Crisi dell’Unione europea e sinistra

26 Novembre 2015
Nessun commento


Alfiero Grandi

La strage di Parigi sta già condizionando pesantemente il futuro dell’Europa
e questo dopo il terremoto dell’ondata migratoria e le ferite provocate
dalla crisi economica più lunga e grave dal 1929. Ferite tuttaltro che
risanate. Il disegno europeo che conosciamo è in grave crisi e dovrebbe
essere affrontato con la consapevolezza che ad oggi non ci sono in vista
soluzioni affidabili e certe, semmai prevalgono le tentazioni divaricanti.
Mario Draghi nell’intervista del 31/10 a Il Sole 24 ore riconosce che
“molto resta da fare in relazione al futuro assetto dell’Unione Europea.
Dobbiamo essere in grado di poter proporre ai cittadini dell’Unione Europea,
dell’area Euro un percorso futuro. Abbiamo tentato di farlo con il rapporto
dei 5 Presidenti… quella mi pare la prospettiva”.
Draghi insiste sull’esigenza di costruire una prospettiva, evidentemente
riconosce che oggi non c’è e sostiene l’esigenza di riforme del sistema UE.
Finora mai un capo della Bce aveva posto l’esigenza di avere un Ministro
dell’Economia dell’area Euro, che in altre versioni è un dipartimento del
Tesoro. Questa proposta è parte di un pacchetto di riforme istituzionali
dell’Europa avanzate nel documento dei 5 Presidenti. Si può rifiutare il
terreno di confronto aperto da questo documento ma sarebbe un errore perché,
bene o male, queste proposte riaprono la discussione sia sugli assetti
istituzionali dell’Unione europea e, inevitabilmente, sui trattati che hanno
via via costruito il viluppo che ha sorretto le politiche di austerità.
Queste proposte vengono avanzate dalla parte più avvertita del gruppo
dirigente europeo attuale che ben comprende che l’Unione è attraversata da
diverse e gravi faglie di crisi che potrebbero portare alla fine del sogno
europeo e che la moneta unica non basta a salvare il futuro dell’Unione, né
la modesta ripresina in atto è sufficiente dopo la consistente perdita di
Pil dall’inizio della crisi e 20 milioni di disoccupati.
L’austerità ha contrapposto drammaticamente l’Europa alla condizione dei
cittadini europei. Il rimendio dell’austerità ha aggravato la crisi
economica e sociale più grave dopo il 1929. La discussione sulla ripresa,
non solo in Italia, avviene su valori da prefisso telefonico, povertà e
disoccupazione sono cresciute. Non c’è bisogno di sposare la tesi della
decrescita per capire che si pone un enorme problema di qualità dello
sviluppo e della vita sociale, che è il contrario dell’insistenza sulla
crescita senza aggettivi. Altro è il significato che lo sviluppo ha per le
parti del mondo che vengono dal retaggio del sottosviluppo, mentre per i
paesi avanzati è, ad esempio, inevitabile la redistribuzione del lavoro tra
chi lavora molto, troppo, grazie anche ad incentivi fiscali per mezzo
miliardo di euro all’anno come in Italia, e chi non lavora affatto ed è
escluso, relegato nella povertà, che peraltro riguarda sempre più anche
persone che lavorano ma non guadagnano abbastanza. Gli obiettivi europei di
Lisbona come la piena e buona ocupazione, sono oggi del tutto accantonati
perché le politiche di austerità hanno imposto altre priorità di cui la
riduzione dei bilanci pubblici è il perno. A questo proposito va ricordato
che il governo Renzi tace sugli impegni di risanamento rinviati ai prossimi
anni e sui tagli che è impegnato a fare in futuro per rispettare i parametri
europei.
Il modello europeo, se così si può chiamare per brevità, è in crisi, dallo
stato sociale alla garanzia del lavoro e al riconoscimento della sua
dignità, all’ambiente e alla salute, alla crescita e alla diffusione di
scolarità, cultura e competenze. Il compromesso sociale inclusivo che ha
caratterizzato il nucleo dell’Europa è in crisi. Le conseguenze di questa
crisi possono essere subite come è accaduto in Grecia a causa di rapporti di
forza sfavorevoli ma inevitabilmente generano reazioni di respingimento.
Rassegnazione non è accettazione.
Le reazioni all’austerità alimentano sempre più forti spinte antieuropeiste
e spesso assumono connotati di destra e populisti estremi, con tentativi di
chiusura, a cui corrispondono derive autoritarie fin troppo tollerate dalla
realpolitik europea come l’Ungheria e che oggi si ripresentano nel caso
turco, di cui si preferisce ignorare l’inaccettabile stretta autoritaria.
Durante tutta la trattativa tra il nuovo governo greco di Siryza e l’UE è
apparso chiaro che un piccolo paese da solo non era in grado di sconfiggere
il predominio dell’austerità europea a trazione tedesca, complice il
sostanziale isolamento in cui il governo Tsipras è stato lasciato, a partire
dall’atteggiamento del governo italiano che ha cercato di lucrare qualche
zero virgola di tolleranza sul nostro deficit (una versione moderna dei 30
denari) per avere contribuito all’isolamento della Grecia. Tsipras ha
cercato di prendere tempo, subendo per stato di necessità un accordo che ha
dichiarato di non condividere, riuscendo a ottenere uno spazio di tempo e
soprattutto di gestione democratica per la sinistra. La vicenda greca non è
conclusa e sta anzitutto alla sinistra europea non lasciare che il piccolo
spazio rimasto al governo Tsipras si chiuda definitivamente, puntando invece
ad aprire una prospettiva politica alternativa all’austerità, alle chiusure
di fronte alle migrazioni bibliche di questa fase. Tsipras ha cercato di
mantenere aperta una possibilità e questo riguarda anche noi.
Altri paesi europei o hanno già visto la vittoria della destra o potrebbero
averla in un prossimo futuro, anche perché una sinistra che non si
distingue, che non è alternativa, che non tenta di percorrere una via
diversa lascia spazio ad una competizione tra populismi e destra politica
che inevitabilmente la emargina, come di fatto sta avvenendo per i
socialisti che sono tuttora la parte egemone della sinistra europea ma
rischiano di perdere proprio in Francia. […]

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento