Pomigliano, che fare?

27 Giugno 2010
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Mario Tronti


La straordinario moto di dignitò che gli operai di Pomigliano hanno manifestato col loro voto assume una indubbia centralità nel rilancio della lotta per i diritti dei lavoratori e per la difesa della Costituzione che sul lavoro è fondata e che pone come motore perpetuo della tensione verso la giusizia sociale e l’eguaglianza la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione sociale, politica ed economica del Paese (art. 3). E’ per questo che riteniamo utile proseguire nella riflessione su questa importante pagina di lotta politica e sociale e pubblichiamo uno stralcio dell’articolo, apparso col titolo “Il che fare di Pomigliano” su Il Manifesto il 25, giornata di sciopero generale indetto dalla CGIL  Mario Tronti è uno dei più fini intellettuali d’ispirazione operaista della sinistra italiana.

[…] La notizia qual è. E’ che questa volta gli è andata male. E gli è andata male per il solo merito di quel 40% di operai che hanno detto: non ci stiamo. E per il solo altro merito di quella Fiom, che si voleva sconfiggere una volta per tutte, ultimo residuo di una conflittualità operaia, estrema espressione fuori tempo di quella novecentesca – e oggi dire novecentesca è come dire medioevale – lotta di classe. Insomma, l’hanno voluta mettere sul piano simbolico e sul piano simbolico hanno rimediato una sconfitta. Guardate come arretrano i grandi organi di opinione: ma forse c’è ancora un problema lavoro, ma dunque c’è lavoro materiale e non solo immateriale, ci sono tute blu e non solo camici bianchi, c’è il salario e non solo partite Iva.
Eppure il punto da mettere in evidenza non è questo. Chi se ne importa di quello che dicono. Il fatto da cui bisognerebbe ripartire è questo nuovo livello di conflitto emerso nella vicenda, che loro hanno evocato e che quegli eroici «no» hanno rovesciato: da un lato ricchezza e potere dall’altro dignità e libertà. Da un lato l’arroganza di chi credeva di avere tutto nelle proprie mani, dall’altro chi ha rivendicato l’indisponibilità di alcune cose precise. Voi mettete 700 milioni e io vi dico che non mi vendo per questo, non metto a vostra disposizione la mia persona, rischio il lavoro ma tengo la testa alta e la schiena dritta. Una lezione. Non morale, ma politica. Viene da quel mondo. E apre una nuova frontiera a una sinistra moderna. Non direi tanto lavoro e diritti. Direi di più lavoro e persona. Quel referendum in quel modo, sotto quelle condizioni, come ricatto sulla vita, sull’esistenza delle persone, non andava accettato. Era dovere di tutta la Cgil, era dovere di tutto il partito democratico, mettersi di traverso. Mi interessano qui meno gli sbreghi alla legalità, che pure c’erano, erano gravi e vanno ancora denunciati. Quel referendum era politicamente illegittimo. Era finalizzato a mettere gli operai contro la loro organizzazione e a mettere gli operai contro altri operai. Esito questo ancora presente, se dovessero emergere reali pericoli per l’occupazione. Adesso bisogna ricostruire una unità di lotta e costringere il padrone a trattare. La Fiat oggi è più debole e meno lucida, come si è visto dalle prime reazioni. E il governo non ha proprio niente da dire. Bisogna non aspettare, passare all’attacco, come sindacato generale e come partiti politici, proporre soluzioni e far cadere la discriminante anti-Fiom. E’ il programma minimo.
Ma c’è un compito di più lungo periodo. La lezione va appresa. Il Pd ha preso sabato scorso una lodevole iniziativa: un’assemblea popolare contro la manovra governativa. Mi dicono sia riuscita molto bene, soprattutto nel discorso appassionato del segretario. Si poteva fare di più e meglio. In quella settimana, con rapida decisione, ad esempio, spostare il raduno dal Palalottomatica a Pomigliano. Senza tante parole, con un solo gesto, si sarebbe fatto capire che cos’è, e che cosa dovrebbe essere, un partito che si colloca in quello spazio fisico del Parlamento e del Paese. Non si trattava nemmeno di prendere posizione sul come votare, ma solo di stare lì, con gli operai del si e del no, a giocare la partita e non a vederla in tv. I giornali-guida del centro-sinistra li avrebbero colti in fallo al richiamo della foresta. I nativi sarebbero rimasti sconcertati, perché, immagino, la parola operai è come la parola compagni, qualcosa che non appartiene alla «loro» tradizione. Ma un popolo avrebbe respirato. E certo, non il popolo viola, che cercasi invano nei dintorni del problema Pomigliano. C’è da arrabbiarsi di fronte a certe mancate occasioni. E badate che questa rabbia cresce, è più diffusa di quanto si pensi. La sento arrivare su di me da varie parti. E solo per questo la esprimo. E non è un’istanza distruttiva, è un’energia positiva, nascosta nel fondo del paese, che bisogna far emergere, e farla parlare e parlare ad essa con le parole della politica, sottraendole le parole dell’antipolitica, con cui troppo spesso è costretta ad esprimersi. Occorre tornare a dirigere, a orientare, a indirizzare, per grandi segnali, in luoghi giusti e negli spazi che contano e che fanno veramente la differenza.
Il problema non è il Cavaliere, il problema è il Cavallo, e cioè questo modo d’essere che occupa le nostre vite e che osa sempre di più per avere un comando assoluto, modo d’essere di privilegi intoccabili, di poteri arroganti, di ingiustizie palesi, di sistema di leggi eterne, oggettive, dicono, nei cui confronti non c’è niente da fare se non piegarsi e obbedire. Ascoltateli questi «no» di Pomigliano: segnano il «che fare» per un’operazione forte di un grande partito a vocazione alternativa.

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