Perché si dissolvono i partiti socialisti europei?

14 Gennaio 2010
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Gianluca Scroccu

Un recente volume del docente della Bocconi Giuseppe Berta analizza la crisi dei partiti della sinistra europea eredi di una grande tradizione. La dissoluzione della socialdemocrazia, al pari di quella dei partiti comunisti, non è dovuta a mano nemica, ma ad un male oscuro. Ciò che non poterono i reazionari di tutte le risme e perfino i nazifascismi avviene oggi sotto i nostri occhi. Perché? Ecco un libro che ci fa capire, ottimamente presentato da Gianluca Scroccu. A seguire una postfazione tutta italiana del nostro Amsicora per gli smemorati.

“La causa della sconfitta è da individuare nel fatto che, mentre in teoria il nuovo Labour e l’Ulivo mondiale erano una fucina di novità, la prassi di governo di Tony Blair e i governi che ad esso si erano ispirati si limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio”. È uno dei passi più significativi di un recente articolo di Romano Prodi sulle difficoltà dei progressisti europei, manifestatesi apertamente anche nelle ultime consultazioni europee. Tesi che sembrano riecheggiare le argomentazioni presenti in un agile quanto prezioso volume di Giuseppe Berta intitolato significativamente Eclisse della socialdemocrazia (Il Mulino, pagine 136, euro 10).
Docente di storia contemporanea alla Bocconi, l’autore analizza nel libro le ragioni della crisi dei partiti eredi della grande tradizione socialdemocratica, ovvero di quella proposta politica progressista che era riuscita nel corso del Novecento a costruire un sistema di regole all’interno del capitalismo promuovendo politiche di welfare state e di uguaglianza in alternativa al modello totalitario sovietico.
Se in passato è esistita una chiara identità dei partiti socialdemocratici europei, per l’autore oggi si assiste invece ad una sua lenta dissoluzione che ha avuto il risultato più evidente nella scomparsa di un profilo definito del socialismo europeo a favore di politiche che hanno privilegiato la dimensione del successo individualistico a quella del progresso generale e collettivo. Lo storico si sofferma in particolare sulle esperienze della Spd tedesca e del New Labour di Tony Blair, ma la sua analisi riguarda in generale tutti i partiti europei di sinistra, colpevoli di aver perso l’ambizione di trasformare e regolare severamente le dinamiche selvagge della globalizzazione, preferendo una gestione notarile dei processi sociali mirante solo a favorire il dominio assoluto del mercato e che al massimo si è concentrata sulla retorica della formazione e dell’istruzione di ogni singolo lavoratore, strategia fallimentare come ha dimostrato l’attuale crisi economica globale.
Le differenze dei socialisti europei si sono evidenziate per lo più sulle modalità con cui si sono affrontate le questioni legate ai diritti civili o alle principali vicende della politica estera relative alla pace e alla guerra al terrorismo post 11 settembre, come nel caso dell’esperienza spagnola guidata da Zapatero: sul piano delle politiche economiche e fiscali, invece, il percorso di adeguamento alle retoriche della globalizzazione è stato pressoché unanime. La questione di una redistribuzione delle ricchezze che rimetta al centro le rivendicazioni del ceto medio sembra del resto essere tornata d’attualità anche negli Stati Uniti guidati da Barack Obama, che sulla riforma sanitaria sta scommettendo molto del suo profilo riformatore provocando, non a caso, la reazione della destra repubblicana che ha accusato il presidente americano di essere un socialista.
Secondo Berta, alla sinistra europea, e a quella italiana in particolare, per risollevarsi da questa scomparsa degli ideali socialdemocratici, servirà un progetto credibile di trasformazione della società che magari si ricordi della lezione di Keynes sulla necessità di abbattere concretamente le disuguaglianze attraverso la piena e buona occupazione e il recupero della virtù sociale dell’impresa non legata al mero profitto, una strada che si dovrà riprendere se si vorrà ridare la speranza di un mondo dove possano convivere valori come la giustizia sociale e la libertà del cittadino.

Postfazione di Amsicora per gli smemorati

In Italia l’assassino del PSI ha un nome: Bettino Craxi, che lo uccise nel peggiore dei modi, affogandolo negli scandali e nel malaffare.  
Ricordate? Il 17 febbraio 1992, l’ingegnere Mario Chiesa, esponente del Psi, già assessore del comune di Milano,viene arrestato e dopo cinque settimane di carcere il 23 marzo 1992 inizia a confessare svelando ai pubblici ministeri dell’inchiesta Mani Pulite il complesso sistema di tangenti che coinvolgono i dirigenti milanesi del Psi, primo fra tutti, Paolo Pillitteri cognato di Craxi. Nel frattempo le inchieste di Tangentopoli, guidate da Antonio Di Pietro e dagli altri magistrati della Procura di Milano vanno avanti in tutta Italia e, fatto nuovo, dopo le elezioni politiche che registrano il crollo dell’intero Pentapartito, il nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro rifiuta di concedere incarichi ai politici vicini agli inquisiti. Craxi è costretto a farsi da parte, al suo posto viene nominato Giuliano Amato.
Poco dopo, Craxi si vide costretto a dimettersi anche dalla segreteria del PSI.
Poi una “pioggia di avvisi di garanzia” cade sulle teste dei principali leader politici nazionali. Il PSI è travolto dalle inchieste, la sua dirigenza è letteralmente decimata. Craxi stesso cumula una ventina d’avvisi di garanzia e dopo aver accusato la Procura di Milano di muoversi dietro “un preciso disegno politico”, si presenta alla Camera il 29 aprile del 1993 e in un famoso discorso tuonò: “Basta con l’ipocrisia!”; tutti i partiti –secondo Craxi– si servivano delle tangenti per autofinanziarsi, anche quelli “che qui dentro fanno i moralisti”. La sua linea di difesa fu incentrata sulla tesi secondo cui i finanziamenti illeciti sarebbero stati necessari alla vita politica dei partiti e delle loro organizzazioni per il mantenimento delle strutture e per la realizzazione delle varie iniziative; il suo partito non si sarebbe discostato da questo generale comportamento e, quindi, più che dichiarare sé stesso innocente, Craxi giungeva a sostenere che egli era colpevole né più né meno di tutti gli altri.
Il 29 aprile 1993, la Camera dei Deputati negò l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti provocando l’ira dell’opinione pubblica.
Il 30 aprile in tutt’Italia si svolsero manifestazioni di protesta. A Roma una folla invase Largo Febo e attese Craxi all’uscita dell’hotel Raphael, l’albergo che da anni era la sua dimora romana.Quando Craxi uscì dall’albergo, i manifestanti lo bersagliarono con lanci di oggetti, insulti e soprattutto monetine e cantilene irridenti. Con l’aiuto della polizia, Craxi riuscì a salire sull’auto e poi lasciò l’hotel. Quest’episodio, ritrasmesso centinaia di volte dai TG, è il simbolo della fine politica di Craxi e del PSI.
Il resto è noto. Il 15 aprile 1994, con l’inizio della nuova legislatura in cui non era stato ricandidato, Craxi cessò il mandato parlamentare e venne meno l’immunità dall’arresto. Il 12 maggio 1994 gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, ma era già troppo tardi perché Craxi era già in Tunisia ad Hammamet, protetto dall’amico Ben Alì. Il 21 luglio 1995 Craxi sarà dichiarato ufficialmente latitante.
Così ignominosamente Craxi uccise il PSI, un glorioso partito della sinistra italiana, un tempo ricco di galantuomini.
Quale modernità vedano gli estimatori  di sinistra in Craxi è difficile capire. Certo, non si poteva pretendere che tutti i socialisti fossero come Oddino Morgari, deputato di fine ottocento, che quando stava a Roma non potendo permettersi di pagare un albergo, dormiva in treno e al mattino usava le docce di Montecitorio. Allora i parlamentari non avevano indennità. Ma finire nell’eccesso opposto e affogare nelle tangenti!
Craxi ci ha lasciato anche una pesante eredità: Berlusconi, ch’egli favorì in tutti i modi e che prese il testimone quando lui fu costretto a lasciare. E non è un caso che siano proprio i berlusconiani a volergli dedicare strade, piazze e ad ergergli monumenti. Ma che c’entra la sinistra in tutto questo? 

1 commento

  • 1 Bomboi Adriano
    14 Gennaio 2010 - 15:45

    Buongiorno,

    Non un’osservazione ma quasi, con una nota bibliografica integrativa: Nel 2002 (se non ricordo male) lo storico Luciano Canfora pubblicò un breve saggio “Critica della retorica democratica” nel quale - oltre all’oggetto del testo in se - si partiva da un assunto similare: Se le democrazie sono perlopiù composte da una maggioranza non qualificata a governare (poiché non tecnicamente preparata nella mole di interventi richiesti da uno stato moderno), la politica che ha ricevuto il mandato dagli elettori cede il passo alla tecnocrazia: e quest’ultima si conforma inevitabilmente con le esigenze di mantenere (da un lato) i conti pubblici in ordine (dove possibile) e dall’altro di assecondare i regimi di crescita imposti dal mercato globale. Veniva quindi fatto l’esempio della socialdemocrazia di Blair. - Il biografo di Craxi -Massimo Pini- invece in un volume di qualche anno fa ricorda a più riprese quanto proprio il leader socialista fu tra i primi a denunciare in Europa il progressivo sgretolamento del welfare state a cui tutti i Paesi (socialdemocrazie e non) sarebbero andati incontro nel prossimo futuro. - No comment sui furti individuali e collettivi dei partiti della prima repubblica.

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