Quale verità sulla responsabilità della crisi?

21 Dicembre 2013
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Gianfranco Sabattini

Le difficoltà nelle quali versa il Paese causano il succedersi di dibattiti e di analisi riguardanti la possibilità e la capacità che l’economia nazionale possa superare il momento difficile attuale. Gli esiti confusi sia dei dibattiti che delle analisi non consentono però di valutare quale futuro si stia prospettando per gli italiani; in particolare, contraddittori e a volte confusi sono gli approfondimenti riguardo agli effetti dell’aumento fuori controllo del debito pubblico, il cui contenimento e la cui diminuzione sono considerati la “via maestra” attraverso cui passa il possibile rilancio della crescita dell’economia del Paese.
Una prima fonte di confusione nasce dalla “disputa” che contrappone chi sostiene che l’aumento del debito pubblico è stato originato dalla crisi a chi invece sostiene il contrario, cioè che è stata la crisi e la conseguente austerità ad originarne l’aumento. I sostenitori della prima tesi si rifanno al fatto che, nel periodo antecedente lo scoppio delle crisi nel 2007/2008, il debito pubblico è diminuito per gran parte dei Paesi europei, inclusa l’Italia, più o meno indebitati; mentre chi sostiene la seconda tesi afferma che l’impennata del debito pubblico, in particolare di quello italiano, è stata originata dal succedersi degli effetti successivi al 2007/2008. Si tratta di una falsa disputa, in quanto priva i senso, considerato che stabilire da che parte stia la verità equivale a chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina; ma quel che più è grave, è che gli effetti della disputa sono fuorvianti rispetto alla comprensione dell’intreccio complesso tra la dinamica del debito pubblico e la crisi economica e sociale che si è abbattuta sul Paese.
Il debito pubblico è l’obbligo complessivo (in conto capitale e in conto interessi) che lo Stato e tutti gli altri soggetti pubblici contraggono nei confronti di altri soggetti nazionali o esteri dai quali ricevono in prestito delle risorse, previo l’acquisto di obbligazioni o titoli pubblici, destinate a coprire eventuali deficit di bilancio. Il “debito pubblico estero” va tenuto distinto dal “debito pubblico interno”: il primo è contratto verso soggetti stranieri, il secondo nei confronti di soggetti nazionali; normalmente, nell’ammontare complessivo del debito pubblico, entrambe le componenti sono presenti in misura variabile.
Per uno Stato, l’iscrizione di un dato ammontare di debito nel proprio bilancio comporta la necessità che gli obblighi contrattuali siano sempre tenuti sotto controllo, per non correre il rischio di andare incontro a situazioni di insolvenza. In astratto; a fronte di questo pericolo, uno Stato indebitato ha a disposizione alcune opzioni: stampare cartamoneta per avvalersi dei conseguenti effetti svalutativi e inflazionistici al proprio interno; ricorrere nel breve periodo al risanamento dei propri conti mediante politiche di bilancio restrittive o di rigore, ricorrendo ad un aumento delle entrate fiscali, oppure ad una riduzione della spesa pubblica; infine, praticare nel medio-lungo periodo politiche di bilancio di tipo espansivo, per stimolare la crescita economica e conseguire un aumento del gettito fiscale. Poiché l’Italia fa parte dell’area della moneta unica europea, gli obblighi assunti con i Trattati istitutivi dell’Unione Europea le impediscono di poter fare affidamento sulla prima opzione; avendo scelto la seconda, perché costretto ad accettare i diktat dei soggetti sottoscrittori del debito pubblico sull’estero, divenuto nel frattempo preponderante rispetto al debito pubblico interno, è opinione molto diffusa e fondata che l’Italia si sia preclusa la possibilità di poter fare affidamento anche sulla terza opzione.
Ma perché il debito estero è divenuto una “variabile capestro” per l’economia nazionale? Per rispondere all’interrogativo, occorre considerare il rapporto che si è svolto tra debito pubblico complessivo e debito privato nel periodo pre-crisi. Al riguardo, si deve tenere presente che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso il debito pubblico italiano era quasi tutto interno e che nei vent’anni successivi la quota detenuta da soggetti esteri è passata dal 5,59% del 1991 al 51,4% del 2009; nel contempo, la distribuzione del debito pubblico interno è radicalmente cambiata: la maggioranza dei detentori di titoli di Stato è stata espressa dalle le banche, dagli istituti di assicurazione e da quelli di previdenza; soggetti, questi, che, va notato per inciso, in quanto investitori istituzionali, con la crisi hanno maturato la convenienza, da un lato, a conservare alto il tasso d’interesse in quanto fonte principale delle loro entrate e, dall’altro, ad impedire che lo spread (esprimente il differenziale tra il tasso di rendimento dei titoli di Stato italiani e quello di titoli di altri Stati presi come termine di confronto) si abbassasse, facendo diminuire il costo interno del denaro.
Dopo il 2009, la quota del debito pubblico detenuta da soggetti stranieri ha continuato ad aumentare raggiungendo, secondo stime della Banca d’Italia, un’incidenza rispetto al PIL del 100%, a fronte di un debito pubblico complessivo pari al 130%. Il debito verso l’estero perciò ha raggiunto, rispetto al debito pubblico complessivo, un’incidenza vicina al 76,90% circa. Una lettura “distratta” di questi dati ha spinto a pensare che la responsabilità della crisi fosse da imputarsi all’indebitamento pubblico totale in sé e per sé considerato e, in particolare, all’indebitamento pubblico verso l’estero. In realtà, la responsabilità effettiva della crisi è imputabile al debito privato, per via del fatto che è stato questo ad aver originato, attraverso la bolla speculativa nata dalla cosiddetta “finanza creativa” praticata dalle banche, la crisi dei mercati finanziari, con la successiva necessità dello Stato di intervenire, indebitandosi, a sorreggerle e risanarle. Come corollario di quanto appena detto sta il fatto che, nel periodo pre-crisi (1999-2007), l’andamento del debito pubblico e quello del debito privato hanno avuto un trend opposto, nel senso che mentre il debito pubblico è diminuito per aumentare nel periodo post-crisi, l’andamento del debito privato è aumentato nel periodo pre-crisi per stabilizzarsi nel periodo post-crisi. Questo fatto sta a dimostrare quanto siano sbagliate le tesi, tanto di chi sostiene che l’aumento del debito pubblico sia stato causato dalla crisi, quanto di chi afferma che a determinarlo sia stata invece l’austerità con cui si è inteso di superare la crisi stessa.
Sommando il debito pubblico con il debito privato, molti analisti sono stati indotti a pensare che un sistema economico non sia eccessivamente troppo compromesso se la somma non supera il 200% del PIL; ciò perché, oltre questa soglia, essi ritengono che il debito privato nuoccia all’economia più del debito pubblico. Sotto questo aspetto, in testa alla classifica dei Paesi più esposti è venuto a trovarsi il Portogallo, con un rapporto debito aggregato/PIL del 400%, seguito al secondo posto dal Giappone (386%), al decimo posto dall’Italia (250%: 130% di debito pubblico più 120% di debito privato), all’undicesimo posto dalla Svizzera (247%) e al quindicesimo posto dalla Germania (200%). Nel complesso, gli analisti hanno potuto valutare l’Italia non così tanto compromessa come spesso si sosteneva e si continua a sostenere a livello internazionale e come a volte hanno sostenuto le società di rating.
In realtà, la situazione è decisamente grave, non tanto perché la soglia del rapporto debito aggregato/PIL è superiore al 200%, quanto perché, a differenza di altri sistemi sociali che, pur gravati di rapporti maggiori come il Giappone o di poco inferiori come la Svizzera, l’Italia, al pari degli altri Paesi del Sud dell’Europa, presenta un rapporto debito aggregato/PIL piuttosto elevato, associato ad un tasso di crescita del PIL basso, quando non nullo o negativo. La crescita del PIL, infatti, sarebbe l’unico parametro atto ad indicare la capacità-possibilità per l’Italia di potersi sottrarre con certezza alle difficoltà attuali; il permanere di un basso tasso di crescita conserva invece l’esposizione del Paese al rischio di un collasso.
In conclusione, la crisi finanziaria e quella reale sono partite originariamente dal debito privato, per ricadere successivamente sul debito pubblico. Ora, posti i vincoli che gravano sul Paese, il problema principale che deve essere risolto riguarda il modo con cui portare le istituzioni finanziarie a supportare il finanziamento della spesa pubblica destinata a migliorare la competitività del sistema economico nazionale, tenuto conto che la diminuzione del costo del denaro da parte della Banca Centrale Europea non riesce a sortire effetto alcuno in tal senso. Non restano che poche scelte alternative obbligate: una è espressa dalla possibilità di utilizzare le riserve auree in surplus della Banca d’Italia, secondo il piano “bankoro” da tempo proposto, ma mai seriamente considerato; un’altra è espressa dalla possibilità di realizzare un maggiore coinvolgimento dei molti enti pubblici che, grazie all’autonomia gestionale della quale dispongono, hanno spesso aumentato la loro dotazione di risorse, sottraendosi però al dovere di concorrere al rilancio dell’economia nazionale; un’altra scelta ancora, e non necessariamente l’ultima, è espressa da una tassa patrimoniale, da fare pesare prevalentemente sui grandi patrimoni, per ”abbattere” una parte del debito estero e utilizzare la minore spesa in conto interessi per finanziare il rilancio dell’economia.
E’ possibile realizzare in Italia una simile strategia?. Si può fondatamente dubitare, considerando che i governi delle larghe intese non lasciano spazio a una plausibile opposizione costruttiva; questa, a causa del coinvolgimento dei partiti più responsabili nel governo del Paese, è lasciata a partiti e movimenti che sanno solo raccogliere voti di protesta, senza pensare a come contribuire al superamento dell’attuale impasse nella quale langue l’economia nazionale.

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