Povertà, poverello d’Assisi, Papa Francesco

17 Gennaio 2015
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Gianfranco Sabattini

Avete sentito anche ieri le parole sui poveri di Papa Francesco a Manila? “La grande tradizione biblica - ha detto - prescrive per tutti i popoli il dovere di ascoltare la voce dei poveri e di spezzare le catene dell’ingiustizia e dell’oppressione, che danno origine a palesi e scandalose disuguaglianze sociali. La riforma delle strutture sociali che perpetuano la povertà e l’esclusione dei poveri, prima di tutto richiede una conversione della mente e del cuore”. Ecco sull’argomento una riflessione del Prof. Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo cagliaritano.

Il mistero della carità è stato messo da Papa Francesco al centro del suo pontificato sull’esempio di Francesco d’Assisi, che, come afferma Monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella sua recente ponderosa “Storia della povertà”, una “tradizione consolidata chiama alter Christus, una ‘icona viva del Cristo’”. Assumendo come filo conduttore il modo in cui la Chiesa nel corso dei secoli ha soccorso i poveri in base a quanto prescriveva il Vangelo sulla predilezione di Gesù per i poveri, Monsignor Paglia ricostruisce le molteplici iniziative con cui la Chiesa ha assolto il mandato evangelico nel suo magistero e nella sua azione pastorale; e sottolinea come Papa Francesco, accogliendo l’utopia francescana, persegua non solo il consolidamento con la sua predicazione del messaggio “sbocciato” nel Concilio Vaticano II di “realizzare una Chiesa povera per i poveri”, ma anche il legame che unisce Cristo, la Chiesa e i poveri, nell’assunto che la povertà francescana non implica l’identificarsi con una classe sociale determinata o la contestazione di un particolare sistema sociale, ma solo il modo di seguire l’esempio di Cristo.
Dopo il Concilio - continua Monsignor Paglia - “si è sviluppato un dibattito tra chi sottolineava l’impegno di liberazione delle classi più povere e chi temeva che in tal modo i cristiani perdessero la dimensione più strettamente religiosa della loro identità e quella trascendente della fede”. Per anni le due correnti hanno dato luogo ad un acceso dibattito, nel comune convincimento che il magistero pontificio dovesse essere diretto a difendere il Sud del mondo, sempre più povero, a fronte di un Nord sempre più ricco. Tra gli episcopati più sensibili rispetto a questo magistero e alla necessità di ripensare il rapporto della Chiesa con le masse dei poveri vi era quello latinoamericano, all’interno del quale era impegnato il futuro Papa Jorge Mario Bergoglio che, negli incontri che l’episcopato ha tenuto in diversi Paesi dell’America del Sud, ha assunto il ruolo di protagonista; ruolo che ha avuto modo di affermare in modo definitivo in occasione della V Conferenza episcopale latinoamericana svoltasi ad Aparecida, una cittadina nello Stato di S. Paolo in Brasile. In quell’occasione, Bergoglio, divenuto nel frattempo cardinale, è stato tra i vescovi che hanno ribadito nel documento finale dell’incontro la scelta preferenziale per i poveri da parte della Chiesa e sottolineato, in alternativa alle posizioni radicali e meno spirituali dei “teologi della liberazione”, che la Chiesa “è iscritta nella fede cristologica che ha portato Dio a farsi povero per noi, per arricchirci con la sua povertà” e se l’opzione preferenziale per i poveri “è implicita nella fede cristologica, tutti noi cristiani, in quanto discepoli e missionari, siamo chiamati a contemplare, nei volti sofferenti dei nostri fratelli, il volto di Cristo che ci chiama a servirlo in loro”.
Nel documento di Aparecida, al quale Papa Francesco ispira la sua predicazione, si afferma anche che nel passaggio a un mondo nuovo, il problema della povertà non è solo un problema della Chiesa, ma è anche un problema dei singoli e delle comunità, considerando che le forme con cui si è cercato di risolverlo nel passato non sono più attuali; ciò perché è cambiato il mondo e sono cambiati gli uomini, mentre il Vangelo che vuole una Chiesa dei poveri non è cambiato ed è destinato a non cambiare. Volere una Chiesa povera per i poveri, perciò, secondo Monsignor Paglia, significa legarsi contemporaneamente al Vangelo, fonte della vita cristiana, e al Concilio Vaticano II, interpretazione alta del Vangelo per l’oggi.
Una Chiesa siffatta, che si affida solo alla forza del Vangelo, non può essere com’è solito ripetere il Papa una “ONG pietosa”; ciò perché la Chiesa sente i poveri come parte di se stessa e la decisione di stare con i poveri non è una semplice opzione sociale, o politica, o assistenziale. I poveri sono scelti per il loro valore sacramentale, ossia perché in essi è Cristo stesso ad essere presente ed è attraverso essi che Dio si rivela in noi. Secondo Monsignor Paglia, è vero che Papa Francesco non offre una prospettiva politica per rimuovere la povertà, né vuole averne una da offrire. Ciò perché è convinto che questo mondo vada cambiato, per opera di uomini spirituali, capaci di legare il Vangelo ai segni dei tempi per avviare un movimento di cambiamento; è per via di questo convincimento che Papa Francesco ha scelto di “legarsi” a Francesco d’Assisi. L’assisiate non ha cambiato la storia del suo tempo con la politica o con le armi, ma con la predicazione del Vangelo fra gli esclusi.
Per il cristiano-cattolico, dunque, la giustizia non è quella realizzata attraverso le “regole” adottate dagli uomini, ma quella determinata dalla soggettività di Dio e mediante la carità agisce al di fuori di quelle regole. La carità, intesa nel senso della Chiesa cattolica, eccede il valore della giustizia sociale pensata e realizzata dagli uomini; ma il modo di pensare la carità proprio della Chiesa cattolica è estraneo alla cultura laica moderna. Questa considera la giustizia come conseguenza di un patto solidaristico originario, teso a garantire sicurezza e riscatto dal bisogno per tutti coloro che hanno deciso di vivere insieme.
Nel mondo moderno, per sconfiggere la povertà che di continuo si ripropone procedendo di pari passo con l’evoluzione dei tempi e delle cose, occorre una riforma, sorretta da una rivoluzione culturale alla quale può certamente concorrere la predicazione ed il magistero della Chiesa, del modo di funzionare del sistema economico e delle regole distributive del prodotto sociale vigenti. Il primato in quest’azione riformista spetta alla politica, perché se è vero che la rivoluzione culturale può precedere l’impegno politico, è anche vero che senza un impegno politico radicale è impossibile trasformare qualitativamente la società; è questo il senso del “movimento ecumenico”, cioè di quel movimento che tende a riavvicinare e a riunire tutti i fedeli cristiani delle diverse Chiese, oggi sostenuto, dopo il Concilio Vaticano II, anche dalla Chiesa cattolica. Questo movimento trova il suo punto di convergenza nel “socialismo cristiano”, il cui fine sul piano dell’azione sociale è quello di fare i conti con la questione delle diseguaglianze e con quella delle cause economiche e sociali che le producono.
Poiché dal punto di vista politico, l’ecumenismo è ormai un movimento affermato, sia in ambito cattolico, che in ambito delle Chiese cristiane separate a livello di massa tra i fedeli, è da augurarsi che, accanto alla teologia della carità del cattolicesimo, si affermi anche quella meno esclusiva del movimento ecumenico, perché l’azione dei credenti possa concorrere alla realizzazione di una società giusta, nella quale i credenti stessi possano godere del fatto di trovare nella tutela dei poveri il modo in cui Dio si rivela in loro ed i laici del fatto di sentirsi “uomini di buona volontà” che, in compagnia dei credenti, sono impegnati a realizzare una società libera dai soprusi e dalle ineguaglianze.

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