Un antico papiro, recentemente ritrovato, ci racconta di uno scontro fra oligarchi e democratici

11 Dicembre 2016
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Tonino Dessì

In vena giocosa dopo la vittoria del NO, Tonino ha scritto un divertissement.  Eccolo.

Nei giorni scorsi é stato ritrovato dagli archeologi, durante i lavori per la nuova pavimentazione del centro storico di Cagliari, un papiro contenente il frammento di una cronaca scritta in greco antico, che alla traduzione si è rivelato di straordinario interesse.
Ancora resta avvolta nel mistero l’identità del cronista, che gli studiosi hanno provvisoriamente chiamato Anthònios e che si ipotizza abbia scritto sotto ispirazione o dettatura di Pèricles, oppure che sia lo stesso Pèricles, ma in una dimensione nella quale al principato non sia mai arrivato.
Perché una cosa è certa: il papiro, databile in un periodo risalente a oltre duemila anni fa, non può riguardare la realtà storica come l’abbiamo conosciuta e studiata, ma racconta di luoghi e vicende di una dimensione parallela, assai diversa dalla nostra. Come le Piramidi egizie, Maya e Azteche e come i Giganti di Monte Prama, si infittiscono gli indizi di contatti tra mondi e dimensioni di un universo multiforme, che riserva sempre nuove sorprendenti scoperte.
Ma leggiamo cosa scrive Anthònios, lo pseudo-Pèricles.
“La Polis ateniese versava in uno stato di grande confusione.
Era stata coinvolta nel terribile conflitto panellenico tra i sostenitori dell’instaurazione dell’oligarchia e i “Soloniani”, difensori degli ordinamenti democratici che per poco meno di settant’anni dopo l’ultima sanguinosa guerra del Peloponneso avevano retto, assicurando la pace, quasi tutte le città della penisola greca.
La fazione oligarchica, sia pure potentemente armata e sostenuta da tutti i principali maggiorenti finanziari, compresi molti stranieri, fra i quali diversi magnati persiani, era stata clamorosamente sbaragliata sulla Piana di Maratea dagli eserciti dei “Soloniani”, che con miopia strategica gli oligarchi avevano definito come un’accozzaglia di torme plebee.
Mentre nell’Ellade intera ancora risuonavano i clangori di quella battaglia, nella principale città dell’Attica il governo degli Arconti, capeggiato da Anassàgora, entrava in crisi.
Anassàgora presiedeva ad Atene un governo in larga parte composto da Philòsophoi, secondo le suggestioni scritte, nella sua “Repubblica”, da Platone, sia pure nell’interpretazione e nell’attuazione pratica datene dal sottile ed esperto Krábas, vero artefice della politica ateniese ed attica, un tempo politico anche lui, ora in carica come tesoriere di un’importante istituzione finanziaria della Polis.
L’operato finora sperimentato col governo dei Philòsophoi in carica aveva da qualche tempo ingenerato la diffusa sensazione che le teorie politologiche di Platone fossero delle pirlate e che in definitiva anche Platone, come i tanti teorici che s’improvvisano in cose attinenti non al pensiero speculativo, bensì alla realtà concreta, fosse stato (ormai era morto) un povero pirla -pirlòs- anche lui.
Gli ultimi fatti poi si erano rivelati gravi.
Anassàgora, mal consigliato dall’Arconte alle riforme, l’oscuro Dèmuros, non solo si era schierato con la fazione oligarchica, ma aveva stipulato con questa un accordo secondo il quale la custodia delle mura della città sarebbe stata affidata alle milizie spartane, essendosi i Lacedemoni, ovviamente, schierati con gli oligarchi.
Gli Ateniesi non avevano mai scordato la storica inimicizia con gli Spartani e l’idea che proprio questi dovessero garantire l’inviolabilità delle mura era sembrata loro inaudita, inconcepibile, folle. E infatti, in massa, avevano disertato, giovani e vecchi (persino le donne!), la mobilitazione proclamata da Anassàgora, che pure aveva invitato in città, con sfarzose cerimonie, a promettere doni e ricompense, i maggiori dignitari dell’oligarchia ellenica e persino l’imperatore di un lontano e ricchissimo Paese orientale.
La catastrofe di Maratea aveva letteralmente rintronato Anassàgora, il governo dei filosofi e le fazioni che finora li avevano sostenuti, dando vita a una nuova guerra intestina.
L’oscuro Dèmuros si era dato precipitosamente alla fuga per primo, consapevole dell’insostenibilità della propria permanenza in un clima di assoluta impopolarità. Alcuni altri Arconti ormai erano platealmente contestati dal popolino, in primo luogo il corpulento e godereccio Màlvios, inconcludente responsabile della mobilità e sostenitore dell’economicità del viaggio a nuoto verso la terraferma, vicinissimo al potente Kràbas, del quale peraltro si sospettava già che volesse investirlo della gestione del Porto del Pireo.
Il veterano Mulèron, un tempo appartenente alla fazione popolare e ora a capo del piccolo partito sovranista degli Erytròmoros, che aveva designato l’Arcontessa all’agro irriguo e montano, ne decideva il ritiro e accampava i suoi sostenitori ormai fuori dalla compagine di governo, lanciando feroci strali verso Anassàgora e più ancora verso l’Arconte all’erario Pàkios, (soprannominato negli ambienti d’èlite, con un persianismo, Stakehòldoros, ma dal volgo, nel dialetto locale, Pacunùddas), sospettato di essere la vera anima nera del collegio arcontile.
Il capo del piccolo, ma intraprendente Partito dei Phùrboi, a sua volta Arconte stradale e fontaniere, anch’egli sovranista, Pàvlos, detto “Myriàpodos”, pensava di essersi smarcato dalla disfatta avendo opportunamente, in tempo utile, defezionato dalla mobilitazione filo-oligarchica e meditava di ingrossare le fila dei propri seguaci, anche mercenari, approfittando dello scompaginamento di altre fazioni.
Una crisi profonda aveva investito la fazione più numerosa dei filo-oligarchici, un po’ apocrifamente denominatisi “Oi Democràtikoi”, in pieno sbando da mesi, dopo che il loro capo, il magnate Cimòne, si era dovuto defilare, perché severamente multato dai Custodi dell’Erario, al quale risultava aver sottratto più d’una milionata di dracme e condannato perciò -in prima istanza- dai Magistrati della Giustizia a tre anni da scontare nelle Latòmie.
Provvisoriamente retto da un emissario spartano di osservanza oligarchica, il partito dei democràtikoi versava nella stasi più assoluta, con le diverse frazioni interne, comandate dai vari capi (detti “i trenta Tiranni”), che continuavano a guardarsi in cagnesco. Persino la Lega Delio-Attica dei Comuni era paralizzata da una feroce contesa tra due esponenti democratikoi, sulla cui composizione per ora nulla aveva risolto nemmeno il ricorso all’Oracolo di Delfi.
Nei vari altri campi ormai si notavano movimenti in vista delle prossime consultazioni del dèmos ateniese, non proprio ravvicinate, ma alle quali più d’una fazione intendeva cominciare a prepararsi.
Nel principale campo un tempo avverso ai democratikoi, cioè nella fazione dei possidenti che aveva espresso, nella precedente legislatura della Boulè, il tiranno Pètasos, successivamente sconfitto di misura da Anassàgora, si attendeva di capire cosa sarebbe accaduto nell’Ellade dopo la battaglia di Maratea, nella quale almeno un terzo delle truppe ateniesi schierate dagli oligarchici era stato proprio apportato da aderenti ai Petasiani. Pètasos intanto, dismesso il copricapo a larghe falde onomatopeicamente caratteristico della sua stirpe, si allenava in una nota palestra, reclamizzandone apertamente gli scultorei risultati sul suo fisico.
Quanto alle tribù ispirate dalle più varie motivazioni etniche, gli “Etnìkoi Sapròfites”, alla mai tramontata e finora inappagata ricerca di un posto comodo nella Boulè, esse cominciavano a predisporsi, intanto, per una preliminare contesa interna, che un solitario cronista contemporaneo avava già proposto di chiamare “Olimpiadi primarie”.
Nella prospettiva, la cosa più certa era che avrebbero dovuto fare i conti col concorrente Partito dei Phùrboi (al quale il cronista delle “Primarie” era sempre molto vicino), abilmente manovrato dal disinvolto Myriàpodos e con gli altrettanto concorrenti Erytròmoros del veterano Mulèron, dato in riavvicinamento all’antica tribù dei Tetràmoros. Certo, gli uni e gli altri non facilmente si sarebbero scrollati di dosso la pessima impressione data nell’aver sostenuto i Philòsophoi espressi dai democràtikoi e asserviti agli oligarchi.
Per questo motivo contavano di contender loro la piazza molti degli Etnìkoi Sapròfites, mettendo in campo il commediografo Murènides, un tempo (ma i maligni insinuavano che lo fosse ancora) molto sostenuto dal magnate Klàudios, della potente famiglia degli Zunkleònidi, a sua volta legata ai Petasiani, con i quali Murènides aveva attivamente collaborato per denudare e conclusivamente liquidare la giovane principessa dei possidenti Antìgone. Lei era finita in un esilio abbastanza dorato, Mùrenides, per averla infangata, si era beccato dai Magistrati di Giustizia (ma, anche lui, in prima istanza), una moderata multa in dracme e una condanna a nove mesi di Latòmie.
Incerti ancora su dove buttarsi, ma sempre sodali tra loro, il drappello nomade dei Sèlidi, capeggiati dal barbaro Urlas e dal giovane, astuto Zèddas, quest’ultimo autore tempo prima dell’audace conquista della Rocca di Kàrales, ma anche lui, come il barbaro Urlas, intempestivamente schieratosi nella guerra panellenica a fiancheggiare il partito oligarchico.
Tutti però sapevano di dover fare i conti a loro volta con un misterioso movimento di metèkoi (ceti sociali considerati fino ad allora composti da cittadini di seconda classe), aderente a una setta che nel resto dell’Ellade stava riscuotendo copiosi consensi. Adoratori della costellazione delle Cinque Stelle e capeggiati da un attore di nome Ortòpteros, perciò soprannominati anche Ortòpteroi, i settari si erano schierati con i “Soloniani” contro gli oligarchici, combattendo fianco a fianco a loro, a Maratea, ma accampandosi separatamente, dato che la reciproca diffidenza era profonda e perdurava.
Gli Ortòpteroi ateniesi si stavano predisponendo quindi a investire un proprio condottiero locale ricorrendo a un esoterico e complesso sistema di vaticini (affidati a Ortòpteros nella sua veste anche sacerdotale) e di estrazioni a sorte.
Sistema che però in altri tempi aveva portato malissimo agli Ortòpteroi ellenici che avevano colonizzato oltremare anche parti della vicina penisola italica, perchè a sorte erano stati designati gli stratègoi sia della travagliata spedizione nel Lazio, sia della disastrosa spedizione in Sicilia.
Insomma, la Polis era in pieno fermento, anche se continuava a non prosperare e i ricchi erano ricchi, gli schiavi lavoravano duramente in cambio di vitto e alloggio modesti, chi non lavorava e non era ricco era come uno schiavo pure lui, con la differenza che nemmeno mangiava.”.
Fin qui il frammento, molto interessante, a testimoniare una realtà antica e certamente molto diversa, lontana e più travagliata della nostra. Non conosciamo il seguito di questa storia, benchè la descrizione della condizione della città, tratteggiata nell’ultima frase, non faccia presagire gran che di ottimistico. Chissà, comunque: magari gli archeologi troveranno i resti delle cronache di Anthònios (o dello pseudo-Pèricles). Allora li pubblicheremo certamente.

1 commento

  • 1 Oggi domenica 11 dicembre 2016 | Aladin Pensiero
    12 Dicembre 2016 - 08:38

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