Si può essere ottimisti sul futuro dell’Europa unita?

15 Ottobre 2012
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Gianfranco Sabattini

Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, con il suo impegno da “consumato” statista (cioè da politico che decide oggi in funzione della soddisfazione degli interessi delle generazioni future), ha concorso a fare dell’Istituto da lui presieduto un prestatore di ultima istanza che, con il possibile acquisto di bond a scadenza triennale, si è trasformato in scudo anti-spread a favore di tutti i Paesi dell’eurozona con i conti pubblici non in regola, disposti però ad adottare le riforme interne che verranno concordate di volta in volta.
In tal modo, Draghi ha agito, perifrasando un celebre aforisma di Barbara Wootton, da “campione dell’impossibile” piuttosto che da “schiavo del possibile”, ridando forza alla prospettiva di un’evoluzione positiva del “disegno” di un Europa politicamente unita e riducendo a niente più di una specie di “rosario passatempo” le litanie di tutti quei politici (la cui prospettiva temporale di azione non va oltre il tempo che intercorre tra un’elezione e la successiva) che, a volte, intendono esorcizzare la crisi sollecitando con superficialità la creazione immediata degli Stati Uniti d’Europa e, a volte ancora, cercano di catturare il consenso abbagliando gli elettori con la recita di slogan obsoleti, utili solo ad evocare un possibile ricupero della piena sovranità nazionale, senza alcuna valutazione delle conseguenze negative.
Le iniziative di Mario Draghi sono valse a dimostrare che l’integrazione economica e quella politica degli Stati dell’UE possono progredire parallelamente; ha così ridato fiato alle “trombe” dei filoeuropeisti, i quali, dopo il susseguirsi degli eventi che hanno caratterizzato l’intera estate, erano fortemente preoccupati sulla possibilità di tenuta delle istituzioni dell’eurozona. L’ottimismo ha persino consentito di ricuperare alla causa dell’UE un euroscettico come Niall Feguson. Per il docente di storia moderna all’Università di Harvard, tuttavia, per salvare l’euro non è sufficiente lo scudo anti-spread; occorre tornare allo spirito del 25 marzo del 1957, allorché a Roma i sei Paesi fondatori firmarono il Trattato CEE, ma non per celebrare un evento del tempo passato, ma per decidere come rimuovere i limiti che ancora permangono nei diversi trattati che hanno fatto seguito a quello originario; in particolare, per ridefinire l’identità del nuovo soggetto politico che si vuole realizzare, partendo dall’accertamento delle differenze profonde ancora esistenti. Queste differenze non stanno solo nei “numeri dell’economia”, stanno anche nelle differenze parametriche relative ad aspetti più sottili sinora trascurati e decisivi per la qualità della vita pubblica e privata dei cittadini europei e non riconducibili agli standard in funzione dei quali si viene ammessi a fare parte del “club europeo”.
Esistono, infatti, altri standard che Ferguson, elencandone 15, trae dal “World economic forum” del 2011 (protezione dei diritti d’autore, efficienza anticorruzione, argini ai favoritismi politici, ecc.), la cui mancata uniformizzazione è destinata a rendere artificiale qualsiasi progetto di unione politica. L’Europa dovrebbe, quindi adottare, per Ferguson, il metodo Draghi allargandolo però anche a tutti gli altri settori in cui permangono differenze profonde. A tal fine, le istituzioni europee dovrebbero essere guidate da veri statisti dotati di lungimiranza e di grande capacità unificatrice per rimuovere le differenze territoriali residue. In questa prospettiva, conclude Ferguson, legando l’azione a breve a quella di più lungo periodo, gli “aiuti” ai Paesi membri dovrebbero essere distribuiti solo a fronte di progressi, non solo sulla contabilità di bilancio, ma anche sulla tutela dei diritti d’autore, sull’efficienza dei tribunali civili, sulla valorizzazione del merito e così via.
L’azione per cambiare gli atteggiamenti euroscettici sulla via della definitiva realizzazione dell’unità politica dovrebbe prendere perciò una forma molto diversa dai negoziati sui soli “numeri dell’economia”, per stimolare e potenziare i sentimenti pro-europei. Oggi, questi sentimenti sono latenti e sopiti dall’incapacità dei singoli Paesi di pervenire, ispirandosi all’azione di Mario Draghi, ad una più approfondita unificazione delle politiche nazionali che più possono concorrere al ricupero di una condizione di stabilità e di ripresa della crescita dell’intera eurozona.
 

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