Purché se ne parli. Considerazioni sulla “novità” elettorale sarda

2 Febbraio 2018
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Tonino Dessì

Sui principali profili impegnati a lanciare e a sostenere la coalizione “AutodetermiNatzione” si denunzia una sorta di conventio mediatica a non valorizzare la novità costituita dalla presentazione delle relative liste per le elezioni politiche italiane.
A leggere i quotidiani sardi la lamentela potrebbe dirsi però infondata, perché da giorni riportano puntualmente le notizie essenziali sulle liste e sul connotato politico principale della coalizione, che vien letto giornalisticamente nel concetto “fuori dai tre grandi blocchi” (La Nuova Sardegna), o “senza i partiti italiani” (L’Unione Sarda).
Mi pare che i giornalisti (quelli attualmente in servizio nelle principali testate) abbiano colto il dato essenziale e che non ci sia gran che da rimproverar loro.
Del resto a cos’altro dovrebbero dar risalto, come “notizia”?
Al fatto che una serie di sigle della costellazione -per usare i termini declinati nella presentazione ufficiale- sovranista e indipendentista- abbiano trovato un accordo elettorale unitario?
In realtà giornalisticamente resta più rilevante la notizia che un’ampia area politico-culturale non riesce a trovare tuttora motivi di unità pari alla sua diffusione e alle ambizioni proclamate. Realtà incontestabilmente oggettiva, perchè le due forze autonomamente strutturate più rilevanti del “mondo sardista” (espressione a mio avviso più comprensiva dell’articolazione delle posizioni esistenti), cioè il Partito Sardo d’Azione e il Partito dei Sardi, stanno fuori dalla nuova coalizione.
Si dirà che quella messa in campo in queste elezioni è una prova di forza, destinata a misurare un consenso e a coagulare una massa critica capace di produrre un risultato più unitario alle elezioni regionali dell’anno prossimo.
La vera notizia allora sarà magari che i capi riconosciuti delle varie formazioni, Antony Muroni, Christian Solinas, Paolo Maninchedda, superati tutti gli steccati politici e le reciproche idiosincrasie personali, daranno vita a un blocco sardista pronto a lanciare un’autonoma sfida per il governo della Regione, su un programma di vasto respiro democratico e innovatore. Ma è cosa ancora da venire.
Per adesso, quale altra potrebbe essere la notizia?
La caratura innovativa delle candidature? Non sono candidature prive di qualità, almeno da quel che si può apprendere leggendo i curriculum dei meno noti. Non che posseggano qualità individuali apprezzabilmente più competitive di quelle dei candidati del M5S, a dire il vero. Magari, ad oggi, un po’ più sotto soglia, quanto a prevedibile impatto, in diversi collegi.
I più noti invece hanno abbassato il tasso di novità. Bustianu Cumpostu, Gavino Sale e anche il più giovane Pier Franco Devias proprio novità non sono, neppure elettoralmente.
Che Antony Muroni ambisse a una scesa in campo elettorale era del tutto evidente fin da quando ha lasciato la direzione del quotidiano più vicino per ragioni proprietarie al centrodestra sardo e che in molti percepimmo particolarmente vicino a quello schieramento proprio sotto la sua direzione.
Vero è anche però che molti atteggiamenti e posizioni personali sono cambiati apprezzabilmente e d’altra parte, come non si fa l’esame del sangue ad altri candidati per i loro pregressi ruoli istituzionali, non lo si fa neppure a chi ha rivestito ruoli pubblici differenti, ma del tutto comparabili.
Però se si fosse voluta costruire una notizia giornalistica, che so, si sarebbe magari potuto imbastirla (come sembrava di aver capito da qualche anticipazione un po’ enfatica) su una sfida diretta di collegio uninominale: “a Cagliari Muroni sfida Cappellacci”, che so, o una cosa del genere. Va bene, magari una cosa analoga si potrà costruirla sul proporzionale di circoscrizione al Senato, ma non è la stessa cosa e non credo che i giornalisti abboccheranno, perché saprebbe un minimo di paraculismo, essendo a quel livello una competizione piuttosto irrealistica.
L’altro terreno potrebbe (avrebbe potuto) essere il programma.
Ora, sono note le tribolazioni politiche di molti di noi, reduci dall’entropia autonomistica, ma fautori della soggettività sarda, federalisti democratici, ma desolati testimoni del degrado e dell’intristimento sottoprefettizio in cui le ultime gestioni del Governo della Regione Autonoma della Sardegna hanno precipitato l’Isola, mercè anche un’involuzione della cultura politica e istituzionale dei partiti e del ceto dirigente italiano che non pare conoscer fondo.
Nessuno può neanche trascurare che siamo reduci freschi dello scontro referendario del 4 dicembre 2016, al cui centro è stata la difesa della Costituzione della Repubblica da un attacco che avrebbe travolto anche la nostra specialità statutaria.
Tuttavia diversi di noi non hanno impostato la campagna referendaria in termini meramente difensivi, bensì l’hanno interpretata come riscoperta, attualizzazione e rilancio del programma fondamentale della Costituzione.
Il principio autonomistico di cui all’articolo 5 non è solo una indicazione organizzativa, per la Repubblica, nè contiene, anche con la specificazione delle specialità di cui all’articolo 116, il solo riconoscimento di un ristretto gruppo di identità territoriali. Esso tende alla realizzazione della finalità fondamentale contenuta nell’articolo 3, quella del raggiungimento solidale dell’uguaglianza sostanziale fra realtà individuali, collettive, sociali e territoriali che versano in condizioni differenti. Uguaglianza che può conseguirsi solo con strumenti appropriati e differenziati, mediante l’esercizio democraticamente articolato della sovranità popolare che sta, in premessa, nell’articolo 1.
Certo, in un contesto di unità della Repubblica: ma non vi è Costituzione democratica contemporanea, comprese quelle degli Stati federali, che quel principio non contempli espressamente.
La complessità di queste tematiche è emersa con carattere di assoluta pertinenza nella vicenda catalana (tutt’altro che priva di ombre dall’una e dall’altra parte), che, nel suo essere ancora non conclusa, resta lontana dallo scioglimento di questi nodi fondamentali.
Talchè sotto i profili teorici e politici d’interesse non astratto, ma attuale e concreto, il concetto di autodeterminazione non scioglie affatto quei nodi, ma li rinvia a un futuro indeterminato, nè più nè meno come è capitato di osservare a proposito del concetto di sovranismo che originariamente accomunava nell’esperienza di maggioranza e di governo regionale il Partito dei Sardi e i Rossomori, oggi schierati in campi reciprocamente opposti.
Nè può valere alcun paragone con la modesta esperienza corsa: gli autonomisti corsi rivendicano più autogoverno in senso proprio, non però ormai la separazione, per di più in un contesto nel quale la loro autonomia regionale dentro l’ordinamento francese ha un connotato meramente amministrativo neppure lontanamente paragonabile all’autonomia anche legislativa attualmente riconosciuta e fattualmente esercitata dalla Regione Autonoma della Sardegna.
Non uno di questi nodi si trova affrontato nel programma della coalizione “AutodetermiNatzione”. Già autodeterminazione non è indipendenza.
E il programma, fatta anche la tara della sua genericità (il mainstream mi pare, un po’ com’era quello del soriano “Progetto Sardegna” e del suo derivato “Sardegna Possibile”, quello del filone di “Città e Campagna” di fine anni ‘60-prima metà degli anni ‘70, forse un po’ più moderato e quasi da contemporaneo centrosinistra classico: certo, poteva buttar peggio), non affronta affatto le questioni che ci si aspetterebbe di veder affrontate.
Qual è il percorso, anche solo di massima, per una rifondazione della soggettività istituzionale sarda nel contesto attuale? In che rapporto si pone col disegno costituzionale repubblicano?
La suggestione di uscire dall’ombrello di quei programmi e di quei valori richiederebbe la puntuale definizione di programmi generali e di valori fondamentali di pari nettezza o di superiore portata, altrimenti non è cosa.
Non si venga a dire che il punto fondamentale è il “federalismo interno”: un concetto che il centrosinistra evocò nel 2001 per contrapporlo a quello di “federalismo” tout court proposto dalla Lega, ma che se declinato oggi solo sul piano del rapporto tra Regione ed enti locali, come si legge nel programma della coalizione di cui parliamo, non necessita, come pure si legge, di esser posto come obiettivo di una riforma dello Statuto vigente, perché è già oggi di intera competenza della Regione, sia mediante legge regionale statutaria, sia mediante legge regionale ordinaria. E a quel punto in un programma per le elezioni politiche italiane non ci sta a fare gran che. Non da solo, almeno e neppure al centro.
Insomma novità talmente straordinarie suscettibili di “bucare” l’attenzione di media giornalistici pur di bocca buona non mi pare di poterne evidenziare.
“Senza lodo nè infamia” sarebbe un giudizio misurato sull’immagine dell’operazione, a parer mio, risparmiando a chi legga la valutazione sulle altre parti che vado scorrendo del programma (però, che poverina e francamente bruttina, quella sull’ambiente! Ecchecaspita.).
Mettendomi nei panni degli interessati, più che della scarsa attenzione dei media strutturati mi preoccuperei del fatto che al momento la campagna non sembra bucare il web.
Anodino il simboletto (quando ci vogliono troppi concetti per spiegare un simbolo, vuol dire che una presa diretta non ce l’ha), piuttosto tendente al greve lo spot realistico dello scarabeo intento all’opera, francamente impudente lo slogan “La forza tranquilla”, per il suo essere analogo a uno spot del gruppo dirigente renziano; a me poi ha fatto rizzare la peluria, inframmezzato fra gli slogan di un altro spot, quel “Un nuovo inizio” che riesuma memorie occhettiane.
Non ho una grande opinione dei “creativi”, ma anche creativi modesti potrebbero sforzarsi di più.
Conclusivamente, non prevedo grandi successi, lo dico francamente, sottolineando tuttavia, che, qualora presi senza nervosismo, i miei appunti potrebbero anche esser valutati come suggerimenti utili, nella loro relativa tempestività.
Certo, se dismetterò il mio astensionismo non lo farò per votare un esperimento ancora così poco dotato di appeal e soprattutto così scarsamente connotato da radicale novità e da corrispondente nettezza.
D’altra parte se la cifra della proposta è “faremo meglio le stesse cose che potrebbe dire di voler fare chiunque altro, perché siamo noi i più bravi, i più coerenti, i più indipendenti”, a me pare un po’ poco, non mi basta e su alcuni degli esponenti che meglio conosco (stavolta non mi riferisco al “capo” della coalizione, tutt’altro), la mano sul fuoco proprio mi guarderei bene dal mettercela.
Tuttavia -stavolta nessun “in cauda venenum”- non gli lancio neppure contro alcun anatema. Vengo anzi incontro al loro desiderio che comunque, bene o male, di loro si parli.
Mi vado poi soprattutto convincendo, sul piano strettamente “tecnico”, che col Rosatellum in realtà nessun voto validamente espresso potrebbe risultare “inutile”.
Il meccanismo della legge infatti prevede l’utilizzo, anche per via di trasferimento diretto, di ogni voto, anche cioè di quelli dati alle liste rispettivamente apparentate, a favore dei maggiori partiti di due specifiche coalizioni, quella incentrata su Berlusconi-Salvini-Meloni e quella incentrata sul sempre più definitivamente Partito di Renzi.
AutodetermiNatzione potrà sottrarre voti più alla seconda, forse, ma, dopo l’accordo del PSd’Az con la Lega, potrebbe sottrarne non marginalmente, in Sardegna, alla prima e, per quanto probabilmente insufficienti per ottenere una rappresentanza parlamentare, non saranno voti riutilizzabili da nessuno nel calderone finale. E per me va bene così.
Quanto altre forze in campo, dubito che AutodetermiNatzione insidierà il M5S: il confronto, sia per il vento che tira, sia per una oggettiva comparazione in quasi tutti i collegi uninominali, mi pare sfavorevole, anche viste a consuntivo le liste al completo.
Non penso neppure che l’elettorato più ideologicamente motivato, come potrebbe essere, nonostante le varie traversie, quello di Liberi e Uguali o come potrebbe essere, nonostante l’imprinting minoritario, quello di Potere al Popolo, si sposterà dalle sue inclinazioni prevalenti. E per i fini ai quali ho accennato nemmeno quello dato a queste formazioni sarebbe tecnicamente un voto inutile. In un Parlamento eletto ancora proporzionalmente si tratterebbe di soggetti comunque meritevoli di rappresentanza.
Insomma buona fortuna a tutti.
Cercate tutti, anche gli “autodeterminazionalisti”, di tirarvela in modo meno autoreferenziale e di zapparvi meglio il consenso, che comunque, di questi tempi, gratis non arriva e neppure per bontà divina.

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