Legittimità e potere per un “ordine internazionale” stabile e condiviso

21 Giugno 2015
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Gianfranco Sabattini

Il problema della necessità per i sistemi politici di disciplinare i loro reciproci rapporti esiste da molto tempo, prima ancora dell’età moderna; ciascuno dei sistemi politici autonomi doveva stabilire in che modo regolare la coesistenza con quelli vicini, ma anche con altri, non necessariamente limitrofi, che influivano sulla sua esistenza: era il dilemma che nell’età moderna avrebbe preso il nome di “ricerca di un sistema di relazioni internazionali stabile e condiviso”.
Il primo tentativo di realizzare un tale insieme di relazioni si è avuto nell’antica Grecia, che, coinvolgendo numerosissime città-stato, non si è concretizzato, solo perché ciascuna di esse ha cercato di realizzarlo esclusivamente con la forza, senza il consenso di tutte le altre. Ciò ha “spianato” la strada alla nascita degli imperi dell’antichità che, nella realizzazione di un sistema di relazioni internazionali stabile e condiviso, hanno rimediato ai limiti delle città-stato, attraverso la posizione dominante di una delle sue componenti.
Anche gli imperi, però, nei quali coesistevano popoli diversi sottomessi da quello dominante, hanno avuto la necessità di legittimarsi, dovendo offrire ai sottomessi una giustificazione del proprio dominio; ciò perché nessun impero poteva conservarsi a lungo solo con la forza, col terrore e l’uso della violenza. Al contrario, è stato indispensabile che i popoli sottomessi obbedissero a quelli dominanti, non solo per paura, ma anche per convinzione. Tutti gli imperi del passato, sino all’età moderna, hanno perciò dovuto elaborare delle “ideologie”, per giustificare le situazioni di fatto; ma la sola forza di per sé non ha mai consentito agli imperi di conservarsi stabili nel tempo.
Harry Kisinger, nel suo recente libro intitolato “Ordine mondiale”, sostiene che ciò “che ai nostri giorni passa per ordine è stato escogitato nell’Europa occidentale poco meno di quattro secoli fa, in una conferenza di pace svoltasi nella regione tedesca della Vestfalia”, dopo un secolo di conflitti settari, culminato nella guerra dei Trent’anni (1618-1648).
L’accettazione della diversità politica è stata inevitabile, dato il numero di sistemi politici autonomi che avevano lottato senza che nessuno riuscisse a prevalere sugli altri, così come è stato necessario riconoscere la diversità religiosa, dato che essa era stata infranta dopo la diffusione del protestantesimo. In questa temperie, in Europa, quattro secoli fa si sono create condizioni del tutto simili a quelle del mondo contemporaneo: “una molteplicità di unità politiche, nessuna delle quali dotata di potenza sufficiente a sconfiggere tutte le altre, in molti casi aderenti a filosofie e a pratiche interne contrastanti, in cerca di regole neutrali per disciplinare la loro condotta e mitigare il conflitto”. La “Pace di Vestfalia”, ha sancito un “adeguamento pratico alla realtà”, non una concezione valoriale unica: essa, infatti, si è basata su un sistema di Stati indipendenti che si sono astenuti “dalla reciproca interferenza negli affari interni”, controllando reciprocamente le loro “rispettive ambizioni mediante un equilibrio generale di potere”.
In questo modo, divisione e molteplicità, “un accidente della storia europea”, ha dato origine – afferma Kissinger - ai tratti distintivi “di un nuovo ordine internazionale con una propria prospettiva filosofica”; lo schema è stato replicato in altre aree mondiali, ma in nessuna di esse è stata raggiunta la necessaria stabilità. Di tutte le filosofie di ordine, solo quella posta a fondamento della Pace di Vestfalia si è progressivamente affermata, soprattutto dopo i due conflitti mondiali del secolo scorso, per assicurare quel tanto di ordine mondiale possibile. Il sistema vestfaliano attuale ha contribuito a limitare il “carattere anarchico del mondo con una vasta rete di strutture giuridiche e organizzative […], a sancire principi accettati per la soluzione delle controversie internazionali […]. Questo sistema di Stati oggi comprende tutte le culture e le regioni. Le sue istituzioni hanno fornito la struttura neutrale per le interazioni delle differenti società, in modo in larga misura indipendenti dai loro rispettivi valori”. Il sistema, pur in presenza di crisi regionali, ha consentito un lungo periodo di pace; ma negli ultimi decenni del secolo trascorso il susseguirsi di un succedersi di crisi politiche ed economiche ha messo in discussione la capacità di tenuta della filosofia vestfaliana.
Oggi l’ordine internazionale deve, infatti, affrontare lo “scontro” di due tendenze: la ridefinizione delle legittimità e il cambiamento nell’equilibrio di potere. La prima tendenza ha “preso corpo” per via del fatto che i valori posti alla base degli accordi internazionali sono stati, in tutto o in parte, trasgrediti da molti Stati che prima li avevano accettati, o che ancora non esistevano come sistemi politici indipendenti; la seconda è sopravvenuta quando l’ordine internazionale esistente ha manifestato una crescente incapacità di assorbire gli effetti dei cambiamenti nei rapporti di potere tra i vari Stati. La convergenza delle due tendenze è stata aggravata, innanzitutto dalla crisi dello Stato formale, tradizionale pilastro della vita internazionale, causata dall’integrazione nel mercato mondiale dei sistemi economici nazionali e, in secondo luogo, dal fatto che quella crisi non è stata compensata dalla presenza supplente di efficaci meccanismi di consultazione tra le grandi potenze per la soluzione delle questioni più gravi, la cui sopravvenienza ha minato la conservazione dello stato di pace globale.
Oggi, perciò, conclude Kissinger, “una ricostruzione del sistema internazionale è la sfida fondamentale per l’arte di governo”, se si vuole riaffermare l’ordine globale nelle relazioni tra le “varie regioni” del mondo, egemonizzate consensualmente da una grande potenza regionale nei confronti degli altri Stati che le compongono. Il vecchio ordine “bipolarizzato” USA-URSS, nato dopo il secondo conflitto mondiale, si trova da tempo in costante mutamento, mentre la forma di quello che lo sostituirà è molto incerta; tutto dipenderà dalla concezione del futuro che l’arte di governo saprà fare prevalere. Lo scoglio principale da superare a tal fine sarà quello di riuscire a “convertire“ le differenti culture delle diverse regioni in un “sistema comune”. Ciò, secondo Kissinger, dovrà essere fatto “nel bel mezzo della corrente impetuosa della storia”; considerata la gravità dei pericoli che incombono sull’umanità, il significato della storia dovrà essere scoperto in anticipo da chi esercita l’arte del governo, “prima che sia possibile sapere quale possa esserne l’esito”.
Quale morale può essere tratta dall’analisi di Kissinger? Se dopo oltre 2000 anni di storia, il mondo si ritrova quasi al punto di partenza dell’esperienza dell’età antica, l’idea di una “pace perpetua”, duratura e condivisa, di kantiana memoria deve essere accantonata; essa è contraddetta, sia dal radicalismo degli utopisti, sia da quello dei realisti. Infatti, in presenza delle condizioni attuali, da un lato, non è possibile fondare quel tipo di pace sulla realizzabilità di una federazione degli Stati del mondo, con la costruzione, a livello mondiale, di strutture istituzionali garantiste proprie dello Stato liberal-democratico, oppure attraverso una rifondazione dei rapporti tra gli Stati, a seguito di una rivoluzione mondiale, che rimuova dal mondo le cause della mancanza di libertà e della insicurezza interna ed internazionale. Inoltre, non è ugualmente possibile fondare la pace perpetua sulla realizzabilità, a livello mondiale, di “adeguate” strutture istituzionali, il cui funzionamento sia lasciato alla responsabilità degli Stati economicamente e militarmente più dotati.
Come si è visto, gli accordi possibili hanno una durata limitata nel tempo, mentre la loro instabilità si accompagna ad un processo storico che porta con sé un aumento della complessità della realtà globale; il mondo, perciò, deve solo sperare che chi esercita l’arte del governo sia sempre all’altezza di sapere affrontare per tempo le crescenti difficoltà delle crisi future. Prospettiva, questa, che non lascia certo l’umanità a vivere nella certezza che le situazioni future, gravide di pericoli, siano sempre tenute sotto il controllo di chi sarà chiamato alla loro soluzione.

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