello che più gli si addice; al riguardo, occorre ricordare che, nei tempi in cui per molti si stava peggio, l’Italia, nonostante i suoi partiti litigiosi e i governi “balneari” o di breve durata, non ha mancato di modernizzarsi e di passare dalla periferia del mondo al novero di Paesi più industrializzati: la presenta di molti partiti, la mancanza di coesione al loro interno, la caducità delle coalizioni di governo, quindi la loro breve durata, erano le condizioni che consentivano di conformare le azioni di governo ai profondi squilibri sociali, che gli oltre centocinquant’anni di vita nazionale non sono valsi ad amalgamare, o quantomeno ad attenuare. Con la fine della prima repubblica, la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con un sistema maggioritario ha condotto il Paese, non solo all’instabilità politica e ad avvalersi di organi decisionali illegittimi, ma anche al suo lento riflusso verso la periferia dalla quale, a partire dal dopoguerra, era riuscito ad allontanarsi.
 

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