Hannah Arendt: un film per il libero pensiero

21 Agosto 2016
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Gianna Lai

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E’ nato nel 2012 come film tv, il lavoro della Von Trotta dedicato alla Giornata della memoria, lo abbiamo visto il 27 gennaio 2014 su rai3, col titolo “Hannah Arendt”. Subito si coglie tutta l’espressività dell’attrice Barbara Sukowa-Hannah Arendt, l’intensità dell’interpretazione calata dentro una storia così impegnativa da rappresentare. Perchè è il pensiero che si fa strada e, si ricostruisce, in contrapposizione, sembrerebbe, al lungo e tortuoso cammino che porta Hannah a Gerusalemme due volte in pochi mesi, andata e ritorno, andata e ritorno, sul pullman di linea, in mezzo agli abitanti di Israele. Come se il pensiero si facesse storia e si materializzasse solo grazie al poter direttamente vedere e sentire. Che è il messaggio più importante del cinema stesso, vedere, sentire e conoscere attraverso le immagini, i suoni, i dialoghi.
Inizia senza preamboli il film su Hannah Arendt e il processo Heichmann, i fatti irrompono dentro una scenografia precisa, quotidiana, il personaggio Hannah sempre al centro dell’inquadratura e della sequenza. Nell’essenzialità dei fatti narrati, l’azione si svolge quasi esclusivamente in interno, la casa, le sale attigue al tribunale, l’Università, spesso scarsamente illuminati o appesantiti dal fumo della sigaretta. E sembrano creare quasi una cesura le due sequenze in esterno, che inquadrano Hannah a Gerusalemme, turbata e pensosa, dopo aver seguito le drammatiche testimonianze dei sopravvisuti nel processo Eichmann, e poi triste e scoraggiata per l’abbandono di Kurt. Bellisime le inquadrature della città, armoniosa ed elegante la figura di Hannah che l’attraversa a passo sostenuto. E quelle centrali, nella narrazione, della campagna intorno alla casa che dà riparo alla protagonista contro i clamori della città. Bellissima l’immagine di Hanna in attesa alla finestra, come sentisse vicina la minaccia di nuovi attacchi, e quel campolungo che la mostra di spalle, solitaria, mentre corre verso casa, e che rimanda alla solitudine della città, così drammaticamente rappresentata dall’inquadratura dall’alto nella mensa universitaria.
Le immagini dello storico processo di Gerusalemme, restituite in un documento nitido e ancora intatto nella sua drammatica espressione della contemporaneità, aprono alla sostanza del film, a quel ‘tu semplifichi, Eichmann non è Mefisto’, come dice Hannah al suo amico Kurt, volgendogli diretto lo sguardo e mantenendo ferma l’espressione, ‘è uguale a tante altre persone, è un uomo qualunque’. E’ questa scoperta a creare la paura del viaggio, prima ancora di assistere alla drammaticità dell’evento? Di quella situazione e di quei tempi appare ciò che è necessario a dare consistenza alla biografia del personaggio, quel rimando alla storia e alla memoria che, senza niente concedere all’intento didascalico, dà respiro alla figura di Hannah, dopo l’esperienza scioccante del processo, e proprio partendo direttamente dalla sua condizione di ex deportata. Finalmente a casa, in quelle pause di riflessione sul divano, mentre il ritmo della narrazione sembra allentarsi, si annuncia la svolta, l’attenzione alle voci che risuonano ancora dal processo, al ricordo che sopraggiunge di Eidegger, il maestro del pensiero. E’ il pensiero filosofico di Hannah a farsi strada questa volta, e avanza, non si può semplicemente riferire i fatti del processo, si impone alla filosofa di chiedersi il perchè. L’obbedienza cieca alla legge da parte di burocrati mediocri e privi di personalità, responsabili della morte di milioni di uomini nei campi di concentramento: questa la banalità del male, che si configura in tutta la portata se se ne intreccia il significato con la responsabilità dei capi delle comunità ebraiche, emerse durante il processo. Hannah e il suo pensiero acquistano spessore man mano che il racconto procede, la sua psicologia rivelata nell’intensità dei primi piani, senza forma alcuna di spettacolarità o colpi di scena, o di artifici del montaggio, sulla base piuttosto della posizione che la regista assume nei confronti dei fatti e dei personaggi.
Potente semmai la carica evocativa, e capace di far nascere emozioni e sentimenti, perchè vi si affianca, parallela, la vita che continua a scorrere nel quotidiano, ora funestata dagli attacchi di amici, giornali e comunità scientifica. In quei movimenti di macchina, il richiamo continuo al volto dei protagonisti in forte e acceso contrasto tra loro, perchè è il conflitto a promuovere veri e propri processi di identificazione. Ed è attraverso quei dialoghi serrati che cominciamo a capire il significato di tanta intransigenza di fronte al pensiero libero, alla fine ancora destinato a prevalere nell’interessante epilogo della lezione agli studenti, quando finalmente anche gli spazi dell’Aula acquistano di nuovo ampiezza e nuova luminosità. E che possiamo valutare in tutto il suo significato di fronte alla posizione dei giovani ebrei di Israele, i quali rifiutano di sapere, rinfacciando ai padri la mancata ribellione contro il nazismo.
Il film è sempre una narrazione da interpretare per ciò che racconta e per come si colloca nel suo tempo, in rapporto al contesto storiografico e al senso storico diffuso tra la gente. Nel pensiero di Hannah Arendt, la messa in scena del passato, prodotta da un oggi ben definito, secondo una memoria che fa i conti col presente e che sviluppa nuova conoscenza, per esaltare, appunto, il pensiero libero.ùùù

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