Giovanni Maria Angioy: eroe della sardità o capo irresoluto?

8 Agosto 2019
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Andrea Pubusa

 

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Eroe della sardità o capo irresoluto? Calcolatore o profondamente ingenuo? Il libro di Francesco Casula sui tiranni sabaudi, fra i tanti stimoli all’approfondimento, ripropone la “questione angioyana”.

Francesco Casula dà conto delle svariate interpretazioni della azione dell’Alternos: quella che tende a presentarlo come un precursore della moderna autonomia della Sardegna, con la quale non contrasta la tesi di chi vede in lui un uomo che, sulla scia delle nuove idee diffuse dalla rivoluzione francese, ritenne giunta l’ora di spazzar via il regime feudale quale maggiore ostacolo all’affermarsi nell’isola del liberalismo borghese. Un po’ mitizzata la versione di un Angioy “eroe nazionale”, sostenitore dei diritti del popolo e vendicatore degli oppressi, secondo il filone politico-letterario della “costante resistenziale sarda” (per dirla alla Lilliu). Interessante anche il rilievo che Casula dà all’opinione di Eliseo Spiga, che ha il merito di ricondurre la questione all’analisi delle classi e delle forze sociali in campo.

E’ la mancanza di scritti a indurre alle più varie supposizioni sull’Angioy. Si scava nella psicologia chiusa e un po’ ambigua del personaggio, come se chiusi e ambigui non fossero i tempi e il luogo in cui è vissuto. Ma - come sempre - se anziché sovrapporre le proprie idee o le proprie aspettative - si fanno parlare i fatti, il personaggio emerge nella sua reale o più verosimile luce, si scioglie quel carattere enigmatico e quasi impenetrabile nei suoi intendimenti, che gli storici gli annettono, non potendo fondare sulle carte, su scritti significativi l’analisi critica per ricostruire con qualche certezza la genesi e lo sviluppo della sua ideologia politica.

Veniamo dunque ai fatti. Da questo punto di vista certamente, la “questione angioyana” non può essere esaminata badando soltanto al periodo epico della marcia su Sassari e poi su Cagliari. Una cosa è certa e indiscutibilie: il cosidetto “decennio rivoluzionario sardo”, che va dal 1789 al 1799, vide nell’Angioy un protagonista. Intellettuale di qualità superiore, non impiegò molto tempo a far parte dell’élite culturale e politica sarda. A Cagliari divenne in breve tempo docente nell’Università e membro della Reale Udienza. Dunque al vertice nella scala locale. Per di più sposò una donna ricca della famiglia Belgrano, dunque, era persona agiata.

Per comprendere il personaggio non è ininfluente la sperimentazione ch’egli fece della produzione e lavorazione del cotone. Non è indice di astratta curiosità. E’ piuttosto segno della sua apertura europea, se si pensa che allora in Inghilterra e nel Nord nasceva la moderna industria manifatturiera. Il collegamento ch’egli vagheggiava tra la produzione di filati, grandi vele e dunque flotta sarda è già un progetto di cambiamento profondo dell’Isola e della sua economia. Era insomma un intellettuale europeo, un po’ come lo fu Sigismondo Arquer nel ‘500 e come lo sono i vari Francesco Cillocco  e Francesco Sanna Corda dello sbarco in Gallura del 1802 e i Salvatore, Giovanni, Gaetano Cadeddu e gli altri intellettuali della congiura di Palabanda, anch’essi personaggi di primo piano nell’Isola e negli incarichi amministrativi e politici locali.

Il suo concorso alla difesa dell’Isola dall’attacco francese, chiamando a Cagliari, a sue spese, un contingente di combattenti da Bono, ci fa comprendere come anche nell’intellettualità più aperta alla cultura europea e, dunque, interessata ai sommovimenti d’Oltremare, l’indipendenza dell’Isola fosse un valore importante. Lo Stato sardo, esistente dal 1297, per loro non s’immedesima nei Savoia, la cui presenza nell’isola è casuale, se è vero la Sardegna nella pace di Utrecht (1713-1714) era stata inizialmente assegnata a Massimiliano Emanuele di Baviera, principe illuminato, deciso a trasferirsi stabilmente a Cagliari per assumere il titolo di re. E Angioy ben conosceva questa vicenda, perché cita nel Memoriale del 1799 il saggio “La Sardegna paraninfa della pace e un piano segreto per la sovranità 1712-1714“, nel quale si sostiene questa soluzione. La salvaguardia dello Stato sardo era l’obiettivo anche dell’ala avanzata del ceto professionale, il resto era rimesso alla mutevolezza degli eventi. L’indipendenza della Sardegna egli propugna anche quando nel 1799 chiede al governo francese d’invadere con le sue truppe l’Isola.

Questa sembra la posizione dell’Angioy, almeno fino alla conclusione della sua missione come Alternos e prima dell’esilio (Cardia). Nel Capo di sopra, messo di fronte all’alternativa secca e senza possibilità di mediazioni fra baroni ottusi e reazionari e vassalli oppressi, la sua posizione di fondo verso le alternative di quel tempo è chiara e netta. Egli lì varca il Rubicone e lo fa con decisione. Qui emerge la sua indole e la sua cultura di intellettuale europeo, aperto ai venti delle sorti magnifiche e progressive della borghesia e del liberalesimo contro i vecchi e superati istituti economici del feudalesmo.

Da questo punto di vista non può dirsi ch’egli sia stato indeciso o enigmatico. Anzi è proprio la sua cultura a renderlo consapevole del fatto che un cambio di passo così epocale come l’abolizione del feudalesimo potra avvenire o a condizione che il re, ancorché sulla base di una forte spinta interna, accogliesse l’innovazione, facendosene in qualche modo anche promotore o garante, oppure che ci fosse un intervento armato o politico esterno.

Angioy, marciando su Cagliari, non sembra voler uscire dall’alveo della legittimità (Cardia; Sole). In fondo era l’Alternos e con i poteri regi aveva agito. Del resto, a ben vedere, nella stessa direzione si muovono due celebri componimenti di quella stagione. Il celebre inno antifeudale, Su patriottu sardu a sos feudatarios, composto dal cavaliere Francesco Ignazio Mannu, membro dello Stamento militare e aderente alla componente angioiana del «partito patriottico», ricalca il quadro politico e ideale che emerge dalle rivendicazioni dei villaggi federati. E’ stato definito la «Marsigliese sarda», ma a ben vedere, invitando i baroni a mitigare la tirannia, dà esso stesso prova di moderazione. Insomma, la rivendicazione non è tesa all’abolizione generale del regime feudale, quanto a pretendere, più limitatamente, un’immediata «moderazione» dell’oppressione baronale: «Procurare de moderare, / Barones, sa tirannia…» (cercate di moderare baroni, la tirannia), recitano i primi versi dell’inno. L’avvocato Mannu incitava i vassalli alla ribellione antifeudale, ma per eliminarne gli abusi, le consuetudini inaccettabili e dispotiche («Custa, pobulos è s’ora / D’estirpare sos abusos! / A ter­ras sos malos usos, / A terra su dispotismu»), sottolineava l’illegittimità degli ordinamenti feudali che si erano con prepotenza sovrapposti ai diritti naturali degli abitanti dei villaggi, ma non attingeva alle suggestioni rivoluzionarie che venivamo d’Oltremare.

Anche l’Achille della Sarda Liberazione, diffuso nella primavera del 1796, si muove nello stesso ambito. Anch’esso – come l’Inno – fu una sorta di manifesto delle posizioni politiche e istituzionali della componente angioiana nel «partito patriottico», e anch’esso rimaneve entro i confini dell’ordinamento del Regno. Il processo di emancipazione dalla «schiavitù feudistica» veniva contenuto entro il perimetro della piattaforma stamentaria e quindi mirava alla piena realizzazione della «sarda costituzione». E così l’ignoto autore del documento prospettava un nuovo «patto sociale tra il sovrano e la nazione» che doveva definitivamente sancire da un lato l’impegno del monarca ad osservare le leggi patrie, dall’altro l’obbligo per la «nazione» di «rispettare le regalie del sovrano».

Come giustamente è stato notato, l’Achille si innestava “su un patrimonio culturale ancora permeato della tradizione giuspubblicistica sei-settecentesca” e delle idee del contrattualismo e della «monarchia mista», e solo vagamente è lambito dallo spirito delle costituzioni degli Stati Uniti d’America e della Francia rivoluzionaria. Lontane da ogni suggestione filofrancese e repubblicana, le tesi dell’Achille riflettevano posizioni e aspettative diffuse tra quei patrioti che auspicavano – a dispetto delle accuse mosse loro dai «realisti» e dai moderati – una monarchia costituzionale, fondata sul definitivo superamento degli ordinamenti feudali e sul riequilibrio paritario dei rapporti tra il Regno e la Dominante, senza ledere le «prerogative» della sovranità. C’era dunque una forte polemica antipiemontese, una visione dei problemi dell’isola intrisa di un forte spirito di autonomia e da una nuova accesa consapevolezza dell’identità patria della Sardegna. Ma si rimaneva nell’alveo delle cinque domande, ossia di un patto con pari dignità.

«Eterna guerra al feudalismo, ed ai suoi fautori, come nemici della Patria», «temperamento e una via di mezzo suggerita dall’equità», volta, seguendo la «ragione» e la «giustizia», alla«abolizione perfetta della tirannia», ma non della monarchia.

Anche da questi scritti, certamente filoangioyani, emerge non solo la debolezza della sua battaglia fuori del contesto logudorese, ma la fragilità della posizione antifeudale nel resto dell’Isola e a Cagliari. Angioy non era un uomo d’armi e poteva far prevalere la sua posizione o a mezzo di una sollevazione popolare diffusa, come avvenne nel Capo di sopra, o con l’appoggio esterno. Al suo interno il partito patriottico aveva varie anime, che già avevano visto incrinarsi l’unità nella battaglia sulle 5 domande, ma ora, di fronte alla più radicale prova dei fatti, si avviava al punto di rottura.

Sul piano sociale è pertinente il punto di vista di Eliseo Spiga che, più che a soli limiti soggettivi, riconnette le ragioni dell’insucesso della marcia di Angioy verso Cagliari alla mancanza di un appoggio dei pastori, meno interessati dei contadini ad abbattere il sistema feudale. Data la debolezza del sostegno sociale, prende risalto la questione della forza armata ed è decisivo il contesto internazionale. In quei mesi il Piemonte veniva invaso dalle truppe di Napoleone che, con una stupefacente fulmineità, infliggeva ai piemontesi ripetute sconfitte, talché G.M. Angioy poteva fondatamente ritenere che quegli eventi incidessero sulle vicende sarde. Gli stessi Savoia avevano un avvenire insicuro, con risvolti rilevanti anche in Sardegna. La sola incertezza sulla sorte dei Savoia poteva essere decisiva nel determinare la dislocazione delle forze in campo a favore dell’eversione del sistema feudale (Cardia). Ma gli eventi presero un’altra piega. La vittoria del grande Corso sui piemontesi fu così rapida da indurre Vittorio Amedeo III a firmare l’armistizio di Cherasco e successivamente il Trattato di Parigi, il 15 maggio 1796. A seguito della pace con i francesi i Savoia, seppure indeboliti, non vennero disarcionati. Angioy pensava a una durata più lunga di questa guerra, come scrisse poi nel Memoriale al governo francese del 1799, e, comunque, confidava che in quegli accordi si spendesse una parola per il superamento del feudalesimo in Sardegna (Cardia; Marroccu). Sarebbe stato un fatto forse decisivo. Ma non ci fu neanche questo e il contraccolpo fu terribile per l’Alternos. Senza alcun sostegno, anche solo politico, esterno il versante interno sul piano politico-militare era desolante. Qui la chiave di volta ha due nomi, sul piano politico l’Avv. Cabras e su quello militare Vincenzo Sulis. Era costui il comandante carismatico della milizia popolare, che nel 1793, all’apparire della flotta francese nel Golfo, aveva mirabilmente messo in piedi, trasformando in esercito, con qualche disciplina, un’accozzaglia di irregolari se non anche, in qualche misura, di ex malfattori. E questa milizia pendeva dalle sue labbra. Ma Sulis, si sa, era filosabaudo fino al midollo, tanto da esserlo anche in punto di morte dopo che, senza colpa e senza processo, il re lo aveva rinchiuso vent’anni nella torre di Alghero e, poi, il suo “amico” Vittorio Emanuele I mandato all’ergastolo a La Maddalena.

Per convincersene basta leggere la sua autobiografia in cui descrive non solo la formazione della milizia, ma anche il controllo militare ch’egli aveva in Sardegna. Non è un caso che i suoi nemici gli imputassero l’ambizione di diventare re, falsa insinuazione, respinta con sdegno dall’interessato, ma che comprova della forza militare prevalente ch’egli aveva nell’Isola a partire dal 1793, dal respingimento in mare dei francesi. E non è un caso che Napoleone a lui si rivolge per il tramite di un suo generale per mettere mano sull’Isola senza resistenza. Ma Sulis, come ho già notato, è un balente, un capo popolo, miope sul piano politico (Cardia), culturalmente debole, devoto ai Savoia anche dopo la sua atroce reclusione a vita, e fedele all’ordine costituito e perfino ai feudatari e al loro sistema, di cui semmai rintuzza gli abusi. Lo dice chiaramente nella sua autobiografia, dove esalta i suoi interventi per colpire gli eccessi dei feudatari nei confronti dei vassalli. Rimessi ciascuno al loro posto, feudatari e vassalli, nel rispetto delle regole, quel sistema per lui va bene e deve perpetuarsi.

Che da questo personaggio, tanto capace a comandare uomini, quanto stolto politicamente, Angioy non potesse aspettarsi alcun appoggio era noto all’interessato. Ben conosceva l’Alternos l’ottusità politica del capo-popolo cagliaritano, il quale d’altronde - nella sua autobiografia - ha parole di fuoco contro i congiurati di Palabanda, nonostante scrivesse dall’ergastolo maddalenino inflittogli dai comuni boia, i Savoia.

Sul piano politico, una buona parte di coloro che avevano sostenuto Angioy a Cagliari aveva visto l’operazione in chiave tutta interna nel contesto della rivalità fra Cagliari e Sassari, filospagnola. La svolta più radicale impressa agli eventi dal movimento antifeudale e assecondata da Angioy era fuori e anzi contro le loro aspirazioni. Nel frattempo il Re accoglieva le cinque domande ricomponendo il fronte moderato cagliaritano. L’Avv. Cabras spacca il partito patriottico e passa armi e bagagli sull’altra sponda, si accorda coi realisti.

L’avventura dell’Angioy, dunque, era segnata, per debolezze interne, debolezze ben note all’Alternos, che vengono esaltate dalla pace fra Napoleone e i Savoia. Ma all’inizio della marcia su Sassari l’esito non era scontato. C’erano tante variabili in campo, non ultima la possibile influenza sugli accadimenti isolani dell’attacco dell’Armée con a capo Napoleone in Piemonte (Cardia). Anzi è proprio questa consapevolezza delle forze in campo e della loro mutevolezza nella dinamica dei fatti, che esalta la figura di Angioy (Cardia). Questi, come tanti uomini nella storia passata e presente, ritrovano la loro grandezza nel fatto di aver consapevolmente tentato di forzare i tempi della storia, di anticipare il futuro. Di provare a volgere a proprio favore, nel corso dello scontro, un rapporto di forza in partenza non favorevole e incerto. In fondo, a pensarci bene, tutti i martiri sardi di quel periodo (Cillocco, Sanna Corda, Salvatore Cadeddu e gli altri), pur nella varietà delle posizioni, hanno in comune questa tragica grandezza. Hanno tentato, spesso a costo della vita o dell’esilio di portare in Sardegna quelle libertà e quei tempi nuovi che da altre parti, tortuosamente, si radicavano con miglior, seppure, anche lì, con alterna fortuna. Pisacane tanti anni dopo fu certamente meno prudente e tale fu in epoca più vicina a noi il Che. Ma questo non sminuisce il loro valore, anzi lo accresce. In fondo, la loro eroicità deriva proprio da questo. Sono un po’ come il sarto di Ulm: si sono muniti di ali e hanno tentato di volare; lo hanno fatto anzitempo e sono caduti rovinosamente al suolo, ma, anche grazie a loro, l’uomo poi ha volato.

 

 

 

 

 

 

 

6.- La rivolta di Palabanda e i suoi protagonisti

 

 

 

Il club di Palabanda, un po’ come le vecchie sezioni del Partito comunista e degli altri partiti popolari del secolo scorso, aveva una composizione mista: grandi intellettuali e popolani accomunati dalla battaglia sociale e politica. Basta una lettura veloce delle schede biografiche per rendersi conto di questa realtà. I fratelli Cadeddu e i loro figli erano certamente al vertice dell’intellettualità sarda. Salvatore e Giovanni occupavano cariche importanti all’Università e nelle istituzioni cittadine. Erano stati protagonisti di tutte le battaglie democratiche cagliaritane e sarde di fine Settecento. Angioy, nel suo memoriale del 1799, annovera Salvatore Cadeddu fra gli avvocati favorevoli alla causa della libertà. Insomma, non è fra i seguaci dell’Avv. Vincenzo Cabras, democratico poi pentito e passato dalla parte della monarchia.

Sono di alto livello anche gli altri intellettuali del gruppo, i professori universitari Giuseppe Zedda e Stanisalo Deplano, gli avvocati Francesco Garau e Antonio Massa Murroni.

E i popolani? In realtà erano dei dirigenti politici, formatisi e cresciuti nelle lotte sociali dell’ultimo ventennio. Così Raimondo Sorgia, che è conciatore, ma è anche un combattente e un dirigente di grande esperienza. Nella difesa contro i francesi del 1793 è “aiutante di campo del Corpo delle tre Cavallerie Miliziane” della Marina, Stampace e Villanova. E’ uno dei promotori e organizzatori della sollevazione per la cacciata dei piemontesi il 28 aprile del 1794. Il suo prestigio presso i ceti popolari è comprovato da alcuni incarichi delicati da lui ricevuti, come quello di provvedere, nel Quartiere di Marina, al ritiro delle armi sottratte il 28 aprile 1794 ai soldati del reggimento Schmid, o, ancora, su ordine dello Stamento militare, la distribuzione ai popolani di cartucce e polvere da sparo. Questa sua capacità di direzione e comando spiega perché fra l’altro fu nominato Vice Comandante delle Milizie di Marina. Insomma, un combattente di grande prestigio e seguito popolare con esperienza di comando militare. Forse l’erede più diretto di Vincenzo Sulis. Una figura centrale nei piani di rivolta di Palabanda.

Seppure a livello inferiore hanno caratteristiche simili i fratelli Fanni, Pasquale e Ignazio, e l’operaio Giacomo Floris, non a caso chiamati a reclutare e formare milizie popolari nel contado, in vista della Rivolta del 1812. Analogamente Antonio Cilocco è esperto di milizie popolari, avendo anche lui collaborato con Vincenzo Sulis, che lo aveva nominato sottotenente ”provvisionale” nel battaglione di Stampace.

In sintesi, le note biografiche mostrano che a Palabanda c’era un’avanguardia intellettuale e politica di primo piano, insieme ad una pattuglia di capipopolo-comandanti militari, formatisi alla scuola di Vincenzo Sulis nella difesa contro i francesi, nello “scommiato” e negli anni successivi fino al proditorio arresto del capopolo cagliaritano e alla sua feroce reclusione nella Torre dello Sperone ad Alghero. Sono personaggi con una lunga militanza e con una comunanza di esperienze di lotta, di grande prestigio e radicamento sociale. Sono evidentemente molto informati sul quadro europeo e insieme hanno il polso della dura condizione delle masse popolari non solo a Cagliari, ma anche nell’entroterra. Come dimostrerà poi la latitanza di Salvatore Cadeddu nel Sulcis, questi personaggi avevano una rete di appoggio nelle campagne. Ci sono, insomma, nel club di Palabanda, tutti gli ingredienti e tutte le qualità intellettuali, compresa l’attitudine all’azione militare e il radicamento sociale, per alimentare una rivolta con potenzialità di successo.

Fu tutto questo, insieme alla grave situazione interna (su famini de s’annu doxi) e al favorevole contesto internazionale (Napoleone attacca lo Zar, in Sicilia e a Cadice si conquistano due importanti Carte costituzionali), a indurre il re ad una dura repressione. E se ne comprende la ragione. Il club di Palabanda riuniva gli irriducibili di un ventennio di lotte, ormai decisi a fare i conti con la Corona. Il re aveva tradito i sardi che avevano difeso il regno nel 1793 dall’attacco francese ed aveva perfino recluso a vita il protagonista principale di quella resistenza armata, Vincenzo Sulis, organizzatore e comandante delle milizie sarde, fedele servitore dei Savoia. Aveva poi snobbato l’insurrezione popolare del 28 aprile del 1794, che rivendicava un ruolo di direzione dei sardi nella cariche pubbliche isolane. Infine, aveva ispirato la repressione dei moti angioiani, chiudendo ad ogni ipotesi di riforma. La prospettiva di Palabanda non era quindi orientata a improbabili “scommiati”, ma quantomeno ad una costituzionalizzazione del regno, come a Cadice e come in Sicilia. I giacobini di Palabanda anticipavano così di 10 anni la Costituzione del 1821, concessa da Carlo Alberto e prontamente ritirata da Carlo Felice, e di 35 anni lo Statuto albertino. Non a caso nella loro azione, non pochi studiosi di storia sarda, rinvengono le radici dell’autonomia regionale, il seme delle conquiste democratiche e costituzionali della metà del Novecento.

(Schede sui protagonisti di Palabanda sono pubblicate nel volume di  Vittoria Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793 – 1812, Edizioni Castello,  Cagliari 1996).

 

 

 

 

7.- Salvatore Cadeddu e Raimondo Sorgia: l’intellettuale e l’artigiano, simboli di Palabanda

 

Tra Salvatore Cadeddu e Raimondo Sorgia a prima vista c’è poco in comune. Grande intellettuale il primo, modesto artigiano il secondo. Eppure sono accomunati da tante cose. Anzitutto dalla morte: entrambi impiccati nel 1813 per la c.d. congiura di Palabanda. E quando gli uomini sono accomunati nella morte, vuol dire che anche le loro vite erano intrecciate, e non per questioni secondarie. E così fu anche per l’avvocato Cadeddu e il mastro conciatore Sorgia. Furono i moti popolari della Sarda Rivoluzione ad unirli e fu il comune impegno per la democrazia a perderli.

Entrambi fra i partecipanti con funzioni dirigenti ai sommovimenti del 1794 che portarono allo scommiato e a quelli dell’anno successivo contro il carovita. Entrambi sostenitori di Giomaria Angioy nel 1796. Entrambi dirigenti del popolo cagliaritano.

Cadeddu è “Contadore” della città di Cagliari dal marzo del 1773, procuratore della città di Alghero, membro dello Stamento reale. E’ nominato nel 1795 primo consigliere civico, carica che dà diritto ad essere prima voce dello Stamento reale, in sostituzione del dottor Raimondo Lepori, sospeso dall’incarico per aver fatto mancare il pane nei quartieri della Marina e di Villanova.

Sorgia svolge un ruolo di primo piano già nel respingimento dei francesi nel 1793 come “Ajutante di Campo del Corpo delle tre Cavallerie Mìlizìane” dei sobborghi della Marina, di Stampace e di Villanova, e merita “il gradimento di chi presiedeva al governo, ed all’ispezione sugli affari di guerra”. E’ in prima fila anche nell’emozione popolare del 28 aprile 1794 per l’espulsione i piemontesi dalla Sardegna. Mostra anche in quelle circostante molta applicazione; infatti, esegue “con vero patriotico zelo, non disgiunto dall’attaccamento all’augusta persona del Sovrano, ed al suo maggior servizio” tutte le incombenze che gli sono affidate all’oggetto di conseguire la tranquillità già turbata in questa Capitale, avendo anche servito di V. Comandante nelle milizie urbane della Marina senza stipendio alcuno”. Guida il popolo nelle richieste autonomistiche e diventa suo portavoce nello Stamento reale, e qui si incrocia con Salvatore Cadeddu che dello stesso Stamento diviene prima voce. Milita nel partito patriotico-democratico e il I° maggio 1794, con l’avvocato Efisio Luigi Pintor, propone l’adozione di un pregone con l’indulto a tutti i partecipanti all’emozione; la possibilità per alcuni rappresentanti del popolo di assistere alle riunioni stamentarie “acciocché sia consapevole di tutto quello che si tratta e si risolve, e si ordina”; la comunicazione agli Stamenti di quanto deliberato dalla Reale Udienza “onde concordare ne’ termini che dovrebbero essere i più onorevoli alla Sarda nazione e i più espressivi della fedeltà della medesima verso l’Augusto Regnante, e sua reale Famiglia”, ed infine la compilazione da parte della R U. di un registro ” di tutte le provvidenze che si danno”.

Sorgia, come esponente del partito patriottico, ha dalla Reale Udienza incarichi delicati e di fiducia, espressione della sua autorevolezza presso i ceti popolari.

Nello stesso mese di maggio del 1794 la Reale Udienza, su richiesta dello Stamento militare, gli affida l’incarico di provvedere nel quartiere della Marina al ritiro delle armi sottratte il 28 aprile ai soldati del reggimento Schmid, mentre il Pintor avrà la stessa incombenza per Stampace, l’avvocato Pala ed il figlio per Villanova, ed il visconte di Flumini per il Castello. E sempre lo Stamento militare propone, per non lasciar disarmati i popolani che dovranno costituire le milizie urbane, che vengano loro distribuiti i fucili che si trovano nei regi magazzini. Sempre in quel maggio vengono consegnate “al Sig. Tenente Colonnello Sorgia … la quantità di duemila cartuccie per i paesani, un cartoccio di polvere fina, ed un pane di piombo per formar palle di varia qualità, come dall’unita richiesta segnata dal riferito Sig. Sorgia, visata dal Generale” marchese di Neoneli. In giugno è “incombenzato della formazione del nuovo fortino di Sant’Elia” e gli si consegnano scudi 603 per pagare il materiale e gli operai.

Nel luglio del 1795 sottoscrive, con altri esponenti della Marina, la Rappresentanza inviata dagli Stamenti al re sull’occorso in Cagliari del 6 luglio, ed il Ragionamento giustificativo sugli avvenimenti dello stesso mese. E’ incluso per l’anno 1796 nella terna per la scelta del secondo sindaco della Marina. In ricompensa dei servizi prestati “in diverse occasioni, ed in critiche circostanze” il I° febbraio dello stesso anno gli viene conferita la nomina di “Direttore ed Ispettore provvisionale dei fortini eretti in questa città, non meno che nei suoi contorni col titolo di V. Comandante delle Milizie della Marina, coll’annesso salario di scudi cento cinquanta sardi…”. Tale incarico gli è confermato, con lo stesso stipendio, il 27 maggio 1799 “fino ad altra N.ra provv.za … durante la di lui servitù, ed a nostro beneplacito”.

Con questi trascorsi Sorgia condivide con Cadeddu i sospetti e l’ostilità del partito dei reazionari. Cadeddu è incluso negli elenchi dei “giacobini” trovati in casa del marchese della Planargia il 6 luglio 1795, tra i capi dell’emozione del 1794 e tra i membri dello Stamento reale che sostengono i capi rivoluzionari nel “promuovere l’Anarchia”; in un altro elenco di soggetti pericolosi l’avvocato è indicato, con “tutta la Giunta dello Stamento reale, come appartenente al partito del dottor Cabras”. Sottoscrive il 31 dello stesso mese per lo Stamento cui appartiene, insieme al marchese di San Filippo che firma per lo Stamento militare, una lista di 29 persone sassaresi pericolose che vengono proposte per l’arresto. E’ contrario alla richiesta presentata al viceré 1’8 giugno 1796 dagli ex democratici per la destituzione di Angioy e non firma l’elenco di sospetti di giacobinismo inviato al Vivalda il 13 giugno.

Anche Sorgia è tenuto d’occhio dal generale della Planargia e dall’intendente Pitzolo, e il suo nome compare più volte nelle carte sequestrate in casa del generale il 6 luglio 1795, nelle quali è annoverato tra i soggetti pericolosi e fra i capi dell’emozione del 1794, con un’attenuante: la sua partecipazione alla sommossa non aveva lo scopo di introdurre i francesi, pensiero che ossessionava il generale devotissimo al sovrano, “ma solo per dominare”, per sete di potere. In un altro appunto dell’ottobre 1794 si parla di un parere su una sua supplica e, annota il notaio Todde che classifica i documenti, che il parere, “benché sia favorevole è però alquanto velenoso, poiché lo caratterizza per uno dei principali autori dell’emozione del 1794″; un altro parere del mese successivo è a lui contrario. Ed ancora è registrata una “parlata” contro il generale, la nobiltà e il governo, “che supponesi da lui fatta nel caffè di Carboni”, il caffettiere che dopo il 15 aprile 1793 aveva offerto lire 2 e soldi 16 per opere di difesa contro i francesi. Insomma Sorgia e Cadeddu sono nelle liste nere dei democratici da controllare e possibilmente reprimere.

Era naturale che Cadeddu e Sorgia, con questi trascorsi, dovessero ritrovarsi nel podere di Palabanda a riflettere sul che fare in quel fatidico annu doxi, s’annu de su famini, insieme a tanti altri democratici dei quali è rimasta memoria nelle carte: gli avvocati Gerolamo Boi, Efisio Luigi Carrus, Stanislao Deplano, Francesco Garau, Antonio Massa Murroni, Giuseppe Ortu; i tre figli di Salvatore Cadeddu ed il fratello di questi Giovanni; il sacerdote Gavino Muroni; il professore Giuseppe Zedda; il padre Paolo Melis delle Scuole Pie; Antonio Cilocco, fratello del notaio Francesco, ed Efisio Frau; i fratelli Giuseppe, Ignazio e Pasquale Fanni di Sant’Avendrace; lo scultore Paolo Frassetto; gli artigiani e gli operai Giacomo Floris, Potito Marcialis, Salvatore Marras, il sarto Giovanni Putzolu, e molti altri sconosciuti. Anche le vite di costoro sono intrecciate da tante azioni e pensieri comuni nella mobilitazione di quegli anni per lo sviluppo della democrazia in Sardegna. Riunendosi nell’orto di Palabanda pensavano di dover riprendere l’iniziativa dal basso e dare vita a un moto insurrezionale, rimettendo in campo le forze popolari, come nel 1794. E questa loro coerenza democratica li accomunò nelle condanne a morte e nella forca, nelle condanne all’ergastolo e alla galera, vittime illustri, di parte intellettuale e di parte popolare, della repressione sanguinaria dei Savoia.
Di Raimondo Sorgia sappiamo che dignitosamente affrontò il patibolo con Giovanni Putzolu. Di Salvatore Cadeddu ci è rimasto un ricordo dello storico Martini, che ci dice di quale tempra fosse il padrone di casa di Palabanda: “Amato come egli era e riverito dai concittadini, per la gravezza degli anni, per le cariche onoratamente coperte nel liceo e nel municipio, per la gentilezza dei modi, per le pratiche divote e per la fama costante di buon cittadino, non fuvvi uomo d’animo sensitivo che non ne compiangesse l’infortunio, in quel giorno sopratutto che perdette miseramente la vita”.

 

 

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