Festa della Repubblica nel ricordo di Giacomo Matteotti e della sua sempre attuale lezione di democrazia

2 Giugno 2019
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Gianfranco Sabattini

Nel giorno della Festa della Repubblica, è bello ricordare Giacomo Matteotti, i cui valori sono certamente alla base della nostra Costituzione e della nostra Repubblica.

In tempi non propri favorevoli al rispetto delle regole democratiche come quelli che stiamo vivendo, è doveroso, nel giorno dell’anniversario della Repubblica, ricordare l’esempio di un coraggioso militante socialista, Giacomo Matteotti. Per l’impegno profuso nella difesa della democrazia fino al sacrificio della vita, può essere a giusta ragione annoverato fra i padri ideali della nostra Costituzione democratica.

Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio del 1885 a Fratta Polesine; nel 1919 venne eletto al Parlamento nelle liste del Partito Socialista Italiano e fu confermato parlamentare nel 1921 e nel 1924. Nel 1922 venne espulso dal partito, per la fermezza con cui, negli anni Venti, egli si era opposto alla decisione della direzione massimalista del PSI di inoltrare domanda di ammissione del partito a fare parte della Terza Internazionale, motivando il suo dissenso per via del fatto che l’”Internazionale” poneva ai partiti che ne chiedevano l’adesione condizioni tanto rigide da cancellarne ogni autonomia decisionale.
Per questo motivo, la maggioranza massimalista chiese l’espulsione dei riformisti (tra i quali era schierato Matteotti), per indisciplina rispetto alle decisioni del partito; espulsione poi ratificata dal XIX Congresso che il partito tenne a Roma nel 1922. All’espulsione, Matteotti rispose, assieme a Filippo Turati, con la fondazione, il 4 ottobre dello stesso anno, del Partito Socialista Unitario, dal cui Congresso costitutivo, svoltosi a Milano, venne eletta la prima Direzione e, come segretario, lo stesso Matteotti.
Dall’interno del nuovo partito, il neosegretario Matteotti proseguì le sue battaglie di denuncia dei brogli elettorali, della violenza e degli atti di corruzione del fascismo, con un impegno ed una forza che gli sono valsi l’attribuzione dell’epiteto di “Tempesta”, da parte dei suoi compagni di partito. La gravità delle denuncie valse a costargli la vita; su mandato morale di Mussolini (come dimostra il discorso che il capo del fascismo tenne alla Camera il 13 gennaio del 1925 -  per porre termine alle critiche che il delitto era valso a sollevare nei confronti del Governo - in chiusura del quale, con spregiudicatezza, non esitò ad affermare che se il fascismo “è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità, perché questo clima storico, politici e morale io l’ho creato”. Insomma, anche negli ambienti informati sulla storia d’Italia della prima metà del secolo scorso, ad essere prevalentemente conosciute sarebbero le ragioni più immediate dell’uccisione di Matteotti, ma non quelle che dovrebbero indurre tutti a ricordare il martire come fulgido esempio di responsabile difensore della democrazia.
Il 10 giugno del 1940 (lo stesso giorno nel corso del quale Mussolini dal balcone di Piazza Venezia informava il popolo italiano dell’entrata in guerra contro Francia e Inghilterra), mentre si recava in Parlamento a denunciare le “tangenti” corrisposte dalla compagnia americana “Sinclair Oil” al regime fascista, Matteotti fu rapito da un gruppo di sicari fascisti (Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveruomo) che lo attendeva a bordo di una vettura in prossimità del lungotevere Arnaldo da Brescia, per poi ucciderlo ed occultarne il cadavere, facendo sparire la borsa che il parlamentare socialista portava con sé e tutti i documenti compromettenti in essa contenuti.
Se non fosse per le vie e le piazze a lui intestate e per le tragiche modalità con cui Matteotti è stato ucciso, il ricordo del martire sarebbe scomparso del tutto dalla memoria collettiva, nonostante che – come sottolinea Sergio Luzzato nella Prefazione al libro “Matteotti contro il fascismo” -  la sua figura ed il suo esempio appaiano particolarmente appropriati “per servire all’Italia contemporanea”. Perché?
Luzzatto indica due motivi che la classe politica attuale dovrebbe costantemente tenere a mente nello svolgimento del mandato ad essa conferito, quello di rappresentare il popolo italiano nell’assumere le decisioni più conformi alla soluzione dei problemi che lo angustiano: innanzitutto il “radicamento nel territorio”, col quale ogni parlamentare dovrebbe legittimare la propria candidatura a rappresentante popolare, e in secondo luogo il coraggio del quale disporre, al fine di difendere, anche al costo della vita, le istituzioni democratiche.
Il “radicamento” del quale a volte si lamenta la totale assenza, Matteotti lo interpretò – afferma Luzzatto – “in modo esemplare, dapprima quale amministratore locale di vari comuni del Polesine, poi, quale deputato di Rovigo al Parlamento nazionale”. Il “radicamento” del parlamentare Matteotti fu, oltre che economico e sociale, anche intellettuale. Sul piano economico e sociale, il deputato di Fratta Polesine non si stancò mai di denunciare le misere condizioni di vita dei braccianti del delta del Po; proprio per assolvere correttamente la sua funzione nell’illustrare le condizioni economiche e sociali del territorio che lo esprimeva come rappresentante parlamentare, allorché tornava al luogo natio, Matteotti non mancò mai di studiare ed approfondire la storia locale, senza escludere il costante aggiornamento sui problemi nazionali. A dimostrazione del senso di responsabilità con cui Matteotti svolgeva il suo ruolo di parlamentare possono ben valere le parole con le quali un suo compagno di partito lo descriveva, sottolineando che il deputato socialista “passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parole e con la penna, badando di restare sempre sulle cose”.
Nell’Italia a noi contemporanea, osserva Luzzatto, l’immagine di un rappresentante del popolo impegnato a studiare i problemi della circoscrizione elettorale che lo esprime “può apparire tanto eccentrica da riuscire surreale”. Come possono gli attuali rappresentanti del popolo essere sempre portatori dei problemi economici e sociali delle loro circoscrizioni elettorali, se le regole in base alle quali vengono espressi fanno spesso strame del principio del radicamento territoriale?
Ma il meglio di sé Matteotti lo diede nel discorso tenuto alla Camera dei deputati il 30 maggio del 1924, allorché denunciò le violenze ed i brogli elettorali consumati sotto la “regia del Governo fascista” in occasione delle lezioni politiche del 5 aprile precedente. Dura e puntuale fu la sua denuncia, consapevole che avrebbe esposto a rischio la sua stessa vita. “L’elezione, secondo noi - affermò Matteotti - è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni”: ciò perché il governo, per sua esplicita dichiarazione, considerava “le elezioni prive di valore”, in quanto “avrebbe mantenuto il potere con la forza”, se il responso elettorale non gli fosse stato favorevole.
A fronte delle violente contestazioni indirizzategli dalla destra, dal centro e dal Presidente del Consiglio, Matteotti così concluse: “Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. […] Voi volete cacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano […] e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni”. La sua richiesta di invalidare le elezioni venne respinta dalla Camera e, rivolgendosi ai suoi compagni di partito, Matteotti, presagendo la reazione di Mussolini, dichiarò: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. Puntualmente, dieci giorni dopo, il gruppo di sicari della cosiddetta CEKA (la seconda polizia politica fascista, dopo l’OVRA, che Mussolini aveva creato ispirandosi alla polizia segreta sovietica) procedette al suo sequestro e alla sua successiva uccisione.
Considerato lo stato al quale è oggi ridotta la politica italiana, è giusto chiedersi, come fa Luzzatto, “se non ci sarebbe un gran bisogno, qui e adesso”, di un politico come Matteotti, della sua idea di militanza quale servizio in pro dell’interesse pubblico anziché di quello privato, nonché della sua fede nella socialdemocrazia per il futuro di un mondo “più giusto e meno diseguale”.

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