Weimar ovvero perché muore una Costituzione

14 Maggio 2009
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Gianluca Scroccu

La Costituzione di Weimar ha affascinato intere generazioni di giuspubblicisti democratici ed ha esercitato una grande influenza sulle assemblee costituenti del secondo dopoguerra, compresa la nostra.
Questa Carta è stata approvata dopo sei mesi di lavori, il 31 luglio del 1919, e diviene legge l’11 agosto. Prevede una repubblica federale (il territorio viene suddiviso in 17 Lander = regioni); un Reichstag eletto a suffragio universale, a partire dai vent’anni di età, con il sistema proporzionale, cui spetta il potere legislativo; la possibilità di promuovere referendum e leggi di iniziativa popolare; un presidente del Reich eletto direttamente ogni 7 anni, cui spetta il potere esecutivo, la nomina del cancelliere, la guida dell’esercito. All’epoca viene considerata un gioiello di liberalità, basata com’è su di un delicato mélange di parlamentarismo e presidenzialismo. Molti diritti ed istituzioni, che oggi sono normali in tutti i paesi democratici, nascono proprio in quei giorni. Per la prima volta, anche le donne hanno il diritto di voto e i sindacati ottengono competenze importanti che possono migliorare la situazione dei lavoratori. Insomma, sono gettate le basi per far crescere una nazione democratica. La Germania adotta perfino una nuova bandiera, quella nera, rossa e oro del 1848. Ma c’è come, notò il giurista Kircheimer, una indecisione: l’articolo 48, che ammette la proclamazione dello stato d’eccezione, ossia la soppressione delle libertà costituzionali …per difendere la Costituzione. Questo articolo ha purtroppo assunto una grave importanza storica: esso prevede che, ove la sicurezza dello Stato sia posta in pericolo, il presidente abbia facoltà di prendere provvedimenti d’emergenza con valore di legge. E, almeno sul piano costituzionale, fu attraverso questa norma che si aprì un varco che poi travolse l’intera Costituzione, aprendo la strada al nazismo.
Su Weimar si è scritto tanto e non solo dai costituzionalisti. Ora, un saggio di Eric Weitz riesplora l’esperienza della Repubblica di Weimar, con riflessioni valide anche per il nostro tempo, in cui le Costituzioni - ed anche la nostra - sono sottoposte a eversioni sostanziali, nonostante il permanere dei testi formali.
Ecco perché ricordare Weimar non è pura esercitazione storica, come ci dice Gianluca Scroccu in questa bella recensione del libro di Weitz.

“La Germania di Weimar continua a parlarci”, così scrive lo storico Eric Weitz nell’introduzione del suo libro La Germania di Weimar. Utopia e progetto (Einaudi, pagine 446, euro 38). Un’affermazione, quella del docente di storia contemporanea dell’Università del Minnesota, che si può comprendere meglio se si valuta la rilevanza delle opere di grandi pittori come Grosz, o le continue rappresentazioni di capolavori del teatro come L’opera da tre soldi di Brecht, per non parlare dei film di Fritz Lang o della forza del Bauhaus e dell’arte di Gropius. Quell’esperienza ci interroga perché ci porta a riflettere su una nazione che seppe superare la disfatta nella Prima guerra mondiale e il cambio di regime istituzionale con il passaggio dall’Impero alla Repubblica, ma che non riuscì a sopravvivere alla furia del nazionalsocialismo.
L’autore si sofferma sulle profonde modificazioni del tessuto sociale ed economico della neonata Repubblica. Ci porta dentro un nuovo sistema sociale, retto da una Costituzione dalla straordinaria modernità, che seppe migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti con importanti progetti di edilizia pubblica che introdussero comfort come l’acqua corrente e l’elettricità negli appartamenti della classe media e degli operai specializzati. O che seppe mettere in luce un nuovo protagonismo delle donne, seppur non a livello di massa, che ottennero il diritto di voto e poterono usufruire degli spazi, anche nella propria vita sessuale, che venivano aperti da una società più liberale dalla straordinaria vitalità culturale, rappresentata al meglio dai caffè di Berlino dove si discuteva e si ascoltava il jazz. Ma era un cambiamento che non ebbe la forza di rovesciare il vecchio ordinamento sociale. Le tensioni provocate dalla guerra, aggravate dalle dure condizioni imposte dalla Pace di Versailles, covavano dentro un paese in cui convivevano tanto le vecchie aristocrazie che l’esaltazione della lotta di classe.
Un contesto che dovette sopportare la terribile inflazione dei primi anni Venti, che causò la morte per fame e stenti di almeno settecentomila tedeschi, sino a quella ancora più grave del 1929, con la gente che accatastava in strada valigie piene di biglietti di banca senza valore. Un paese ricco di contraddizioni dove i partiti democratici convivevano con quelli dell’estrema destra e sinistra, a loro volta ostili verso i processi democratici, preferendo la violenza e la radicalizzazione della lotta politica. La democrazia di Weimar, per l’autore, fu insomma un’incompiuta, uno Stato che non seppe mai allargare i suoi principi facendoli diventare patrimonio comune della maggioranza dei tedeschi. Un’esperienza che dimostra ancora ai nostri giorni quali rischi possa correre una democrazia che non riesce a consolidare un consenso sociale attorno alle sue riforme e che non è capace di arginare il degrado della lotta politica interna lacerata dalla feroce contrapposizione dettata dalla logica dell’amico/nemico, ovvero quella che impedisce un’analisi attenta dei problemi della società e che cerca nella violenza e nell’individuazione di capri espiatori su cui scaricare le difficoltà della popolazione le chiavi del suo potere.
La storia dei quattordici anni della Repubblica di Weimar è illuminata da squarci di assoluta modernità destinati a segnare profondamente la cultura mondiale, ma che non riuscirono a disperdere le ombre che si sarebbero progressivamente concretizzate nel più spaventoso esperimento politico della storia umana: il nazionalsocialismo guidato da un piccolo caporale di origine austriaca, Adolf Hitler.

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