Deindustrializzazione, precariato, postdemocrazia: rovina comune di borghesia e classe lavoratrice?

22 Maggio 2014
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Andrea Pubusa

Quando viaggio, di solito, mi porto dietro o acquisto in aeroporto uno di quei deliziosi “libretti” leggibili in poche ore.  Naturalmente leggo i grandi autori. Questa volta mi è toccato Eric Hobsbowm. Nel volumetto “L’uguaglianza sconfitta - Scritti e interviste” (Datanews, 11,oo euro) lo storico marxista recentemente scomparso  si occupa, fra l’altro, del Mainifesto del Partito comunista del 1948, mettendo in luce la straordinarietà di questo libretto e il suo successo nel mondo. A parte l’insuperata descrizione della globaòlizzazione, quale libretto di oltre 170 anni fa ha ancora tanta attualità? Quale offre tanti spunti di analisi e di riflessione?
Stavolta il mio interesse si è incentrato su due questioni, solitamente lasciate in ombra o assunte ad esempio dell’erroneità delle previsioni di Marx ed Engels. La crescente pauperizzazione delle masse e l’eventualità che la lotta di classe non porti alla vittoria del proletariato sulla borghesia. Hobsbowm nega il determinismo che molti hanno letto nel marxismo: la prospettiva che la borghesia generi un proletariato rivoluzionario è “una conseguenza possibile, ma non può considerarsi l’unica“. Insomma, cosa accade se il primo non diventa il becchino della seconda? L’analisi de Il Manifesto contempla un’altra ipotesi, in passato tenuta in ombra: la rovina comune delle classi in lotta. Per tanto tempo questa ipotesi non è stata considerata perché, con l’impetuoso estendersi del comunismo nel mondo, si pensava che effettivamente la borghesia sarebbe stata sepolta dalla classe lavoratrice. Le forze autodistruttive dello sviluppo capitalistico avrebbero portato alla sconfitta della borghesia ad opera dei lavoratori, all’emancipazione di tutta l’umanità e alla fine della società divisa in classi.  Erano i tempi in cui 1/3 del mondo era retto da regimi (sedicenti) comunisti  e dunque la previsione degli autori de Il Manifesto sembrava in fase di avveramento. Oggi, dopo la implosione dell’URSS, prevale la convinzione contraria, anche perché si sono dissolti i partiti comunisti d’occidente e con essi la sinistra europea, ormai formata da un notabiliato neoliberista e, spesso, corrotto. Non si nega la lotta di classe, ma a farla e a vincerla non sono i lavoratori. Anzi, questa è la classe sconfitta. Riemerge così sotto i nostri occhi un fenomeno messo in luce dal Manifesto, che in passato sembrava sconfessato dai fatti: la crescente pauperizzazione del proletariato. Al tempo dei grandi partiti comunisti e dell’URSS i lavoratori, sulla spinta dei partiti comunisti e socialisti, si avviarono in occidente ad una progressiva crescita del reddito e delle condizioni di lavoro e di vita. Il Welfare State, d’spirazione keynesiana, assicurò salari accettabili, diritto allo studio, sanità, in una parola una vita libera e dignitosa, come recita l’art. 36 della nostra Carta Costituzionale.  Le grandi  Carte del secondo dopoguerra hanno costituzionalizzato in Occcidente questa prospettiva. Oggi, invece, anche chi lavora è spesso povero. C’è una scomparsa delle cc.dd. aristicrazie operaie e dei ceti medi. La disoccupazione cresce. La precarità è il tratto caratterizzante la nostra epoca. Le masse lentamente si abituano a vivere come nelle epoche passate, da indigenti. Ma tutto questo, anziché stimolare una reazione, come avvenne nei secoli XIX e XX, sembra portare ad una silenziosa assuefazione. D’altra parte, i lavoratori divengono classe se hanno coscienza di sé, non per un fatto meramente sociologico. La rovina della classe lavoratrice è già sotto i nostri occhi. E’ culturale prima che materiale.  Lo è meno quella della borghesia, nascosta dai crescenti arricchimenti dei ceti sociali dominanti e del grande capitale finanziario. I manager multimilionari sono i nuovi nobili del presente come quelli a cui i monarchi assolutisti concedevano latifondi e castelli. E’ in sfacelo invece la produzione industriale. Se, dunque, la borghesia è propriamente la classe che detiene i mezzi di produzione e produce i beni, non c’è dubbio che la rovina dei produttori è comune. La rovina dei lavoratori è l’altra faccia della medaglia della rovina dei proprietari dei mezzi di produzione. D’altra parte, Marx ed Engels hanno sempre evidenziato la stretta correlazione fra borghesia e proletariato, prodotti storici di un fenomeno economico e sociale unico.
Dove si andrà a parare? E’ difficile dirlo. Per ora si vedono le tendenze: estensione della pauperizzazione e concentrazione in poche mani della ricchezza e del potere finanzario. Smantellamento della democrazia non solo nei suoi aspetti formali e istituzionali: scompaiono i parlamenti effettivamente rappresentativi anche in occidente sotto i colpi di leggi elettorali assurde che incoraggiano l’astensionismo. Si punta a far perdere ai ceti popolari perfino il gusto e la convinzione dell’utilità del voto. Si eleggono caste, distaccate e contrapposte alla grande massa degli elettori. I gruppi malavitosi si installano nelle stanze del potere politico ed economico. Si smantella lo Stato sociale e i servizi sociali, con una privatizzazione crescente di questi settori che danno profiti e vengono abbandonati a se stessi gli altri dagli apparati pubblici sempre più privi di risorse. A ben vedere si attaccano e si dissolvono gli Stati, come entità capaci di decisioni indipendenti dalle centrali finanziarie e politiche internazionali. E’ la rovina delle due parti in lotta come si legge nel mitico Manifesto del 1848? Chissà? Qualcosa di simile lo è certamente se si tiene conto che borghesia produttiva e lavoratori, pur in lotta, almeno nell’occidente avevano scelto come campo di battaglia un sistema democratico, codificato nelle Costituzioni, e che lo scontro muoveva da un assunto comune, e cioé che le due parti dovevano rimanere in condizione di esercitare efficacemente la loro funzione: la borghesia di detenere e gestire i beni di produzione e i lavoratori di lavorare in condizioni dignitose sul piano economico e di libertà. mai viste prima nella storia. Ora, sta venendo meno questa borghesia in favore del potere finanziario e, corrispondentemente,  quella classe operaia coi suoi partiti. Vengono attaccate le Costituzioni democratiche, come quella italiana. Vien meno la democrazia come campo di battaglia, come mostra il deficit democratico della UE. E questa dissoluzione della democrazia richiama molto la rovina delle parti in lotta evocata da Marx ed Engels.

1 commento

  • 1 Emanuele Pes
    21 Maggio 2014 - 23:29

    Non esiste una soluzione facile per affrontare i rapporti sociali che si stanno costituendo. Non è facile neanche immaginarla, figuriamoci metterla in pratica, pensarla in funzione di una proiezione politica di massa. Purtroppo, almeno in parte e mi costa dirlo, ha ragione Toni Negri: a suo avviso salta la Costituzione fordista. Perché è vero che la Costituzione non regge, non può reggere una società che non preveda il valore, non semplicemente economico, ma civile e morale del lavoro come pietra angolare del suo edificio. O più prosaicamente (ma sappiamo che non si riduce a questo): ti pago per produrmi la macchina, e tu me la compri. La produzione di denaro a mezzo di denaro fa implodere tutto. Sempre che si tratti di produzione (di denaro) e non di semplice drenaggio di risorse, di vera e propria rapina. Se esiste una rovina comune di borghesia e proletariato in Italia, il vuoto che crea è uno spazio funzionale allo sviluppo ineguale del capitalismo globale (imperialismo?), uno dei tanti. Ma non tutta la borghesia italiana è rovinata, una parte ha comunque tratto vantaggio da questi venti/venticinque anni di polarizzazione sociale. E se la situazione è devastante, non è comunque indispensabile essere nei punti alti dello sviluppo capitalistico per fare delle scelte politiche. Non c’è la fine della storia. Possiamo essere pessimisti, questo sempre, ma non dobbiamo certamente arrenderci. Cosa facciamo? cerchiamo una rifondazione etica, valoriale del lavoro o lottiamo per il reddito?

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