Dalla crisi economica si esce col compromesso?

4 Dicembre 2011
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Lucio Magri

Lucio Magri studiò a fondo le varie crisi del capitalismo. Citò spesso nelle sue relazioni il New Deal roosveltiano, che lo affascinò e  da cui trasse ispirazione nl prendere posizione sulle diverse crisi italiane. Dal libro “Il sarto di Ulm”, ecco una rivisitazione critica di alcuni passaggi della storia del Pci e una riflessione sulla sinistra di fronte alle sfide della globalizzazione.

Certo non è affatto scontato che una perturbazione economica grave porti necessariamente la sinistra alla sconfitta, né che il capitalismo abbia in partenza tutti gli strumenti per fronteggiarla rapidamente, per risolverla a proprio vantaggio e per imporre una ristrutturazione come meglio crede.
La crisi del ’29 portò al New Deal e assicurò a Roosevelt ben tre conferme alla presidenza, o portò invece al nazismo in Germania e alla guerra e, alla fine, a un compromesso positivo tra i due sistemi in competizione. Ma è certo che sempre una tale crisi impone, in un senso o nell’altro, scelte difficili, programmi alternativi coerenti e coraggiosi, una forte e stabile base di consenso nella società, leadership di grande statura capaci di sostenere forti scontri o di costruire compromessi reali, la capacità di guardare al futuro.
Tutto ciò è molto difficile averlo o costruirlo, sempre e per tutti. Nel nostro caso, e nel periodo di cui parliamo, lo era particolarmente. Perché la crisi economica investiva un insieme di paesi, ai quali eravamo ormai collegati, dovevamo fronteggiarla in un paese relativamente piccolo e l’Europa era solo un mercato comune ed era politicamente subalterna. Perché dovevamo e volevamo muoverci entro i limiti di una democrazia rappresentativa e fragile, che può funzionare al meglio quando si tratta di ridistribuire la prosperità o di sostenerla, ma funziona molto meno quando si tratta di pagare prezzi immediati in nome di progetti futuri, di smantellare poteri incardinati e di sostituirli con altri funzionanti, di costruire compromessi convincenti e vantaggiosi per chi ti sostiene, e imporli a chi non è disposto a compromessi se non avari e a parole. Perché, oltretutto, non eravamo, in un senso o nell’altro, consapevoli della realtà in cui ci muovevamo, tanto meno ne avevamo rese consapevoli le masse; e dunque non conoscevamo il minimo, che essa ci imponeva di raggiungere senza capitolare, né il massimo, che ci permetteva di proporci.
Visto a posteriori, e usando la metafora scacchistica da cui sono partito, non esistevano le condizioni di una transizione al socialismo, che non poteva ormai avvenire in un ambito nazionale, ma erano inadeguate limitate riforme correttive; si trattava di evitare una sconfitta e di usare un’effettiva forza, ormai acquisita, per strappare «una patta» che consolidasse quanto ottenuto, di lasciare aperta una strada, di evitare un declino, conservare e rimuovere un’identità su cui far leva e affrontare lo scontro successivo profondamente e a lungo.
Nel 1944 Togliatti ci riuscì. Negli anni settanta Berlinguer non ci riuscì, per errori non solo suoi, dei quali fu poi consapevole, ma su cui non si può tacere. Anche in quella fase di crisi, però, come sempre, oltre l’aspetto della «distruzione» dell’assetto preesistente, e al caos, covavano e cominciavano a profilarsi elementi di una successiva ristrutturazione. Nella fase finale, o immediatamente seguente, della guerra antifascista per esempio già erano mature le condizioni della futura guerra fredda, dell’egemonia americana in Occidente, dell’unificazione del mercato europeo, insomma di un nuovo assetto capitalistico e di un mondo bipolare. Su quel futuro anche Togliatti non era stato lucido (a differenza di Gramsci).
Ora di nuovo cominciavano a emergere i segnali di un assetto diverso: un’accelerazione della globalizzazione che integrava nuovi paesi, un salto tecnologico, una diversa composizione di classe e così via. Prima che esso prendesse forma, occorreva intellettualmente interrogarsi su quelle tendenze latenti per attrezzarsi a fronteggiarle per tempo.

Un matrimonio mai consumato


Il Pci venne così a trovarsi davanti a due problemi molto difficili. Due problemi distinti, non esattamente contemporanei, ma che rapidamente e sempre di più s’intrecciavano l’uno all’altro e reagivano a vicenda. Entrambi esigevano risposte in tempi brevi e chiarezza di obiettivi per il lungo periodo. Innanzitutto il problema di offrire uno sbocco politico adeguato a un conflitto sociale, cui aveva variamente contribuito e dal quale proveniva gran parte dei suoi vecchi e nuovi elettori, evitando però un collasso produttivo e una vincente controffensiva reazionaria.
In secondo luogo il problema di fronteggiare una recessione economica e un caos finanziario di dimensione internazionale e di lunga durata. La responsabilità di affrontarli gravava di fatto quasi per intero sulle sue spalle, perché, anche per colpa sua, era l’unico ad avere la forza per provarci e qualche attitudine intellettuale a porseli. Accusare il Pci, e in particolare Berlinguer, di essersela assunta, e averla usata unicamente per aprirsi una strada al governo e togliersi di dosso la pregiudiziale che per principio lo escludeva, a me pare perciò ingiusto e fuorviante. Altrettanto ingiusto leggere nelle sue scelte l’inconfessata intenzione di liberarsi di una identità comunista.
Questo non impedisce però di esprimere, anzi rende più incisiva, la critica della sua politica degli anni settanta, nel suo insieme e in quasi tutti i suoi passaggi. Io per esempio, dall’inizio, riconobbi che essa affrontava problemi reali, conteneva anche parziali verità, ma sostenni che era in radice sbagliata la risposta che a quei problemi offriva. Errori tattici o di gestione successivi, difficoltà imprevedibili, sabotaggi opposti da altri soggetti certamente aggravarono le cose, ma sono anch’essi rivelatori di un errore e anche di una fragilità che stavano alla base di un disegno tenacemente perseguito per quasi dieci anni e che lo destinavano all’insuccesso.

I primi passi di una politica

La linea politica che Berlinguer elaborò per rispondere a questi complicati problemi, e applicò per tappe ma con tenacia, prese forma ben prima di assumere il nome di «compromesso storico». Mosse i primi passi già nel 1970, in modo prudente e su vari terreni, ma non è tuttavia impossibile cogliervi subito un filo conduttore e valutarne l’importanza.
Il filo conduttore della prima tappa era implicito ma coerente nel suo obiettivo, che infatti fu raggiunto prima del previsto. Il ragionamento era semplice e aveva dalla sua la forza del buon senso. Per imporre una svolta al governo del paese, in tempi ragionevolmente brevi come le cose chiedevano, per via democratica e senza correre il rischio di scontri precipitosi e perdenti, la premessa necessaria, se non sufficiente, da porre era la conquista di una forza elettorale tale che non si potesse governare l’Italia senza e contro il Pci.
Questa era la priorità. Per conquistarla, Berlinguer pensava, non bastava un ulteriore rilancio del conflitto sociale, sia pure con rivendicazioni legittime e sentite, che interessavano però principalmente strati proletari e avanguardie già spostate a sinistra. Occorreva spostare una parte disagiata del ceto medio, arroccato nei suoi piccoli privilegi e legato a un’ideologia tradizionale, e neutralizzare l’ostilità crescente della moderna borghesia scossa dalle lotte operaie.
Di questo si discusse a più riprese apertamente e vivacemente nella Direzione del partito. Come risulta dai verbali, per una volta utili, Berlinguer direttamente propose una novità che si esprimeva, preliminarmente, in un giudizio molto più preoccupato sulla situazione economica e sulle spinte a destra che produceva nella società. Per arginarla occorreva, non promuovere, ma frenare rivendicazioni e vertenze sul versante dello stato sociale, che il sindacato stava avviando. E quando Lama disse che tali vertenze non chiedevano salario per gli operai, ma diritti per tutti, Berlinguer, per essere più chiaro, gli replicò: «Si tratta comunque di salario indiretto».
Una scelta così netta non era opportuno comunicarla al partito e avrebbe acceso critiche nei sindacati di categoria, ancora impegnati sul fronte dei contratti. Ma l’eco sarebbe certamente arrivata a orecchie ben disposte. All’esterno, con un documento pubblicato sull’Unità, fu rivolto un segnale più generico: il Pci era una forza nazionale pronta ad aiutare il paese in difficoltà. E quel segnale fu recepito e apprezzato da una parte dei padroni. Perché la Confindustria era divisa tra una parte ottusa, che detestava i sindacati e portava i capitali all’estero, e grandi imprese consapevoli della necessità di tenere aperto il dialogo.
Questa parte, la più potente, infatti faceva nuovi investimenti tecnologici, come sempre per ridurre il numero degli occupati, ma non potendo più ottenere un taglio del salario grazie alla sola disoccupazione, avviava una nuova strategia, lenta nell’immediato, ma piena di futuro. Esternalizzava alcuni pezzi della produzione verso l’indotto non protetto socialmente, e contemporaneamente differenziava i propri impieghi di capitale assumendo la figura di holding finanziarie. Tutto questo non era favorito dallo scontro, aveva bisogno di sponde politiche. Cosicché i grandi giornali, di sua proprietà, e anche esteri, cominciarono subito a parlare del Pci come di una forza «responsabile».

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