Non c’è tempo da perdere: per un intervento forte dall’alto o una grande coalizione antiberlusconi?

18 Aprile 2011
2 Commenti


Alberto Asor Rosa (con chiosa di Andrea Pubusa) 

Alberto Asor Rosa, uno degli intellettuali più acuti e irregolari dell sinistra italiana, colpisce ancora, con questo articolo apparso su Il Manifesto  che ha suscitato molti commenti. Solitamente concordo con le riflessioni di Asor Rosa, ma questa volta il dissensso è netto, non sulla gravità della crisi italiana, ma sui rimedi. In realtà egli pone in concreto una questione molto dibattuta da sempre fra i giuspubblicisti e i politici, e cioè se sia ammissibile che in circostanze estreme possa e debba farsi ricorso allo “stato d’eccezione” per salvare la democrazia. Il quesito è questo: per salvare le libertà fondamentali, è bene sospenderne l’esercizio in taluni aspetti essenziali, per difenderle con mezzi straordinari e poi riprendere la normale vita democratica?
La questioine è stata dibattuta anche nella nostra Assemblea costituente, con esito negativo: la nostra Carta non prevede e non ammette lo “stato d’eccezione”, a differenza di quanto prevedeva la Costituzione di Weimar, che pure ha in molti punti influenzato i nostri costituenti. La risposta negativa nasceva proprio dai tragici fatti che aprirono la strada a Hitler nel ‘33 e prima ancora a Mussolini. E provano il contrario di quanto Asor Rosa sostiene. Vittorio Emanuele III nel 1922 non ordinò alle truppe di fermare la marcia su Roma e anzi nominò primo ministro Mussolini, che andava invece affidato alle patrie galere, Analogamente, il vecchio Hinderburg nel ‘33 non sbarrò la strada ad Hitler, nonostante la Carta di Weimer ammettesse la proclamazione dello “stato d’eccezione”. ossia l’attribuzione di poteri eccezionali al Presidente del Reich (cioè, il Presidente della Repubblica di Weimar).
Questa forma di dittatura costituzionale destinata a emergere durante lo stato d’eccezione - cioè durante una guerra, una rivoluzione o crisi gravi - secondo Karl Schmitt, il padre di questa teoria e non a caso il maggior giurista tedesco durante il nazismo -  evidenzia la vera essenza del diritto. alla base del quale ci sarebbe una decisione d’imperio posta da chi, a un certo punto, si trova effettivamente in condizione di imporla. È questa decisione originaria, incondizionata e arbitraria perché fondata sostanzialmente sulla forza, a raccordare la società col diritto. Passato lo stato d’eccezione, l’energia fondatrice si istituzionalizza formalmente, il dittatore si eclissa e dal caos si passa di nuovo all’ordine, fino alla successiva crisi. Nel ‘22 e nel ‘33 i colpi di forza ci furono, ma, nell’uno e nell’altro caso in senso contrario rispetto a quanto auspicato oggi dal grande storico della letteratura italiana, Interventi dall’alto sì, seppure apparentemente omissivi, ma a favore dell’eversione totalitaria. Di qui la convinzione dei nostri costituenti, riassumibile in un concetto: “la democrazia si difende con la democrazia”, i diritti inviolabili si difendono favorendone l’esercizio, praticandoli non sospendendoli. Ed è quanto occorre fare anche oggi. D’altronde, da chi potrebbe provenire l’ordine alle forze armate? E per far cosa? E chi dovrebbe guidare la transizione?
Se voleva provocare le menti intorpidite e instupidite dei democratici italiani, Asor Rosa ancora una volta ha centrato l’obiettivo, ma la risposta non può che essere iscritta nei percorsi ammessi dalla Costituzione. E quello più fattibile è individuabile nella onesta e dichiarata costruzione di una grande alleanza da Ferrero e Vendola, a Bersani, Di Pietro fino a Casini e Fini con un obiettivo dichiarato: un’azione ferma e decisa per mandare all’opposizione Berlusconi e Bossi (non un “volemose bene”  generale, come paiono ipotizzare Pisanu e Veltroni), Il tempo per rimettere a posto le istituzioni centrali e le tante altre cose da aggiustare, dalle autonomie locali alla giustizia, e poi,  ricondotto il Paese alla normalità democratica, dar vita ad una fisiologica alternativa fra conservatori e progressisti, fra destra costituzionale e sinistra costituzionale. Le scorciatoie in questa materia portano solo a sbattere la testa al muro. I colpi di forza anche se motivati da intenti democratici di solito raggiungono l’esito opposto: limitano le libertà.        
 

Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell’ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff…» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d’immondizia sottostante, che, invece d’essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand’è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell’autunno del 1922, avesse schierato l’Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C’è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l’Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l’area della corruzione, al centro come in periferia: l’anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all’interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E’ stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l’alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l’esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell’alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un’altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall’alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d’emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d’autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d’interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l’Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l’Italia del ‘24, la Germania del febbraio ‘33), non ci resti che dolercene.

2 commenti

  • 1 aldo lobina
    18 Aprile 2011 - 23:49

    No, Asor Rosa, la democrazia si conquista o si riconquista con fatica, giorno dopo giorno. Va meritata la democrazia! Chi non la merita si abbia quello che passa il convento: B, Ruby, il processo breve, l’immunità, l’impunità, tutte le leggi ad personam, gli yes man del parlamento, i responsabili e via dicendo. I colpi di Stato lasciamoli ai nemici della democrazia.

  • 2 michele podda
    19 Aprile 2011 - 09:17

    Penso anch’io che calare le cose dall’alto, d’autorità, non sia la scelta migliore, per tanti motivi. Ma anche lasciare che le cose vadano come vanno, sempre d’autorità anche se diversa (un Primus e una Maggiornaza CORROTTI), potrebbe portare a conseguenze disastrose, anche se non paragonabili a quelle del passato.

    Ci sarebbe la via “magrebina”, a furor di popolo, pericolosa anch’essa però, sia per i possibili risvolti o sviluppi, sia per l’incertezza del successo, dato che le risultanze elettorali fanno credere che il popolo non sarebbe poi così compatto. Pensare poi di dare un segnale forte con le amministrative, è anche questa una pia illusione, perchè le realtà locali sono parecchio slegate dalle vicende nazionali; “per fortuna” dico io, perchè almeno lì emergono un po’ più i fatti e le questioni concrete, che i più possono vedere con i propri occhi.

    Tuttavia è in questa direzione che bisognerebbe cercare le soluzioni, in ogni caso non per domani ma per dopo. PARTIRE DALLE COMUNITA’ LOCALI è l’unica via percorribile, fatta di pazienza e buona volontà, per uscire dai “partiti presi” e tornare a un dialogo aperto che porti ad una rinnovata “EDUCAZIONE ALLA DEMOCRAZIA”. Quella “Santa Alleanza” che qualcuno ipotizza, che vada dal “missino” Fini al “comunista” Vendola, non bisognerebbe sancirla anche quella “d’autorità”, dall’alto, ma dovrebbe diffondersi fra il popolo, LA GENTE, alle prese con i piccoli problemi quotidiani. E chi più degli amministratori locali potrebbe coinvolgere i cittadini di ogni Comune? Chi più di coloro che nel sociale operano, e avrebbero gli strumenti e lòe capacità di porsi come mediatori fra SOCIETA’ e POLITICA?

    Al momento non vedo vie più facili, e stando così le cose gli sbocchi possibili resterebbero soltanto QUALUNQUISMO e ANARCHIA.

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