I tanti perché del NO

20 Luglio 2016
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Alessandro Pace

Dopo la relazione di Grandi e le conclusioni di Gallo ecco l’introduzione ai lavori dei Comitati per il No, del 16 luglio 2016 del Presidente del Comitato per il No, prof. Alessandro Pace.
Cari amici,
sono lieto di vedervi, così tanti, qui convenuti da tutte le parti d’Italia.
Dico subito che il mio discorso introduttivo si limiterà a sintetizzare le critiche che da più parti vengono mosse alla c.d. riforma Boschi. Qualora siate interessati ad approfondire queste tematiche, non avete che da richiedere il relativo materiale alla segreteria del Comitato per il No. 
Una premessa è d’obbligo. La legge costituzionale Renzi-Boschi (di seguito, legge Boschi) è stata approvata dalle Camere nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, avesse dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale (c.d. Porcellum) sulla cui base era stata eletta la XVII legislatura. Il che solleva dei gravissimi dubbi sulla legittimità costituzionale di tale legge, avendo il Governo e il Parlamento consapevolmente violato un giudicato costituzionale.
 La Corte costituzionale aveva infatti bensì ammesso che le Camere avrebbero potuto continuare ad operare, non però indefinitamente, ma solo per alcuni mesi e al fine di sostituire il Porcellum con altra legge elettorale rispettosa della Costituzione.
Il risultato di questo azzardo, portato avanti dall’ex Presidente Napolitano e dal Presidente del Consiglio Renzi, è una riforma costituzionale consentanea all’indirizzo politico del governo, irrispettosa delle opposizioni parlamentari, preoccupata da un lato di eliminare possibili contropoteri nei confronti del governo e, dall’altro, di ridimensionare le Regioni nei confronti dello Stato.   
Passo alle critiche di dettaglio. La legge Boschi è una legge di riforma dal contenuto disomogeneo che conseguentemente coercisce la libertà di voto degli elettori che hanno a disposizione un solo voto mentre i quesiti, nella specie, sarebbero  almeno tre. Privilegia, grazie alla nuova legge elettorale (c.d. Italicum) - sotto questo profilo, identica al Porcellum -, la governabilità sulla rappresentatività prevedendo di fatto un “premierato assoluto”. Contraddice la sovranità popolare - di cui «la volontà dei cittadini, espressa attraverso il voto, costituisce il principale strumento» (Corte cost., sent. n. 1 del 2014) - attribuendo ai consigli regionali, e non ai cittadini, il diritto di eleggere il Senato. Ribadisce la spettanza al Senato della funzione legislativa e di quella di revisione costituzionale ancorché esso sia privo di legittimazione democratica. Prevede che i senatori esercitino anche le funzioni di consigliere regionale e di sindaco, senza considerare che la duplicità delle funzioni impedirebbe il puntuale adempimento delle importanti e onerose funzioni sia legislative sia di controllo connesse alla carica senatoriale. Amplia il potere d’iniziativa legislativa del Governo mediante disegni di legge attuativi del programma di governo da approvare entro 70 giorni dalla deliberazione d’urgenza dell’assemblea, restringendo ulteriormente gli spazi per l’iniziativa legislativa parlamentare. Sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato (100 senatori) rispetto alla composizione della Camera dei deputati (630 deputati) rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune. Prevede almeno otto tipi diversi di approvazione delle leggi ordinarie, in luogo degli attuali due, con pregiudizio per la funzionalità della Camera dei deputati e il rischio di vizi di costituzionalità. Elimina il Senato come contro-potere politico esterno della Camera dei deputati, senza compensarne l’eliminazione con la previsione di contropoteri interni, quale il diritto delle minoranze qualificate di istituire inchieste parlamentari; anzi rinvia ai regolamenti parlamentari - per la cui approvazione è necessaria la maggioranza assoluta (sic!) - lo “Statuto delle opposizioni” e la previsione dei “Diritti delle minoranze”. Qualifica il Senato “rappresentante delle istituzioni territoriali”, ancorché le sue funzioni restino quelle tipiche di un organo dello Stato. Elimina, nei rapporti dello Stato con le Regioni, la potestà legislativa concorrente senza prevedere una potestà d’attuazione nelle materie nelle quali lo Stato si limiterebbe a dettare «disposizioni generali e comuni». Attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materie quali le politiche sociali, la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo che costituiscono il cuore dell’autonomia legislativa regionale. Dimentica di attribuire a chicchessia (Stato o Regioni) la competenza legislativa esclusiva in materia di circolazione stradale, di lavori pubblici, di industria, agricoltura, artigianato, attività mineraria, cave, caccia e pesca, con la conseguenza di non attenuare e tanto meno risolvere il problema del  contenzioso costituzionale Stato-Regioni. Introduce una clausola di supremazia statale, grazie alla quale una legge dello Stato, senza alcun limite di materia, potrebbe intervenire in materie di competenza delle Regioni «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale». In definitiva lo Stato “regionale” viene degradato ad un livello «prevalentemente amministrativo».
 Sia dall’ex Presidente Napolitano sia dalla Ministra Boschi si è però pubblicamente ammesso che questa  riforma richiederebbe degli “aggiustamenti” necessari. Senza evidentemente rendersi conto che le loro affermazioni pongono in dubbio la stessa superiorità formale e sostanziale delle modifiche costituzionali da loro caldeggiate. Una costituzione è infatti rigida perché è intrinsecamente superiore a tutti gli atti normativi che compongono l’ordinamento, non già per il fatto che sarebbe modificabile secondo il procedimento speciale previsto dall’art. 138 (il che è una conseguenza di quella superiorità). Del resto, quand’anche si fosse trattato di una costituzione ottocentesca, modificabile dallo stesso legislatore, mai e poi mai si sarebbe pensato, dagli studiosi dell’epoca, di sottoporla ad aggiustamenti il giorno dopo della sua approvazione, perché ciò ne avrebbe destituito l’intrinseca superiorità.
 Il vero è che l’ex Presidente della Repubblica e la Ministra delle Riforme così dicendo confermano, volenti o nolenti, il diffuso giudizio che si tratta di una riforma “sgangherata”, che non merita di essere confermata dal popolo italiano nel referendum del prossimo ottobre.
 

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